Antonio Di Martino riparte dalla dea della bellezza, dell'amore e della generazione. Venerata dai naviganti e amata da tutti, Afrodite è la mitologia da cui ritrovare un nuovo cammino, una fascinazione che per l'occasione si traveste di colori vivacissimi, pulsazioni pop che forse mai abbiamo ascoltato nei suoi dischi. Il merito è anche di un genio in cabina di regia del calibro di Matteo Cantaluppi, già all'opera con Thegiornalisti ed Ex-Otago, che dona a Dimartino quell'aurea nostalgica e una produzione davvero super. C'è più energia, e strofa dopo strofa la sensazione è quella di trovarsi dinanzi a una mutazione decisamente riuscita, quantomeno necessaria dopo il candore cantautorale mediamente più scarno, avvolgente per ben altri motivi, annusato in passato.
"Afrodite" segna dunque una svolta nella carriera di Dimartino. Una svolta leggera, sincera, ricca di bassi in prima linea e sublimazioni telleriane (!). Sembra davvero strano, eppure lo stralunato chansonnier è tra i riferimenti primari del disco, al netto di una palese distanza, soprattutto per quanto concerne la tematica imperante, qui catalizzata a dare voce ai particolari quotidiani, ai "personaggi in cerca d'amore che vivono nel dramma di una vita normale". Il contrasto tra le parole, disilluse e parimenti profonde, e il suono, mediamente più brioso ed estivo, costituisce paradossalmente il punto di forza di un'opera certamente riuscita, tanto singolare, quanto affascinante.
È un sound opportunamente frizzante, che si scioglie tra una nostalgia di stagione e un'ardita riflessione ("Giorni buoni"), un irresistibile giro romantico, leggero come il vento sulla spiaggia prima del tramonto (come accade nella ballata "Due personaggi"). Il cantautore palermitano canta di vite normali e del dramma a esse correlato, di "panni da lavare", lacrime da coccodrillo e nomi scritti sul cesso. Personaggi comuni, in cerca d'amore, che inseguono sogni "sbagliati", tirandosi "pietre senza avere peccato", e che alla fine della giornata si ritrovano sempre uno accanto all'altra, per giunta con il cuore ancora intero ("Cuoreintero"). Un album dannatamente più sostenuto, roboante, finanche sbarazzino. Ascoltare il refrain trascinante di "Pesce d'aprile" per credere.
Spunta allo stesso tempo una nuova dimensione personale e autoriale, la seconda legata alla paternità, alla nascita di sua figlia, con tanto di sopraggiunta meraviglia esternata a chiare lettere, come in "Feste Comandate": "Tutto questo amore/ sono sincero, no/ io non l'avevo previsto". Il tutto prima che Dimartino spiazzi con una bombetta dal basso sferzante e dal passo incalzante: "Ci diamo un bacio" è una chicca pop, uno di quei pezzi da cantare al primo ascolto. Melodia in crescendo, giretto gitano e ritornello killer.
I giri pomposi ed eleganti, come quelli del sopracitato Tellier, rispuntano in "Liberaci dal male", mentre il disincanto, da sempre tra gli elementi costitutivi della scrittura del cantautore siciliano, affonda la sua dolce lama in brani come "La luna e il bingo"; in coda, "Daniela balla la samba" si snoda tra archi sontuosi e quel realismo talvolta "salvifico", "necessario" per non perdere di vista la realtà, la forza dirompente delle cose semplici. La stessa dirompenza con cui Dimartino torna in scena, a conferma di un talento ormai maturo e altamente distinguibile nel bordello odierno.
27/01/2019