Mercyful Fate

Mercyful Fate

Dark-metal dalla Danimarca

Con i loro rituali oscuri e stregoneschi, i danesi Mercyful Fate di King Diamond hanno inaugurato il metal-nordico, ovvero il filone più estremo e più irriducibile del metal tutto

di Tommaso Franci

Nel 1981 dire metal era dire "New Wave Of British Heavy Metal"; e il termine "new wave" nella musica rock viene usato in pratica ogni volta, all'interno di un filone, viene qualcuno a stravolgerlo, a fare un filone nel filone o a decretare la morte di uno e la nascita di un altro. I Mercyful Fate, in campo metal, sono tra i pochissimi a potersi fregiare del merito di aver dato vita a una new wave.

È la terza delle quattro "new wave" del metal: 1. fine 60 - inizio 70 (hard-rock di Deep Purple, Black Sabbath); 2. fine 70 - inizio 80 (NWOBHM: Motorhead, Judas Priest, Iron Maiden, Diamond Head); 3. prima metà anni 80 (heavy metal: speed-thrash dei Metallica; dark/black di Venom, power-black di Mercyful Fate, power-epic di Manowar); 4. fine 80 - inizio 90 (heavy metal: power: Halloween; black: Bathory; stoner: Melvins; doom-dark: Celtic Frost e Candlemass; death: Death; grind: Napalm Death; gothic: Paradise Lost). L'heavy metal, ovvero il passo successivo dopo la NWOBHM (il metal), ovvero il thrash e lo speed, ebbero tre focolai paralleli: il primo in seno allo stesso NWOBHM: si tratta dei Venom; il secondo in California: i Metallica; il terzo in Danimarca: i Mercyful Fate. Il passaggio dal metal (NWOBHM) all'heavy puro (speed e thrash) si deve esclusivamente ai Metallica. Tuttavia Venom e Mercyful Fate (come i Manowar) dettarono il pentagramma per tutte le varianti heavy della quarta new wave; e lo fecero senza essere, propriamente, heavy: senza conoscere thrash e speed (senza conoscere, insomma, l'hardcore). La variante che ispireranno e praticheranno i Mercyful Fate (come i Manowar) è il power; il modo di concepire questo è (come i Venom) il black.

I Mercyful Fate inaugurano il metal-nordico (un po' la risposta al cosa fare in mezzo alla neve e al nulla, ora letteralmente paesaggistico e non deduzione espressionistica dal tutto-metropolitano), il filone più estremo, nelle forme e nei contenuti, più irriducibile e longevo, oggigiorno più numeroso, del metal tutto (formalmente il metal nordico oggi è o black/death o progressive: i Mercyful Fate facevano power). Venom e Mercyful Fate portano allo stato patologico (o folklorico) il satanismo dei Black Sabbath. Venom e Mercyful Fate non sono nichilisti: tutt'altro, sono ossessivamente credenti, solo dalla parte sbagliata. O meglio: per nascondere il classico "vuoto esistenziale" si costruiscono fantasmatici e fantasmagorici nemici-amici di cartapesta con i quali poi potersi auto-suggestionare; per poter così, in definitiva, prendersela con qualcuno che, se pur sfuggente, se pur invisibile, rimane comunque meno inintelligibile della società o del cosmo. Venom e Mercyful Fate usano il doom e il vocabolario dei Black Sabbath (Satana, male, sesso sadomaso, streghe) ma li trasportano con la potenza dei Motorhead.

