Giungono notizie confortanti dal pianeta Everything Everything.
La band art-pop originaria di Manchester è arrivata a diffondere il settimo album di una carriera partita a razzo, grazie a quel trittico da ko tecnico formato dall'album d'esordio "Man Alive" del 2010, poi progressivamente onorato da "Arc" del 2013 e soprattutto da "Get To Heaven" del 2015; tre volumi brillanti (non che i successivi siano stati deludenti, anzi) e sottilmente violenti, che hanno rappresentato una sorta di manuale contenente i requisiti del perfetto prodotto pop moderno.
Il loro sound è corroborato da valangate di idee inusuali, da suoni mai banali, che spaziano tra vari generi musicali e da tematiche complesse, stese su motivi che colgono nella fruibilità il proprio vessillo principale. "Mountainhead", questo è il titolo dell'ultimo lavoro, non sembra fare eccezione.
Da qualche tempo Jonathan Higgs e soci hanno spostato l'ago della propria bussola stilistica verso un synth-pop che sembra voler attenuare sempre di più il ruolo delle chitarre, soprattutto se si riafferrano le alchimie espresse agli esordi.
Resta immutata, invece, la proverbiale capacità di richiamo, di presa sull'ascoltatore, costruita su architravi che ben poco hanno a che fare con le convenzionalità, a cominciare dalla copertina del disco e di conseguenza dal pensiero espresso in questo concept album, che punta il dito sugli aspetti più negativi del capitalismo contemporaneo.
I testi di Higgs abbandonano le sperimentazioni con l'AI utilizzate per l'ottimo "Raw Data Feel" e dipingono una società futuristica, fortemente distopica, impegnata a innalzare ininterrottamente una montagna, simbolo del potere economico ottenuto con i mezzi più biechi. Tale obiettivo è però raggiunto a discapito del popolo, formato dai cosiddetti Mountainhead del titolo, che, ignaro (e colpevole), lavora alacremente, e in modo paradossale, per alzare sempre di più la vetta di questo monte figurato e lo fa scavando una fossa ai piedi di questo rilievo, sempre più profonda, così da far apparire ancor più sovrastante una cima che, in realtà, indugia sempre alla stessa quota: è il resto della società che sta inesorabilmente sprofondando. Tra l'altro, giusto per non farsi mancare nulla, in quell'affollata cavità, che richiama un po' l'inferno dantesco, vive un famelico serpente dal quale tutti devono tenersi alla larga, e anche qui la metafora è offerta su un piatto d'argento.
Con contenuti di questo tipo, che come loro abitudine non escludono anche una speziata dose d'umorismo, ci si aspetterebbe un quadro musicale oscuro, aspro, e invece la formazione mancuniana controrisponde con uno schema formato da synth fluttuanti e basso pulsante; il pop più scintillante è al centro dei giochi e l'interesse della band per la dance e la techno è più visibile che mai.
Brani come "Cold Reactor", "RU Happy" e "The End Of The Contender" hanno il pregio di fiondarsi in mente senza risultare stucchevoli, aizzando anche qualche ambizione danzereccia. In questo, il lavoro alla batteria sviluppato da Mike Spearman e quello disposto da Alex Robertshaw sui synth modulari - l'effettivo fulcro dell'intera opera - spingono gli Everything Everything verso iperattive eccellenze glitchcore.
Il decoupage sonoro dell'opener "Wild Guess" si aggiunge alle combinazioni vocali e strumentali di "Cold City" e alle cangianti rifiniture di "Your Money, My Summer", mentre i refrain dance-pop di "Don't Ask Me To Beg" ed "Enter The Mirror" sono incastonati su telai sonori multiformi.
Qualche lazzo di asperità è offerto da "Canary", feroce e accusatoria nei contenuti, e da "Dagger's Edge", tra i passaggi migliori in scaletta, due brani dove la chitarra di Robertshaw emerge con evidenza dal cantuccio cui è stata intenzionalmente relegata.
Sul finale le anime si distendono su vibrazioni più introspettive, dove la melodia va a braccetto con il sentimento di smarrimento ("City Song") o di distaccamento allegorico dalla disperazione ("The Witness"), riecheggiando, nel secondo dei due brani soprattutto, i Radiohead più essenziali, grazie a un arrangiamento elettronico fintamente semplificato e all'acuta vocalità di Higgs, uno dei caratteri distintivi (da sempre) della formazione di Manchester.
Racchiudere in unico album, e in modo omogeneo, i poli opposti di una modalità stilistica quanto più verosimile e cioè quello più ballabile congiuntamente a quello più riservato, non è un'impresa semplice. Attuare questo programma senza che i cambiamenti di modulazione risultino contrastanti è ancora più impressionante.
Ascoltando "Mountainhead" è difficile trovare qualcosa che sia fuori posto. Si potrebbe muovere qualche piccola rimostranza sulla durata, che se fosse stata ridotta di alcuni episodi non propriamente a fuoco, avrebbe incrementato ulteriormente il livello di coesione e fluidità d'ascolto.
Gli Everything Everything continuano imperterriti nel loro eclettico percorso che fonde indie-rock con elementi di pop elettronico, art-rock e molte altre influenze, che talvolta fanno l'occhiolino persino ad aromi progressive. Il novero di chi rientra in questa categoria è parecchio nutrito, ma Higgs & C. posseggono ancora, dopo tanti anni e con parecchi album alle spalle (costantemente di buon, se non ottimo, livello), quel grado di appeal che tanti altri talvolta smarriscono.
07/03/2024