Dimartino

Un navigante nel tempio della bellezza

intervista di Giuliano Delli Paoli

A quasi dieci anni dall'esordio, Antonio Di Martino incarna sempre più la figura del cantautore realista e sincero, costantemente affascinato dal vivere quotidiano e dalla potenza dei personaggi semplici, così come dagli insegnamenti della mitologica greca. Una scrittura avvincente, figlia di uno sguardo profondo, costantemente attento e rivolto con passione alla bellezza delle cose comuni, in un valzer di sorprendenti contrasti emotivi. L'ispirato "Afrodite", dal sound energico e frizzante, segna una svolta stilistica nella sua brillante carriera. Abbiamo scambiato in esclusiva diverse riflessioni con il musicista palermitano, alla scoperta dei segreti che si nascondono dietro questa nuova produzione, tra rimandi e insolite fascinazioni. 

Afrodite nella religione greca è la Dea della bellezza ed era venerata anche dai naviganti. Ma nelle tue parole l’attenzione è rivolta anche all'Afrodite “venduta nel tempio per niente”. Dove nasce la scelta di questo titolo?
Il titolo nasce da una visione. Quando è nata mia figlia, dalla finestra dell’ospedale vedevo il Castello di Venere che si trova sul Monte Erice, sotto al quale nasceva per l’appunto il Tempio di Afrodite; il momento era proprio quello della rinascita, della primavera, e mi sono promesso che avrei dovuto rendere omaggio a questa dea. Tutto questo mi ha fatto riflettere molto, anche sul fatto che il tempio di una dea della bellezza in una città potesse essere qualcosa di stimolante; proviamo a immaginare se a un certo punto nelle città al posto della statue di Padre Pio nascessero dei templi dedicati alla bellezza, che potessero insegnare ai bambini la potenza della bellezza. Ebbene, da questa visione, anche un po’ surreale, è nato tutto il concetto del disco.

In questo tuo nuovo lavoro, c’è molta attenzione per i particolari quotidiani, per i “personaggi in cerca d’amore che vivono nel dramma di una vita normale”. Ma la normalità è un dramma, oppure, tornando ad Afrodite, essa potrebbe avere anche un’accezione greca, dunque normalità intensa come misura, equilibrio? E se così, quanto è normale oggi la tua vita rispetto al 2010?
A dire il vero, alla normalità intesa anche come misura non ci avevo pensato ancora. Sicuramente, nell’album ci sono dei contrasti forti, come ad esempio vita di coppia e solitudine, amore e odio, passaggi come “ci diamo un bacio prima di farci male” indica proprio questo continuo fraintendersi nei rapporti amorosi, fraintendere emozioni opposte. Certo, ultimamente sto cercando di mantenere nella mia vita una parvenza di normalità, anche se non è una cosa semplicissima rispetto al 2010. In realtà, tutto è sempre in bilico. Secondo me, neanche un figlio, a parte la quotidianità da vivere con più costanza, ti dà la certezza di una vita normale, più misurata.

“Giorni buoni” ha un sound frizzante e il basso mi riporta molto a certi andazzi stilosi dei Settanta. Eppure, c’è questa nostalgia che funge costantemente da contraltare. Com’è nata questa canzone?  Per caso, l’hai scritta d’estate?  
Il suono del disco è merito soprattutto di Matteo Cantaluppi, musicista e amico, insieme a lui e Angelo Trabace abbiamo praticamente arrangiato tutto l’album. Dal principio, ci siamo imposti che dovesse suonare un po’ fine anni 70, perlomeno come sonorità, e allo stesso tempo avere un gusto che sia avvicinabile a cose più contemporanee; ecco, a tal riguardo Sebastien Tellier è il primo nome che ci è venuto in mente. Poi a me lui piace moltissimo. L’idea era quella di partire dal cantautorato italiano, che alla fine a livello armonico e melodico è anche il mio modo di scrivere, però anche avvicinare tutto ai suoni di oggi. Le linee di basso qui sono in bella mostra, mentre in passato erano più nascoste. E di questo sono rimasto molto contento, era quello che cercavo. Volevo che tutto suonasse molto più potente. La canzone è stata scritta a settembre, ed è ambientata nella provincia di Trapani - è il luogo in cui ho scritto più o meno tutti i pezzi - in cui ci sono queste spiagge a ridosso della periferia, davanti alle cose popolari, dunque questo contrasto tra vita turistica e difficoltà quotidiane. Questa è stata una delle “immagini” che mi hanno ispirato durante la stesura di “Giorni buoni”. Inoltre, stavo vivendo nell’attesa della nascita di mia figlia, quindi c’erano degli stravolgimenti emotivi interni importanti. Attendere un figlio ti porta sempre dei dubbi, perché pensi che la sua vita ti stravolga del tutto. Per cui la canzone nasce da questi contrasti che stavo vivendo alla fine dell’estate del 2016.

