Mi sento la città addosso, la confusione nella radio
La musica, io non mi riconosco
La televisione ha detto: "È tutto a posto"
La mia delusione: "Non ho scelto quello giusto"
Una band tra
mainstream e mondo intellettuale, quella de
La Rappresentante di Lista. Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina hanno trovato una nicchia, forse scomoda ma poco abitata: hanno sfondato con lo zuccheroso funk ballabile "Ciao ciao" (quadruplo platino) ma ancora oggi rilasciano interviste dal taglio intellettuale, un mezzo miracolo che negli ultimi anni è riuscito a loro, i più autoironici
Colapesce e Dimartino e pochissimi altri. Così
citano Carlo Giuliani per spiegare una frase di una canzone, giocano con l'etichetta
queer e lanciano messaggi da femminismo contemporaneo, si muovono
tra Samuel Beckett per il titolo ed Edward Hopper per la copertina, commentano la musica contemporanea e si intestano l'onere di
rappresentare la controcultura: "Io sono contento di poter portare un'alternativa culturale nel mio paese, visto anche come si è evoluta la politica culturale". Fanno questo oggi che, parole di Mangiaracina, "È da un po' che non è
cool essere intellettuali" (e non è più
cool neanche dire
cool). Una scelta che suona come un sacrificio, per tutti noi. Insomma, se la sentono tanto, tantissimo, forse anche un po' troppo. Quando parte il loro quinto album, "Giorni felici", si può lasciar stare il
battage e provare ad apprezzarne le capacità di scrittura e il
sound comunque diverso dal resto del
mainstream di cui, parzialmente e forse controvoglia, fanno parte.
Le ispirazioni sono chiaramente
novantiane, usate per diventare il "
tramite per un racconto rivolto a tutti" e allontanarsi dal presente musicale. Ci sono quindi le chitarre, i ritmi ballabili e le modulazioni vocali, le frasi di protesta e anche... i ritornelli martellanti, perché una hit li ha portati al grande pubblico e quindi se ricapita non sarà un dramma. Il successone potenziale è "La città addosso", posta in apertura, ed è un ottimo esempio dell'equilibrio che la formazione ha trovato: mentre Lucchesi interpreta in modo intenso le strofe, e un'ossatura funk-rock con evidenti riferimenti pop rende tutto più facile da assorbire, il ritornello è, come si dice in Toscana, una
bischerata che si presta però a letture più meditate, un
bubblegum con retrogusto da editoriale del quotidiano progressista. Buono per muovere i fianchi ma anche per discettare del contemporaneo davanti a un aperitivo. Al netto dell'opportunismo anfibio, il brano funziona e il ritornello si imprime in testa senza problemi, cosa che riesce meno alla successiva e più banale "Je Ne T'Aime Pas Toujours", con le voci che si intrecciano, o più in là in "Karaoke", dal sapore
vintage.
Proprio
Antonio Di Martino ha collaborato a "Paradiso", un brano che richiama i
Blur, mentre la più nervosa "Giorni felici", con un basso ansiogeno e una chitarra distorta, intreccia le anime della band in modo convincente: ha il
groove, la melodia malinconica e Lucchesi ha spazio per mettere in mostra la sua vocalità. Il cantato della danza frenetica "Parole d'amore" e del pop-punk di plastica di "Cattivo" sono invece affidati a Mangiaracina, meno istrionico ed espressivo, ma anche se Lucchesi è più carismatica, non può risolvere un brano come "Ho smesso di uscire", fin troppo ispirato a un rock vecchio di trent'anni, e riesce a portare per mano "Mondo" per elevarla a qualcosa di più di un pop-rock da spot pubblicitario solo nel finale, con recitato teatrale e vocalizzi; in "Countdown" la sua voce è protagonista incontrastata, persino filtrata come fanno quelli del
mainstream da cui loro vogliono distanziarsi, ma il resto del brano è fin troppo banale.
Il synth-pop di "Baby Baila" è forse il brano più sorprendente, con un'evoluzione corale inaspettata, ma è troppo poco per dirsi soddisfatti. Coscienti che in cima alle classifiche ci sono testi impresentabili e brani fotocopia di un pop-rap terminale, non è facile accontentarsi di queste canzoni un po' citazioniste, un po' pigre e spesso ruffiane. Ci sono le chitarre e gli anni Novanta, certamente, e Lucchesi è una cantante che si distingue per intensità e duttilità, al netto di una tendenza al birignao, ma è davvero troppo poco per farli partecipare alla contrapposizione tra un
mainstream superficiale e un'alternativa intellettuale o anche solo degna dell'attenzione di chi cerchi qualcosa di nuovo. Il loro "Bu Bu Sad" (2015) è irraggiungibile da questi brani e anche rispetto a "
My mamma" (2021) si nota una flessione. Nonostante le esagerate dichiarazioni delle interviste, poco o nulla sembra superare un indie-pop d'intrattenimento, con pochi svolazzi e pochi azzardi. "Chi si accontenta gode così e così", diceva
quello, che in decimi non è esattamente una sufficienza.
07/11/2024