Può ancora una canzone manifestare dissenso per la realtà socio-politica in cui siamo immersi? Può dare forma a un sentimento universale, a un anelito condiviso nel quale riconoscersi? Sono questi i presupposti dai quali prende forma l’universo sonoro di Nino Gvilia, ambito cantautorale pervaso da luminescente incanto e nutrito dall’insieme di forme musicali differenti, in bilico tra folk, minimalismo, strutture lo-fi e sperimentazioni condotte a vario titolo. Un background composito, difficilmente accostabile a chi, nata vicino al lago di Paliastomi in Georgia da due raccoglitori di funghi, ha condotto una vita errante assorbendo il mistero arcaico della natura.
E in effetti Nino Gvilia non esiste, non quale biografia reale. Il suo è un personaggio immaginario, appositamente creato da Giulia Deval per esprimere la personale idea di un songwriting resistente, intriso di ecologia e amore, di politica e percezione di se stessi.
La sua prima prova discografica riunisce in un’unica uscita su vinile i due Ep digitali pubblicati a breve distanza a partire da inizio anno, dando apprezzabile saggio di quanto le intenzioni perseguite dalla giovane sound artist torinese abbiano trovato concretizzazione credibile.
I riferimenti che sottendono il progetto sono molteplici, mai ingombranti, anche se presenti a livello di suggestione percepibile. L’attitudine a incrociare forma canzone e ricerca sonora riporta a tanti segmenti della Bjork più onirica e anche per vocalità, a tratti, la vicinanza è nitida. La si avverte nelle strofe della seducente ballata “Nicole” – prima anticipazione apparsa sul finire dello scorso anno – e la si ritrova in certi passaggi di “Those Who Care”, folk essenziale impreziosito dalle volute di archi affidate alla perizia di Giulia Pecora (violino) e Clarissa Marino (violoncello). Quando il tono vira verso una dimensione acustica smaccatamente bucolica e il canto si fa ancor più etereo (“Diaphanous”), è il candore arcano di Linda Perhacs a riaffiorare, così come gli arabeschi di “Last Trip” sono intrisi di umori à-la Sufjan Stevens.
Ci sono poi l’amore per l’avanguardia e l’uso esteso della voce, che prende il sopravvento nella cullante reiterazione di “Forests, Quatrain” - canone ispirato dalla lettura di Eduardo Kohn – e nell’accusa penetrante dei flussi testuali di “Dirty Is Just What Has Boundaries”.
Ma a dominare su ogni rimando è la scrittura brillante della Deval, incline alla ricerca di una libertà stilistica capace di intersecare al meglio le istanze chiamate in causa – in questo più efficace di quanto proposto similarmente da Claire Rousay nel recente “Sentiment” – e sostenuta magistralmente da Zevi Bordovach (arrangiamenti, synth, Hammond, armonium, voce) e Pietro Caramelli (arrangiamenti, chitarra elettrica, elettronica, voce) presenti anche in cabina di regia insieme a Paul Beauchamp.
27/05/2024