Silenzio, parla Vince Clarke. E naturalmente lo fa alla sua maniera, ovvero senza usare la voce, d'altronde in più di quarant'anni di carriera non lo abbiamo sentito cantare quasi mai. Non accadrà nemmeno stavolta, eppure in un modo o nell'altro certe cose è arrivato il momento di tirarle fuori. E chissà da quanto se le portava dentro, magari dal giorno dell'addio ai Depeche Mode per i quali era stato autore di “Photographic”, primissima canzone della band di Basildon inserita nella compilation per aspiranti glorie “Some Bizarre”, nonché di buona parte dei brani di “Speak And Spell”. In seguito ha mandato in tilt le classifiche di mezzo mondo come fondatore e mente di Yazoo, The Assembly e soprattutto Erasure, formazione in cui milita dal 1985, ciononostante c'è ancora chi ritiene debba mordersi il fegato, visto come sarebbe poi andata a Gahan e soci.
“Don't Go”, “Never Never” e “A Little Respect” sono solo alcune di un'interminabile serie di hit schiaffate con nonchalance ai vertici, evidentemente però non bastano a giustificare la presenza del buon Vince nella hall of fame della musica. Colpa di certa critica snob, restia da sempre ad attribuire al synth-pop la dovuta credibilità. Ecco, allora, che “Songs Of Silence” giunge al momento opportuno e serve a spazzare definitivamente via ogni pregiudizio sull'uomo e sull'artista.
Al netto delle considerazioni snocciolate qui sopra, è esattamente l'album che nessuno si sarebbe aspettato, probabilmente neanche lui visto che nelle intenzioni iniziali doveva essere solo un giochino per mantenersi allenato durante il lockdown. Ma poi la Mute Records ha apprezzato il demo e ha deciso di farne quello che è in assoluto il suo primo disco solista, o meglio il primo firmato con nome e cognome veri, visto che in passato si era già cimentato in proprio, celandosi dietro pseudonimo nel progetto “Deeptronica” o componendo, ad esempio, delle musiche per la cognata Tonia Harley, sorella gemella della moglie Tracy. Come molti colleghi, Clarke ha approfittato della quarantena per rintanarsi in studio di registrazione, stavolta però ha optato per una soluzione ambient-drone sostanzialmente agli antipodi rispetto alle produzioni uptempo e festaiole che lo hanno reso celebre, come lasciato oltretutto presagire dai numerosi riferimenti a carattere religioso disseminati tra i titoli in scaletta. Per “Songs Of Silence” si è imposto due regole fondamentali: una è che l'impianto di ogni brano fosse basato su una sola nota, senza alterazioni di chiave, l'altra è che i suoni venissero generati esclusivamente da sintetizzatori modulari Eurorack, quindi rimanipolati in fase di stesura tramite software Logic-Pro.
All'interno di queste restrizioni il talento del tastierista di South Woodford è libero di volare, ovunque purché anni luce lontano dalle strutture pop convenzionali: non ci sono strofe, ritornelli né ambizioni da chart, ma a scongiurare il rischio di monotonia dei bordoni interviene in ciascuna delle dieci tracce un provvidenziale elemento di rottura, quasi a voler sancire la supremazia della mano umana. Nella sacrale apertura “Cathedral” è un campionamento vocale di un pilota d'aerei a catturare l'attenzione, mentre nel finale di “White Rabbit” (la citazione dell'omonimo successo dei Jefferson Airplane è puramente casuale) è la tambureggiante escalation tribale a destabilizzare la trama.
Il singolo di lancio “The Lamentations Of Jeremiah”, pubblicato a settembre, è contrassegnato dal violoncello nevrotico di Reed Hayes, la maestosa “Passage” invece dal singhiozzo apocalittico della soprano Caroline Joy, che impreziosisce il malinconico tappeto elettro-prog di un'intro che a qualcuno farà tornare in mente “Equinoxe” di Jean-Michel Jarre (con il quale tra l'altro Clarke ha collaborato di recente in “Electronica 1: The Time Machine” del 2015).
Le atmosfere sono ovunque ombrose, cupe e contemplative, l'immaginazione vaga in un universo stratificato privo di beat dove kosmische music, Brian Eno, psichedelia e Vangelis si rincorrono in un flusso di coscienza fuori da ogni logica. “Blackleg” è una lamentosa variatio dark-folk di un canto di protesta dei minatori in sciopero nella Northumbria del Diciannovesimo secolo, “Red Planet” evoca spaventose battaglie laser e invasioni aliene in sci-fi, “Mitosis” resuscita (e non solo nel significato) gli esperimenti in cariocinesi del Franco Battiato di "Fetus".
In generale, i motivi d'interesse sono tantissimi, basti dare un'occhiata ai droni scintillanti di “Imminent”, a “Scarper” (spizzicata alla chitarra su groove qui affini alla techno d'ordinanza) o alle sirene di pericolo intermittente della conclusiva “Lost Transmission”, a conferma che questo ormai sessantatreenne veterano dei jingle orecchiabili quando vuole sa scavare nel profondo setacciando tra le emozioni.
Sincero, minimalista e intrigante: da ascoltare in cuffia più volte, con dedica ai detrattori da parte di un artista nobile, che ha scelto il silenzio per dire le cose più importanti.
16/12/2023