Eccolo qui, “The Fly Circles The Drain As If It Were An Orchid Blooming”, il nuovo album di Fog, su cui lo stesso artista di Wilmington, Delaware, così si era espresso qualche mese fa: “L'album è incentrato sulla morte e sul processo di comprensione della stessa. Cosa significa morire o uccidere. In questi tempi confusi, la vita non è data per scontata, ma sembra che lo sia la morte. In questo momento, migliaia di persone stanno morendo a Gaza e ovviamente mi sento in colpa per questo. A conti fatti, però, sono solo una persona e non c'è nulla che possa fare, né un'associazione di beneficenza a cui possa donare o una protesta a cui possa partecipare per porre fine direttamente a questa sofferenza. E questa sofferenza non riguarda solo Gaza: basti pensare a ciò che sta accadendo a Myanmar con i Rohingya o al genocidio del popolo uiguro per mano del Partito Comunista cinese. Questo mio nuovo album è un’indagine sulla futilità della morte e sul processo di morte, e spero che il suono rifletta tutto questo. Sarà sicuramente una nuova direzione per me.”
A distanza di qualche mese da quella nostra intervista, scopriamo che è stata soprattutto la malattia della madre a rinnovare in Fog quell’atavica paura, tanto da spingerlo, musicalmente parlando, verso una “nuova direzione”, così nuova che Fog ha rivelato, durante una conversazione privata, che “The Fly Circles The Drain As If It Were An Orchid Blooming” è l’ultimo disco di questo suo progetto, una scelta dettata anche dalla volontà di metterci un punto con quella che lui stesso ha definito come la sua “opera più onesta”.
Ne prendiamo atto e ci immergiamo in questa nuova, mastodontica avventura, in cui l’influenza di Paul Dolden resta ben salda sullo sfondo in diversi brani (“alcuni li definirebbero inducenti alla paura”, precisava Fog, riferendosi innanzitutto al primo singolo dell’album, “May 30, 1431, Rouen, France”), così come resta solido e certosino il lavoro di stratificazione delle sorgenti sonore, realizzato utilizzando la fedele Audacity.
Come nel precedente e splendido "Thirty Three, Recurring", anche in questi solchi la musica pulsa, vibra e si espande dentro spazi mentali, giocando sulla contrapposizione di ripetitività e accumulazione. La resa complessiva, come nel caso dell’iniziale title track (in cui l’elettronica sembra riprodurre il ronzio ipnotico di una mosca, mentre gli archi fluttuano nel vuoto e il tutto si dipana come una colonna sonora dell'incertezza), è quella di un panorama dalle tinte esistenziali.
Fog pesca anche nel cesto della scuola chicagoana della AACM per muoversi su di un’astratta tavolozza elettro-cosmica (“Tumors”, “You'll Hang for This”), oppure per preparare il terreno a una disorientante jam per poliritmi, loop vocali e bollicine di synth (“The Process of Letting Go”), fino ad approdare, in qualche caso, a una musica da camera profondamente destabilizzante (“End-Stage Liver Disease”).
La sua è anche un'arte della deformazione prospettica, in cui il flusso psichico viene piegato a farsi estasi informe (“It Doesn't Feel Good Anymore” e la prima parte di “Sodium Pentobarbital”). “Asbestosis” è un’altra escursione nell’ignoto, questa volta però sospinti da uno stantuffo-respiro e, quindi, da una batteria istericamente marziale. In “Ab Aeterno”, invece, è di scena un corale pregno di malinconia.
Al centro dell’opera si stagliano i ventitré minuti di “Threnody For Hernán Cortés”, aperta da una violenta conflagrazione free-improv per sax orrendamente filtrato, synth gorgoglianti, pulsazioni ottundenti e violente pennellate, salvo poi essere orchestrata come una sinfonia in cui musica post-industriale e contemporanea procedono a braccetto, inoltrandosi sempre più dentro brume di incubi.
Evocativo ed incredibilmente ricco di dettagli, enigmatico e stimolante, “The Fly Circles The Drain As If It Were An Orchid Blooming” è destinato a restare, come tutti i lavori di Fog, materia per pochissimi intimi.
04/11/2024