Soda Lite - Earthbound

Una fonte naturale di suoni evocanti lo stato delle cose, come natura sottintende sempre e comunque, è linfa vitale per le dodici partiture di “Earthbound”. L’ottavo disco dell’australiano Alex Last, in arte Soda Lite, è un chiaro omaggio in chiave new age alla madre terra, con il vasto bioma della Tasmania che muove a forza motrice e finisce per essere un autentico direttore d'orchestra.

Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, strofinandosi gli occhi e magari anche grattandosi le orecchie. Eppure, al netto delle premesse, elencate dal musicista di Hobart nella dichiarazione d’intenti, tra “regni ribollenti che si dispiegano contro la rovina”, “nuvole grigie che succhiano la luce del sole” e “muri sgretolati di acciaio e cemento screpolato”, “Earthbound” è una fertile messa in scena di field recordings sovrapposti a ribollii sintetici e canti di uccelli che assecondano volteggi orientali a volte degni del miglior Tomita (“Seeker”). Spuntano pure fruscii che riportano tanto allo spirito immacolato del Klaus Wiese più spirituale, quanto a certe composizioni in altissima fedeltà dei Visible Cloaks (“Manna Devour”).
Last emerge dallo stagno dei paralleli dovuti, e soprattutto dal terrore della trilionesima opera new age per sedicenti predicatori yoga. Ne sono prova le due movenze al centro del piatto, ovvero la metafisica “Noon Myriad” e la serpeggiante “Sun Flowering”, entrambe concepite come fughe in avanti verso mondi altri, con l'apporto di chitarre in loop e riverberi del cuore.

“Earthbound” è una danza celeste di molluschi e fossili, rianimati per un’inedita festa dal tocco gentile di Soda Lite. Più che spingere a meditare, come imporrebbe erroneamente lo stile adottato, ci si rilassa per tutto il tempo senza patemi e filosofie da strapazzo, cullati dal suono di lembi d'isola ancora intatti, dimenticati da Dio e quindi anche dall’uomo.

29/05/2025