Il risultato dimostra quanto siano fondamentali questi quattro complessi per il genere. I Mercyful Fate sono King Diamond, un allora ventenne (ma che, come tutti i mitomani sembra non avere età) esibizionista dalle più magniloquenti sceneggiate sataniche e sadomasochiste. Si truccava e si trucca come Alice Cooper e i Kiss, ma per fini inscindibili dalla mania feticista, paranormale, fattucchiera. Il suo microfono era ed è sorretto da due ossa fatte passare come umane. Sedute spiritiche, orge, epilessie, necrofilia, complessi di persecuzione non riescono però (nemmeno agli occhi del diretto interessato) a camuffare un fondo di genuino malessere esistenziale che, indipendentemente dal modo di manifestarsi, aspira a una dimensione universale. La paura dell'aldilà si mostra ancora una volta paura dell'aldiqua; o almeno di questo allegoria e tentativo di spiegazione del significato (perché la mancanza di questo è il vero tabù, tabù per rapportarsi al quale Diamond ha scelto, anziché una squadra di calcio o una carriera in banca, il metal satanico). Torna ad onore del personaggio una sostanziale e trasparente sincerità, nonostante lo spesso cerone del trucco; ed è uno spirito di commozione tutto umano ed umanitario; spirito che il corredo di più o meno tragicomiche, penalmente perseguibili o ridicole, azioni non scalza mai definitivamente.

Per questa base, per questa verità i Mercyful Fate, pur satanici, pur pagliacci, pur pezzenti delinquenti, sono degni di considerazione e sono uno dei vertici fondamentali della storia del metal. Il loro impressionismo ha pretese di oggettivismo. Contrariamente a tanti insulsi loro epigoni (e oggigiorno i nomi si sprecano) valevoli neanche uno sbadiglio. I Mercyful Fate (affiancati, per un gruppo tutto danese, dal fedelissimo produttore Henrik Lund, un individuo che come prima occupazione ha il jazz) erano anche musicisti professionisti di pochi discorsi e tanta sostanza, rocker come oggi non si vedono certo più (il loro stile era il compromesso perfetto, ottenuto per via sinfonica, tra Black Sabbath per il doom, Motorhead per la pesantezza e Judas Priest per la velocità); chitarre: Michael Denner e Hank Shermann; basso: Timi Grabber; batteria: Kim Ruzz. Alla voce, ovviamente, King Diamond. Innanzitutto era una voce mai sentita: perennemente in un falsetto in cui si trova perfettamente a proprio agio, alternato a un tono rauco volutamente espressione ora di inadattamento ora di minaccia: i due toni dialogano, come strofa e coro, contemporaneamente e sempre di corsa, come minaccia e minacciato; all'interno di un contesto costipato nel mortifero dove è già dato per scontato il superamento dell'opposizione morte-vita e rimane solo la scelta di come morire, se di petto o di spalle. Tra Robert Halford dei Judas Priest (per l'acuto ineguagliabile), Ozzy Osbourne (per il fascino ammaliatore) e Cronos dei Venom (con lui veramente tra gli antesignani dei ghigni black e death).

È comunque il falsetto, vorticoso, espressivo, metafisico (e c'è una metafisica del bene e una del male), onirico, infantile (eppur lontanissimo da Geddy Lee dei Rush: come i Cieli dagli Inferi), mefistofelico soprattutto, la nota dominante di un esecutore che ha una tecnica pari a Ronnie James Dio. Questo falsetto è veramente la nota contraddistintiva dei Mercyful Fate: perché percuote e si percuote, fa del male facendosi del male e, in definitiva, annullando i contrari in una terra di nessuno tutta lacerazione immobile, urlo muto e dolore invisibile. Demone bambino. Un medioevo fantasy ambientato oggi, o guardato con la consapevolezza dell'oggi; come l'irrealtà (il rituale) con la constatazione dell'urgenza del suo contrario, cosa che impreziosisce di sincerità la prima e la seconda, anziché di questa defraudarle.

