Dario Brunori è tra i giovani cantautori più promettenti in circolazione. Reduce da due intensissimi anni di tour, consensi ottenuti a destra e a manca lungo la penisola, premiazioni eccellenti - l'ottimo "Vol. Uno" è stato eletto miglior esordio del 2009 secondo la giuria del Premio Ciampi - l'irriverente cantastorie cosentino torna a mostrarci quel suo piccolo mondo irto di aneddoti popolari, condizioni precarie e illusioni monetarie. Accantonati in parte i primi impulsi amorosi, la nostalgia di un'adolescenza vissuta spensieratamente nei meravigliosi Ottanta, il Brunori dei "Poveri Cristi" è un uomo diverso, che fa i conti con se stesso, ma soprattutto che cerca di mettere a fuoco con la consueta leggerezza melodica l'instabilità economico-emotiva che attanaglia da tempo immemore la società comune del Belpaese.
A delineare i tratti di questo suo secondo lavoro, è una struttura palesemente più articolata, che non rinuncia comunque a folate liberatorie di stampo gaetaniano ("Rosa") e goliardici siparietti ai limiti del burlesco ("Il suo sorriso", in duetto con Dente). Tuttavia, è una nuova presa di coscienza ad animare le corde del menestrello calabrese, sempre più imprenditore mancato e neo-urlatore italiano. Brunori narra con agghiacciante sarcasmo di storie normali vissute da persone altrettanto normali. È la quotidianità la sua fonte d'ispirazione primaria. I problemi di tutti i giorni vengono strizzati in un secchio e urlati in faccia al mondo, seguendo sempre l'istinto e senza mai affondare nel qualunquismo di turno o nella retorica più scontata. "Il giovane Mario" non riesce così a fare i conti con il suo salario e disintegra tutti i suoi sogni alla slot-machine. È un povero cristo "con quattro bocche da sfamare", che "strappa i giorni al calendario", che "ha giocato troppe volte con la vita" e prova a pagarne i debiti legandosi il collo con una corda al lampadario, "purtroppo" senza fare "i conti col solaio". È solo l'inizio di un appagante susseguirsi di insanabili condizioni e dinamiche grottesche. Brunori fonde allegria e disincanto, gioia e dolore, rabbia e amore. "Una domenica notte" è un'istantanea appena sfocata circa il ripetersi di sensazioni domestiche notturne e deduzioni ottimistiche prive di ragioni.
C'è voglia di abbandonare i propri comodi cuscini rincorrendo mete imprecisate, e allo stesso tempo enfatizzarne la stabilità emotiva con ritrovata lucidità. Al contrario, "Animal Colletti" è una parodia a mo' di Bennato sul suicidio e sul vittimismo diffuso. Stesso dicasi di "Tre capelli sul comò", in cui è l'amore perduto a dar forza a questa veemente autocommiserazione. È un raggio di sole "aggrappato a un angolo di cielo", invece, a tener vivo l'ottimismo dei poveri cristi, l'unica luna "fra milioni di stelle", palesata in un trotto acustico leggiadro e sbarazzino in scia carosello. La commovente "Bruno mio dove sei" è l'omaggio sentito a un padre che non c'è più. Brunori versa lacrime inchinato sulle proprie radici e con un rosario consumato tra le mani. La famiglia e il rispetto per le cose semplici sono eretti a lumi salvifici.
In "Poveri Cristi" sono la forza della sintesi, la centralità delle parole e l'immediatezza delle melodie a recar conforto e a stendere qualsiasi forma di pregiudizio circa un'ipotetica estinzione della cosiddetta "buona musica leggera" italiana. C'è voglia di vivere e rinascere, nonostante tutto. C'è una nazione intera pronta a cantare a squarciagola e urlare al mondo la propria umana condizione, il proprio disappunto, la propria indignazione, l'orgoglio di una vita difficile ma ricca di piccole gioie quotidiane e valori mai spenti. "Poveri Cristi" incarna il trionfo implicito di un'italianità verace e sincera. Viva l'Italia, viva Brunori!
01/06/2011