“Andiamoci a prendere la luna nella sala bingo”. Com’è nato questo passo, e secondo te fino a che punto la disillusione ha una funzione salvifica?
Sia “La lune e il bingo” sia “Daniela balla la samba” nascono da cose che ho visto realmente a Palermo. Nel caso della prima, una notte vidi sui gradini di una sala bingo due “ragazzi” - non più giovani, sulla quarantina - totalmente sbronzi che ridevano del fatto che avessero perduto al bingo, e così mi sono chiesto che rapporto avessero, perché fossero lì. Mi piaceva raccontare una storia che racchiudesse questi tempi; tempi in cui ognuno cerca, anche nel gioco e nella fortuna, una sorta di redenzione. La canzone nasce in maniera semplice, dall’osservazione di un dato reale, però può dare l’idea dei tempi che viviamo. La sala bingo è un po’ "la chiesa di oggi", non credi?

Palermo torna ancora tra “mostri che la ingoiano” e si perde “nel vento dei Tropici”. Come l’hai trovata ultimamente? Come la stai vivendo? Senti di segnalare qualche giovane musicista palermitano?
Palermo al momento è piena di musicisti meravigliosi.  A parte La rappresentante di lista che adoro, mi piace molto un rapper palermitano, che si chiama Johnny Marsiglia; adoro i suoi testi, i suoi giochi di parole. Di emergenti veri e propri ne conosco pochi. Continuo a vivere la città, ma più nei suoi luoghi quotidiani. E’ un lato nuovo, che sto scoprendo ora, prima vivevo più il suo lato “maledetto”.

“Daniela balla la samba sul tetto di una panda e non ha paura di cadere”. Tutto questo mentre accendi un’atmosfera caldissima. Ho pensato a Tellier, ma anche a Ned Doheny, tornando un po’ più indietro. Quali sono i tuoi ascolti recenti e da dove è nato il sound del disco? Quando hai capito che l’alchimia tra i vari strumenti ormai era quella giusta, quella che volevi davvero?
Sì, effettivamente Doheny può essere uno dei precursori di Tellier. In realtà, prima di rivolgermi a Cantaluppi. Stavo cercando qualcuno che mettesse insieme tutte queste idee musicali che avevo, e avevo bisogno che qualcuno sistemasse i cassetti. Ho trovato una persona che aveva capito ciò che mi interessava. Sin dai primi giorni di produzione del disco, ero già sicuro di dove saremmo andati a finire. Il missaggio è di Ivan Rossi, che ha dato un suono più grezzo rispetto anche ai primi provini. L’unione di questi due mondi - vengono entrambi da universi musicali diversi - è stata importante per il suono dell'album. Adesso sto ascoltando da un paio di mesi l’ultimo disco di Marianne Faithfull, è uno di quei dischi in cui c’è veramente tutto: voce bellissima, testi e arrangiamenti raffinatissimi.

A metà febbraio parte il tour nei club italiani, cosa dobbiamo aspettarci e come stai preparando il tutto?
Ci saranno tutte le persone che hanno lavorato con me negli ultimi dieci anni. Inoltre, tra poco ricorre il decennale del mio esordio. Ho coinvolto anche Simona Norato, e riprenderemo dei pezzi vecchi e li riarrangeremo. Abbiamo tirato fuori una ventina di canzoni della mia discografia, sarà un live potente. Le prove sono venute davvero bene e sono contento.