Nel 1983 il primo album, Melissa, rimarrà il loro classico: è già maturo, già tecnicamente notevole, già chitarre, basso e batteria hanno trovato quella fluida intesa che, dialogando in un sublime mediocre, lascia tutto lo spazio per l'emersione, anzi l'evidenza, della voce di Diamond; ma soprattutto Melissa è epidermico, iper-comunicativo e atmosferico. Tutta maschera, tutta sincerità: e non per la passione per quella, ma per il suo uso al fine di esprimere la seconda. Nel 1983 in campo rock un gruppo e un cantante simili non si erano ancora mai visti. È vera new wave, Mercyful Fate e King Diamond con questo lavoro già espongono tutto quello che hanno da dire; dopo, si tratterà di variare sul tema, di approfondire, cesellare: e non sia detto per sminuire, anzi, visti i risultati, si tratta di quella specie di coerenza e perseveranza da lodare. Melissa è, come ogni opera di Diamond, né un concept, né un canzoniere, bensì un rituale, un unico rituale, casomai composto di fasi diverse. Nel presente rituale (rituale "visto", non "praticato") che dura 40 minuti le fasi sono sette. "Evil" (4'30'') presenta subito dei cupissimi Black Sabbath passati tra la velocità dei Judas Priest, le articolazioni dei Diamond Head e la potenza Motorhead; su questo sostrato la voce operistico-gregoriana-pervertita di Diamond. Il gruppo ritorna consapevolmente al primigenio del rock n' roll: il momento del canto è seguito dall'assolo della chitarra che durante quello invece accompagna più o meno sottotono: e ciò non è prova di ingenuità, ma di consapevolezza, e sincerità, urgenza espressiva.
La mancanza di sovrapposizioni contemporanee voce(canto)-strumenti(canto), serve per evidenziare questa e quelli; e v'è tutta la ragione per questa evidenza, infatti si tratta di una voce unica e (per quanti ci abbiano provato) ineguagliabile, e di quasi altrettanto unici strumentisti che, pur attingendo alle radici più profonde del metal, propongono qualcosa di diversissimo (tanto quanto il nero dal bianco) rispetto ai contemporanei Iron Maiden: il loro è un doom-Motorhead con scale alla Judas Priest. Nel brano c'è anche lo spazio per un paio di riff (intendendo il riff un qualcosa di eminentemente hard-rock, distante dal bailamme heavy) che rimarranno scolpiti (anche grazie alle cover-revival dei Metallica) nella storia del genere. "Course of the pharaon" (3'50'') dimostra tutto il potere fascinoso dei Mercyful Fate, che imbevono nel loro doom passaggi strumentistici che in mano ad altri potrebbero apparire quasi scontati: così come fa Diamond rispetto ai testi (formulari di un privato stregonismo) che canta. La sezione ritmica (chitarra ritmica compresa) è a fare il doom, la pesantezza; con i loro originali squilli e dorature, le fughe della chitarra solista (ma i due chitarristi si alternano sempre in un perpetuo dialogare) sono invece il corrispettivo della trascendenza canora di Diamond nel falsetto, rispetto all'ugola rauca della strofa. "Into the coven" (5') apre con due assoli: un acustico medievale subito rinnegato da un fraseggio chitarristico che ora sembra più o meno amaramente irriderlo, ora compatirlo commosso; l'irruzione del resto della band è, nello scorato, toccante.
Così Diamond che si ripresenta nella perdizione del falsetto, con un espediente che formalmente si potrebbe dire quasi rap (strofa masticata sgolatamente, nera, e innalzamento un'ottava più sopra del falsetto, eldorado): solo che manca il motivetto, aprioristicamente rifuggito e tanto più raffinatamente esperito quando vi ci si imbatte come una derivazione dal marasma (marasma di geometrie classiche, peraltro). "At the sound of the bell" (5') potrebbe apparire scontato, prima dell'avvento di urla possedute e toccanti (come commistione di fantasia e realtà), indemoniate e atee, sadiche e masochistiche. Ancora una sequela di passaggi strumentali che, divenuti classici, solo venti anni dopo appaiono scontati (da qui l'importanza: solo ciò che è fondamentale riesce a fregiarsi del titolo di "scontato"). Più che di umano, Diamond dà l'idea di un felino luciferino, ma lucifero tutto spirituale e non figurativo: in pratica Diamond tenta di dare l'idea degli estremi confini dell'umano. Come se la sua voce, dopo aver rotto la barriera del suono, rimanesse qui e immobile. Gli strumenti ora fungono da fanfara, ora da tenebroso accompagnamento.
"Black funeral" è la tradizione nordica di un tema pienamente blacksabbathiano: orchestrazione, assoli, feedback, ghigni lamentevoli, voci in excelsis Dei. Rapportato ai suoi due minuti e mezzo, potrebbe essere anche il testamento più significativo dei Mercyful Fate. "Satanan's Fall" è la versione extra-estesa del brano precedente, e in effetti il capolavoro assoluto del gruppo. Oltre 11 minuti: una tale lunghezza può risultare noia e presunzione svilente. Invece qui tutto è perfetto (anche perché viene usato l'espediente, tutto Rush, di servirsi, nei fatti, di un collage di più arie): parte velocissimo (ed è questa velocità a inventare il power); ha una lunga e articolata zona centrale (ed è questa a dettare le leggi del futuro doom: come mettere i Black Sabbath nel pentagramma heavy); prosegue con un coro che sa più che di prete pervertito di esistenzialista romanticizzato; allunga con efficaci e sussultori cambi di tempo: come al solito il brano è per metà sostenuto da Diamond, per l'altra da notevoli e sentimentali strumentisti; si avvia alla conclusione, dopo un progress espressionistico, quando sembrava che finisse, rifondando il genere della ballata-metal (miracolosamente togliendole, grazie a tanta sincerità, il confine retorico). Conclude con un prodigioso e articolato "power", come e più decisamente che all'inizio. Non un secondo per annoiarsi, per cedere l'attenzione, per non partecipare. "Melissa" (5') è l'estensione sublimata di quel principio di rifondazione della ballata del precedente brano. Diamond e chi lo accompagna (tutt'altro che gregari, tutt'altro che inespressivi esecutori) dimostrano di saper trasmettere il proprio stato dilaniato a qualsiasi altezza o bassezza: questa sorta di western dei ghiacci rivolto a una strega amante, a un aldilà tutto aldiqua si eleva a una parentesi metal per poi lasciarsi abbandonare nel semi-finale (data l'articolazione e la struttura di questi brani, la fine o il proseguo sono di quanto più imprevedibile) che rimane il suo momento più efficace: una scansione progressive di lento-veloce. Poi, ancora lo spasimo di tutta l'orchestra, orchestra di carne e ossa, non di scheletri. L'incedere funambolico raggiunge la fine offrendo lo spunto a dozzine di brani che si serviranno di mere particelle del costrutto qui presente e che infatti sono lungi dall'essere un capolavoro come questo.

