Per raccontare le sue piccole storie di amori e malinconie Antonio Di Martino ha bisogno di molto fiato e di moltissime parole. Urla, Di Martino, e non gli basta quasi mai il tempo, non gli basta quasi mai lo spazio per dire tutto ciò che avrebbe da dire, per spiegare quel che gli vibra dentro, tra i ricordi e i brividi. Ha bisogno di guardarsi intorno, Di Martino, e dietro, e dentro, poi si tratta di mettersi giù a fissarle nella mente e nell'aria, quelle storie: e ne vengono fuori canzoni gracili e luccicanti, che tutti sappiamo riconoscere e che non possono non andare bene.
Sì, le undici canzoni di cui è fatto "Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile" vanno bene, e che il disco sia bello è fuori discussione. A questo punto, però, dovremmo forse chiederci cosa c'è di migliore e cosa di peggiore rispetto al primo disco dei Dimartino, "Cara maestra abbiamo perso", uscito un paio d'anni fa e giustamente considerato uno degli esordi più interessanti degli ultimi tempi nell'ambito della musica indie italiana. Per capire se è possibile tracciare una rotta, niente di più che questo. Difficile rispondere, troppo. Perché anche a noi, come al cantautore siciliano, servirebbe più spazio e molto più tempo per lasciar sedimentare sul fondo dei nostri ragionamenti i suoi cristalli di talento.
La prima impressione è che i Dimartino abbiano pienamente confermato quanto di buono avevano dimostrato di saper fare con l'opera prima. Il boss ha sale in zucca e carisma da vendere, e i suoi due compari Simona Norato e Giusto Correnti - caso sempre più raro, nell'era della tecnologia iper-sussidiaria - sanno davvero cosa significa suonare. I pezzi funzionano, sono rotondi, veloci anche quando vanno piano, arrangiati bene. Si vede che le idee su come si confezionano canzoni, a questi tre ragazzi e alla banda di Zanobini e Brunori che ha lavorato con loro, non mancano.
Ora, quella stessa prima impressione, se la prendessimo per buona, potrebbe contenere in sé un'altra verità. Ossia che forse, partendo da dove sono partiti, i Dimartino avrebbero potuto osare di più. "Cara maestra abbiamo perso" era meno omogeneo e meditato, per certi versi più sgangherato, senza dubbio più sorprendente di questo nuovo disco. Il che può voler dire tutto e niente, naturalmente. Ma, in altre parole, pare quasi che la band abbia voluto innanzitutto puntellare la propria dimensione, metterla in sicurezza. Fondamenta solide, mura solide: noi siamo così, e siamo veri.
Ci si sarebbe potuta aspettare, il punto è questo, qualche distrazione in più. Nel canone narrativo, soprattutto: il guaio, dopo anni di riscossa della canzonetta d'autore, è che in molti cominceranno a non divertirsi più come prima con le cronache più o meno amare e più o meno dolci di giovinezze raminghe, rapporti dolenti e grumose nostalgie. Brunori, per restare nei paraggi, col suo "Vol. II" s'è preso la briga di scombinarlo un po', il suo canone, e i risultati lo hanno premiato.
È fin troppo evidente che la cifra di Di Martino come autore, per il momento, non ammetta troppe variazioni, mentre alle ariose melodie magari potrebbero giovare un po' d'aria in meno e qualche spigolo in più. D'altronde forse si tratta solo di dare tempo al tempo, e può pure darsi - anzi, sicuramente sarà così - che ogni cosa stia bene nel posto in cui è stata messa, e che queste perplessità finiscano per dissolversi, o squagliarsi, sotto il primo vero sole d'estate.
Di certi musicisti, delle loro coscienze e delle loro incoscienze, ogni tanto è bene fidarsi, e i Dimartino meritano più fiducia di molti altri, ora come ora. Certe canzoni di "Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile", dopotutto, stanno lì a dimostrarlo: "Non siamo gli alberi", "Non ho più voglia di imparare", "Amore sociale", "Ormai siamo troppo giovani" sono tutti pezzi di bravura. Senza considerare che la band, dal vivo, va come un treno. Ce ne fosse, in giro, di gente così.
01/06/2012