I sogni e i desideri possono essere sfuggenti come ombre sull’acqua — evanescenti, impossibili da afferrare del tutto. "Jellywish", con il suo gioco di parole tra “medusa” e “desiderio”, è un titolo tanto poetico quanto emblematico per un gruppo che ha fatto della trasparenza e dell’essenzialità il proprio tratto distintivo. Con questo quinto lavoro, i Florist tornano con un nuovo taccuino di confessioni sussurrate, in cui l’intimità del quotidiano si intreccia a riflessioni più ampie su vita, morte e sulla consapevolezza della propria fragilità. I brani si sviluppano attorno a un fingerpicking placido e minimale, su cui si adagia la voce ipnotica e quieta di Emily Sprague. È lei, più che gli arrangiamenti, a dettare ritmo e umore del disco.
Spesso, la band si ritrae quasi completamente, lasciando che ogni elemento si dissolva nel racconto della frontwoman. Questa scelta, per un gruppo capace di evocare mondi interi con una pausa o un’ombra sonora, suona come un passo leggermente più trattenuto, quasi in apnea: l’estetica della sottrazione, se portata all’estremo, rischia di rarefare l’emozione invece di amplificarla.
Risultano più riusciti, infatti, i momenti in cui i Florist si aprono, si espandono, respirano insieme. In "Have Heaven", forse il brano più luminoso del disco, la scrittura si fa più viva, il tessuto sonoro si allarga con eleganza tra languori folk e melodie appena accennate ma cariche di tensione emotiva. È in questi slarghi che il gruppo ritrova la propria dimensione collettiva, tornando a essere un ensemble e non solo una cornice per le liriche come sempre molto curate.
Lo stesso vale per "This Was A Gift", che nel suo finale in crescendo si affida a un pianoforte intenso e risonante, o per "Gloom Designs", dal tono vagamente country, intimo e pastorale, in bilico tra luce e malinconia, quasi un’eco del Sufjan Stevens di Seven Swans. "Moon, Sea, Devil" cattura con il suo incedere lieve e sfuggente, come se ogni nota tentasse di trattenere qualcosa destinato a dissolversi. È uno di quei brani in cui la band riesce ad inserire quel dettaglio imperfetto, quella sottile incrinatura che sposta l’equilibrio dal delicato al profondamente umano. Una scintilla rara, che qui si accende con naturalezza, ma che sembra mancare altrove: in una buona metà di "Jellywish", la superficie resta troppo liscia, troppo intatta per lasciare davvero il segno.
23/05/2025