Don't Break The Oath uscì nel 1984: 42 minuti, 9 pezzi. Rispetto all'esordio, segna una differenza pari a quella di un lavoro in presa diretta nei confronti di uno in studio. Per il resto, l'abilità dei musicisti si è affinata, perdendo solo minima parte di espressività rispetto al guadagno in potenza e velocità; la voce di Diamond, consacrata dal bipolarismo falsetto/orco, scopre le varie categorie intermedie tra questi due estremi. Più sinfonia, più lavoro di produzione, più influsso dei Judas Priest nelle fughe delle chitarre; più che altro, un suono davvero heavy pur senza essere thrash o speed. Infine, mentre il primo lavoro era, pur nella forte coerenza dell'insieme, comunque incentrato su canzoni, qui sparisce pressoché del tutto lo status della canzone: non tanto per via di una qualche intenzione di concept (si tratta ancora di un rito in varie fasi), quanto perché dai brani è programmaticamente bandita l'orecchiabilità; non solo: si tratta di brani senza inizio, fine o centro: potrebbero durare all'infinto, o un minuto: per il loro perpetuo rincorrersi e rincorrersi sarebbe lo stesso, e il loro valore non verrebbe in alcun modo meno. Oggi quest'album è più che attuale, ma nel corso della storia un heavy senza thrash o speed è parso confinato al NWOBHM anni 80. Si tratta del lavoro doom-power più compiuto di sempre; perfetto in ogni sua parte. In pratica, tutti coloro che in campo metal non fanno speed o thrash puri vi hanno attinto: dal dark, al death, al gothic, all'epic (oltre al power e al doom, ovviamente). Ogni frangente e ogni espediente (anche il più esteriore) di quest'album ha fatto da scuola per ogni futuro gruppo che operava in questi settori. Normalmente, i critici e le riviste rock, nelle loro varie top100 (che chiamano rock), non inseriscono quasi mai album metal (eccezion fatta per i Metallica, ma più forse per scrupolo di coscienza), e pochissimi punk o hardcore: gettonatissimo invece l'"alternative", perché sa di intenditore... Peccato che questo "alternative" non sia quasi mai propriamente rock; senza contare i veri e proprio generi non-rock: folk, blues, elettronica. Sarebbe più onesto chiamare tali classifiche "pop" (musica popolare).
Tornando al rock, questo è un album per chi fa le classifiche di musica rock in senso tradizionale (chitarra-basso-batteria suonati in un certo modo). "A dangerous meeting" (5') squilla subito con l'evidenza delle chitarre (sarà una costante: rispetto a una sezione ritmica a cui viene lasciata più che altro l'evidenza di fantasiose e occasionali trovate, di stampo principalmente sinfonico). Si affacciano, e sono anzi protagonisti, granitici feedback. Diamond, quando dà l'impressione di fare il narratore, la rinnega subito coll'ormai classico falsetto che richiama allo stato catartico (di una catarsi mai consumata però) e assoluto.

