Con i suoi settantamila abitanti, Wilmington non è soltanto la città più popolosa del Delaware, ma è anche quella in cui l'attuale presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, aveva fissato la sua residenza prima di trasferirsi, una volta eletto, alla Casa Bianca. Proprio da questa ridente cittadina (è così che si dice, no?) proviene uno dei musicisti più misteriosi di questi anni, così misterioso da non aver risposto alle svariate mail che il vostro affezionatissimo redattore gli ha inviato, sperando di avere qualche notizia in più sul suo conto e, soprattutto, sulla sua musica. Poco male: in un mondo in cui la visibilità è tutto, ben vengano quegli artisti che scelgono di nascondersi, mostrandosi agli altri solo attraverso la propria arte. Nel caso specifico, Fog, più che un vero e proprio musicista, sembra assomigliare a un universo parallelo in cui free-improvisation, elettroacustica, sound collage, jazz mutante, avant-folk e un gusto “totalista” per l’organizzazione del suono si sono dati appuntamento, manifestandosi come forme in continuo divenire, sfuggenti, “nebbiose”.
È solo nel febbraio dello scorso anno che Fog ha cominciato a rendere disponibili, tramite Bandcamp, le sue registrazioni, la prima delle quali, Basking In It, ha anche inaugurato la trilogia intitolata "Infinite Love". Caratterizzata da atmosfere elusive, quando non propriamente inquietanti, l'opera si muove tra esotica dark-ambient (“I Am The Center Of The Universe”), viaggi attraverso giungle psichiche, dove le voci sono pura ipnosi (“Every Tree Loses A Branch”), sermoni adagiati su un tappeto di disturbi alieni (“The Cement, Holy Cement, It Does Bind Us To This Blessed Ground”) e pulviscoli fatti di tenebra che scortano formule liturgiche ripetute come mantra (“Dung King, Pure God”). C'è spazio, infine, anche per l'ascensione cosmica di “Trillions” (che sarebbe piaciuta a Constance Demby) e per l'elettroacustica informe della title track, il cui Sacro Graal è una musica da camera sospesa a mezz’aria.
Dopo il deludente Ep Jeweled Throne, contenente il solo brano eponimo di quindici minuti (che, a voler essere buoni, si potrebbe definire come un’ottusa colata di rumore), nell’agosto del 2022 è la volta dell'omonimo Fog che rappresenta, come si legge su Bandcamp, il “culmine di sette mesi di terrore”. Non è un caso, quindi, che questi solchi siano dominati da atmosfere fosche (“Lord Please Help Me”, “Lycurgus Cup”), quando non sinistramente surreali (“Life In A Jar”), mentre “Limp Like A Newborn Deer” è indecisa tra una ambient pulsante e bordate di rumor bianco.
Nel novembre successivo, viene reso disponibile il più prevedibile Idle Hands, che chiude la trilogia "Infinite Love", sul quale Fog è accompagnato da Dave aka Lamb Faucet (clarinetto) e supportato, in fase di ispirazione e realizzazione degli arrangiamenti, da DMN (DarkMatterNebula).
Accanto al rumorismo quasi divertito di “Popping Balloon Animals” e a quello destabilizzante di “Little Lamb” (brano che nella seconda parte acquisisce una consistenza polidimensionale, con le diverse sorgenti sonore a spingersi, ognuna per proprio conto, verso un anti-climax perfetto per preparare il terreno alla successiva “Painted Dogs”, il cui lento, inesorabile crescendo si spegne all’improvviso), tra i brani migliori sono da ricordare “Time Is Running Out”, perfetta come colonna sonora per un’escursione nei cunicoli dell'inconscio, e soprattutto “Hors D'oeuvres Are Served”, in equilibrio precario tra musica da camera d’avanguardia, un percussivismo tellurico e un Captain Beefheart al limite delle forze mentre soffia in un clarinetto. Molto meno convincenti risultano essere, invece, la tutto sommato sterile fusione di dark-ambient ed elettroacustica del brano eponimo, l'impianto thrilling di “The Magic Chord” e il drone fibrillante di “Infinite Love”.
Non passano nemmeno tre mesi che Fog torna a farsi sentire con Insect, “un collage di tutte le creature grandi e piccole, creato in un processo di profondo pensiero meditativo”. Tre brani in tutto: l’ipnotica ascesa tribal-fantasmatica del brano che dà il titolo all'album, le torbide profondità di “Between” e il rituale percussivo di “Whale”, con tonfi potenti nel finale.
Per quanto nei precedenti lavori, con il picco di Basking In It, Fog avesse mostrato di avere alcune carte interessanti da giocare, nulla lasciava presagire lo straordinario salto di qualità rappresentato da Thirty Three, Recurring, presentato come “an exploration of recurrence” e destinato a restare uno dei dischi più creativi di questi anni, ancorché, molto probabilmente, uno dei più misconosciuti.
