Non ho rimesso su la musica di SOPHIE. Non ci sono riuscito, e probabilmente andrà così per giorni, se non settimane. Con una, per quanto banale, eccezione: “
It's Okay To Cry”. La avrò già riascoltata una decina di volte, da quando è sopraggiunta la notizia della tragica, prematura, morte di una delle menti più visionarie dell'elettronica contemporanea. E anche a non piangere fisicamente aiuta ad attutire la botta, a meglio digerire la perdita di una voce che, come pochissime altre negli ultimi venti anni, ha spinto in avanti la conversazione su più fronti, rivelandosi interprete di un'umanità straripante, spesso fraintesa, ma in fondo premurosa, grondante amore. Va decisamente bene sfogare il proprio dolore, donargli la dimensione che gli compete: è difficile, ma è la stessa Sophie Xeon a dircelo, che in fondo l'interiorità è il nostro lato migliore.
Suonano del tutto ridicole le accuse di un tempo, che il desiderio di anonimato e l'adozione di un “moniker” così caratterizzante fossero “appropriazione del genere femminile”, qualsiasi cosa un'affermazione del genere voglia significare. Suonano ancora più pretestuose le chiassose alzate di scudi mosse contro il
sound introdotto in brani ormai fondamentali quali “
Lemonade” e “
Bipp”, tanto paradigmatico da permeare i piani alti del
mainstream (da “
Bitch I'm Madonna”, il più geniale singolo licenziato da
Veronica Ciccone negli anni Dieci, “
B Who I Want 2 B”, incluso nell'ultimo album della superstar
j-pop Namie Amuro) quanto dare una svolta a un universo indipendente che nella distorsione e nella decontestualizzazione, ben oltre il
kawaii, dei tratti fondanti il pop anni 00/10 ha individuato una nuova accezione dell'aggettivo “estremo”. Questo, e tutte le chiacchiere su accelerazionismo, sulle eventuali teorie (anti)capitaliste alla base del suono di Xeon e degli amici di casa Pc Music (da cui ha preso nome il
sound stesso), è tutto ammantato da uno spesso strato di ovatta, perde di qualsiasi importanza. Di fronte a una poetica che ben presto ha trasceso (senza mai dimenticare) le sue origini, ben poco può il chiacchiericcio.
Basta un video, il mettersi letteralmente a nudo, per mettere le cose in ordine, ed esplicitare quanto si poteva già subodorare sin dagli albori. Con una maschera che in fondo non è mai stata realmente una maschera, e una voce che trova finalmente il contesto giusto per liberarsi di ogni filtro, arriva “It's Okay To Cry” e scioglie ogni dubbio. Sulla persona, sull'artista, sui messaggi: dacché l'immaginario
queer appariva in tralice, tra le pieghe dei singoli raccolti in “
Product”, con il nuovo corso, e un'identità mostrata con dolce fierezza, la macchina guidata da SOPHIE ingrana la quinta, accelera e non si ferma più.
Nasce un'icona, non più soltanto la produttrice di spicco che dona nuovo slancio a potenziali “starlette” fagocitate dai meccanismi del
mainstream (“
Vroom Vroom” di
Charli XCX ormai è un classico del genere), ma artista a tutto tondo, padrona della propria vulnerabilità, dei fili più intimi del proprio essere, non più contenuto in facili dicotomie, ma libero di esprimersi ed espandersi a proprio piacimento, affrancato da ogni restrizione. “
Oil Of Every Pearl's Un-Insides”, che seguirà di lì a breve, dopo un'eccitante sequenza di singoli (“
Faceshopping” e le sue elaborazioni liriche rubano sicuramente la scena), mette in luce l'essenza poetica della
producer, il suo tocco compassionevole che da uno spazio espressivo del tutto personale raggiunge il mondo intero.
Allusiva senza essere ermetica, intima ma non per questo solipsistica, la penna della compositrice ha tratteggiato immagini chiare, da un futuro che finalmente marcia a ritroso e abbraccia il presente, svelando tutta la bellezza di una vita in transizione, di un percorso che non deve avere approdi prestabiliti, ma può (sof)fermarsi dove e come lo ritiene opportuno. Non è di certo la prima artista transgender ad avere riversato in musica la propria esperienza, forse nessuna però prima di SOPHIE lo aveva raccontato con questo candore, con un senso di normalità (tanto nelle sue sfaccettature più euforiche quanto in quelle più sinistre) che ripudia ogni forma di banalità, ma vede nell'alterità (qualsiasi essa sia) un fatto, non una sob-story da offrire in pasto ai curiosi. Se la musica aveva già persuaso, adesso è il pacchetto completo a sedurre, a commuovere, a conquistare. E se il cordoglio seguito alla sua scomparsa (non soltanto da parte della comunità queer internazionale, raramente coesa come in questo caso) sta a significare qualcosa, la conquista, per quanto mai urlata, stava avvenendo ad ampissime falcate.
Fa male sapere che è “
Unisil”, un
outtake di “Product” finora inedito, l'ultima testimonianza di una mente che come pochissime altre ha definito gli anni Dieci. Fa male essere consapevoli di quanto un incidente fatale ci abbia privato di una personalità, un
savoir-faire, un'icona, in un contesto che di icone vere fatica a produrne. Ammirare la luna piena, d'ora in avanti, avrà un sapore diverso.
It's definitely colder in the water now....