Se in Melissa le forze del male, le essenze, i referenti, avevano una qualche identità, qui si lavora solo di concetti, di entità non meglio definite. Il sinfonico della musica a questo è asservito; a questo calcolo del caos. Un brano del genere fa la storia (prendendo anche solo il punto di vista tecnico) del metal tutto. "Nightmare" (6') a un sostrato doom moltiplica e moltiplica chitarre ora Motorhead nel ritmo (proto-thrash) ora Judas Priest nell'assolo (power). Qualcosa del genere avevano già fatto i Diamond Head, anche se in una dimensione più hard-rock e meno morbosa. Per la prima volta in questo brano si assiste all'uso di chitarre metal tali da creare l'effetto di strumenti a corda rinascimentali: sarà una costante per tutto l'epic o progressive metal futuro. La voce di Diamond si supera e in prove come la presente dimostra di non essere imitabile: ora gregoriana e corale, ora psicolabile, ora rilucente ora tenebrosa, ma sempre con un pronunciato, esistenziale, afflato d'abbandono e sconforto. "Desecration of souls" (5'), dopo un intro debitore degli assoli chitarristici di Budgie e Diamond Head, sorprende per una voce di Diamond che, prima di rifugiarsi o fuggire nel falsetto canonico, si impegna in un tono medio (cantato cioè) inedito per lui (che più che cantare inintelligibilmente stride o recita salmi satanici). "Night of the unborn" (5') prepara con un fraseggio quasi speed l'intervento (cantato) di Diamond, con il quale basso (soprattutto) e batteria finiscono stranamente per farla da protagonisti e dettare loro l'armonia. Continua il brano e Diamond tocca corde sensibilmente alternative rispetto alle solite, in un'interessante variazione sul tema. Più che nel momento del sacrificio, sembra di essere in quello della meditazione. Qualche parallela fuga della chitarra (nello stesso anno Malmsteen provava anche lui cose quasi simili; i Dream Theather ci arrivarono, e peggio, dieci anni dopo, ma nessuno sembra essersene accorto) rende più intrigante e complessa l'atmosfera, fino al finale tutto chitarristico che con un power per l'epoca innovativo e già maturo, in più "fantasy" ed esistenziale al contempo, spiega perché oggi, al massimo, si facciano cose simili, e il metal abbia visto la sua fine nel 1991. "The oath" (7'30'') scatta dopo un mormorio del basso; e sono queste entrate sparate, il susseguirsi dei ritmi, con la pregnanza comunicativa, a rendere tali brani lontani di molto dalla noia, pur in un'apparente uniformità incolore di forme. Poi la voce di Diamond compie il suo capolavoro, con una personale interpretazione di una sorta d'intonazione gregoriana: senza parole il suo strumento-voce, con cui s'immedesima tutto il corpo, s'innalza dalla pur equilibratissima mischia con un corale tanto estraniante quanto raffinato, storico, mitologico e infantile insieme. Pochi secondi di una grande intuizione. E intuizioni del genere ne elargisce in abbondanza tutto il brano: tanto più preziose, quanto non ostentate, non reiterate: è in questo sperpero la preziosità dei brani dei Mercyful Fate. "Gypsy" (3') vede ancora un Diamond irresistibile: pronuncia la semplice parola "No", e lo fa in modo così spettacolare e coinvolgente da potervi benissimo incentrare tutto il brano, che pure non si ferma certo qui, ma nella sua spietatezza si profonde in stacchi su stacchi d'esperienza fantasticata. Finisce con due colpi di grazia d'isteria consapevolissima. "Welcome princess of hell" (4') è tra il marziale e il più estraneo alla guerra; come ancora tra il piagnisteo e la minaccia. Cose eppure tutte interiori, tutte autoreferenziali: essere innocui verso il prossimo appare proposito dichiarato dalla voce di Diamond, che si rovescia su se stessa; o fin dalle chitarre che si vomitano addosso valanghe di riff come per soffocarsi vicendevolmente. Lo splendore di un riff piuttosto che di un altro o un falsetto di Diamond particolarmente cristallino, poi, sembrano voler trascendere anche questo tutto (satanismo compreso, che talora rimane come sorta di scheletro nell'armadio). La polifonia delle voci si accentua. "To one far away" è un mini-break acustico e tutto sommato superfluo. "Come to the sabbath" (5') propone un espediente che diverrà poi celeberrimo: riff metal pesantissimi, alternati da brevissimi inserti acustici, subito rimangiati dai primi e così per un paio di volte. Si potrebbe fare un elenco di album metal che si aprono in questo modo. Senza il proseguo del brano, poi, sarebbe inspiegabile il power che sarà degli Hallowen (che se per metà sono debitori dei Mercyful Fate, per una metà più consistente lo sono degli ultra-sottovalutati e ultra-fondamentali Accept). Giusto per non finire di stupire, il deflagrare del brano si interrompe di botto per lasciare lo spazio a quel metal-liuto di cui sopra: anche qui plagi a non finire per i posteri. La canzone e l'album finiscono senza compromessi e senza preavvisi o siparietti, così come erano iniziati.