Coadiuvato da una serie di collaboratori – l’australiano Wagon Lord (tromba), l’inglese CJT (campane tibetane, chitarra), il polacco The Eternal Returns (elettronica) e i conterranei Tsirko (kalimba), Neopoliten (sega ad arco) e il fido Dave (chitarra, percussioni, clarinetto) - Fog (che qui si divide tra campionatore, elettronica, percussioni, chitarra e pianoforte) plasma la sua musica con cura maniacale, lavorando sia sui dettagli che sulla grana complessiva delle varie texture. Il risultato è uno spazio sonoro in cui l’ascoltatore non può far altro che abbandonarsi così come ci si abbandona a un incantesimo, travolto dalla totalità di un suono in cui anche il dettaglio più insignificante, perché magari banalmente sommerso da ciò che più facilmente raggiunge la superficie, assume un peso enorme, ragion per cui l’ascolto dovrà risolversi in una vera e propria “immersione”, meglio ancora se supportata dall'uso di un bel paio di cuffie.
Thirty Three, Recurring si apre con la recitazione, in spagnolo, dei primi versi del libro della Genesi (“En el principio creó Dios los cielos y la tierra/ Y la tierra estaba desordenada y vacía, y las tinieblas estaban sobre la faz del abismo...” etc.), recitazione che va avanti su un sottofondo di archi per il primo minuto e mezzo circa di “Tall Shadows Of The Wind”, titolo che si rifà, evidentemente, a quello dato alla versione inglese di “Saye-haye Boland-e Baad”, pellicola iraniana, di matrice magico-realistica, diretta nel 1979 da Bahman Farmanara. Attraverso un caos di corde e fiati, “Tall Shadows Of The Wind” si risolve, dunque, in un maelstrom free-jazz che va a spegnersi interrogativo sulle note di una kalimba, le cui evoluzioni fanno pensare a una versione rallentata dell’assolo di marimba che chiude “Petrified Forest” di Captain Beefheart. Senza soluzione di continuità, “Dancer” prosegue con tocchi minacciosi di pianoforte preparato e linee di sintetizzatore ipnotiche, tra gorgoglii e tonfi lontani, aurore radioattive, cani abbaianti e cicalecci digitali, in un’atmosfera sempre carica di tensione, che rende questi cinque minuti e poco più di musica una perfetta colonna sonora per un film horror dai toni surreali.
Introdotta dal suono distorto e insistente del violino, “Moire” viaggia lungo una traiettoria costituita da una ripetitiva trama percussiva, un bordone sintetico e le fragranze esotiche del clarinetto, ricordando il ritualismo extratemporale della Third Ear Band (ma colto da una prospettiva post-cameristica) ma anche, nel vorticoso finale, l’Hexlove di “Piją z Bogiem” (2009). In “Esther, l’elettroacustica e l’idea di un folk come voce dell’ancestralità incontrano lo spirito insieme anarchico e razionalista della scuola chicagoana dell’AACM, funzionando egregiamente come metafora delle forze più misteriose che agiscono dietro il paravento della realtà. Il senso di disorientamento trasmesso da questa musica è qui amplificato da una pacata melodia di pianoforte che, a un certo punto, ne sembra quasi contemplare dall'alto il febbricitante prodursi.
Dopo un preludio psico-industriale, “Happy Ending Problem” tira fuori dal cilindro una fourth-world music fantasmatica, alla cui realizzazione hanno probabilmente preso parte anche dei Borbetomagus in defaticamento e chiaramente reduci da un lungo periodo di ascesi, durante il quale gli unici dischi che hanno ascoltato sono stati quelli di Fausto Romitelli.
Non si ha mai la sensazione che Fog e i suoi sodali possano abbassare il livello di guardia in fatto di inventio. Ecco, allora, i nemmeno due minuti della sorprendente “A Brief Foray Into Contrivance”, che potrebbe essere, sì, un outtake di un disco perduto di Sun Ra, ma soprattutto la loro “Parable Of Arable Land”, da intendere non come l’esordio capolavoro dei Red Crayola, ma come versione personalissima della title track dello stesso. “Thirty Three, Recurring” (il brano) fa invece pensare a un cosmic-jazz particolarmente instabile, dove non mancano rovinose cadute dentro voragini elettroacusticihe ed evocazioni di rituali così antichi da essere stati quasi del tutto dimenticati. Musica anche fortemente cinematica, questa: si veda il caso, dapprima minimalistico e, quindi, disarticolato di “Apothem”, ma volendo anche i diciotto minuti di “Of Collatz”, lenta, odissiaca ascensione verso il non-detto, in cui tutte le scaturigini sonore vengono piegate a dare su un circolo dronico che torna continuamente su se stesso, fino alla devastante esplosione, la quale, annunciata dal suono minimalista della kalimba, segna il climax d’intensità dell’album poco dopo il quattordicesimo minuto. Una volta che il sinfonismo fibrillante dell’“Epilogue” avrà consumato il suo ultimo solco, non resterà che tornare a riassaporare questo sorprendente serbatoio di creatività.