Temendo che un perfetto equilibrio si stesse forse compromettendo, appena dopo il secondo album (e quattro anni di convivenza) il gruppo si scioglie. A Diamond, che non stava più nella pelle di lanciarsi in una carriera solista, non sarà rincresciuto. King Diamond, con vari musicisti scelti in base oltre che alla tecnica al loro spessore esistenziale (al loro demonismo), perpetuerà il verbo dei Mercyful Fate con lavori egregi sino alla fine degli anni 80. Nel 1993, dieci anni dopo lo scioglimento, sull'onda della riscoperta da parte delle nuove generazioni, dei classici del passato, Diamond (che continua parallelamente la sua carriera solista) e i due chitarristi originari vorranno ritornare sui propri passi con un'operazione che come tutte le altre (e veramente troppo numerose, specie in campo metal) di tal genere si commenta da sola: su In the Shadows appare alla batteria anche Hullrich che tanto, per quello che aveva da fare coi Metallica del periodo, poteva anche andare a rendere grazie a qualcuno dei suoi beniamini (in questo caso anche compatrioti); Time è del 1994, Into the Unknown di due anni dopo, Dead again di due anni dopo ancora, 9 del (in tal senso veramente martoriato) 1999.

Mercyful Fate

Discografia

Melissa (Megaforce, 1983)

7,5

Don't Break The Oath (Roadrunner, 1984)

7

Return Of The Vampire (Roadrunner, 1992)
In The Shadows (Metal Blade, 1993)
Time (Metal Blade, 1994)
The Bellwitch (1994)
Into The Unknown (Priority, 1996)
The Beginning (Roadrunner, 1997)
Dead Again (Metal Blade, 1998)
9 (Metal Blade, 1999)
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