Luke Rhinehart - L'uomo dei dadi (1971, pubblicato da Marcos Y Marcos nel 2004)
Lucius Rhinehart è un affermato psicologo nella New York dell’estate 1968 che col tempo ha perso la passione per la sua professione ed è stufo dei soliti metodi. Il suo matrimonio si sta inoltre avviando verso una crisi, gli amici sono sempre gli stessi, gli stimoli mancano e la vita si trascina stanca e senza mordente. Una sera, al termine dell’ennesima partita di poker, spinto da un irrefrenabile desiderio nei confronti della sua vicina di casa, moglie del suo migliore amico nonché collega, Lucius decide di affidare a un dado il suo farsi avanti o meno con la donna. Il lancio gli offre un responso positivo. Così Lucius si butta, e gli va bene. Da quel momento lo psicologo decide di affidare la sua intera vita al dado. Prima gli assegna scelte di poco conto, poi via via si impone interi cambi di personalità a seconda di ciò che il gioco gli comanda. Volta per volta diviene un folle, un barbone, un fervente religioso, un ateo impenitente, un omosessuale, uno scienziato, un personaggio aggressivo o alquanto mite, un nero, un marito modello, un marito fedifrago, un assassino, Gesù Cristo. Questo e molto altro in un crescendo delirante sempre ironico ma alquanto lucido nel mostrare quello che tutti potremmo essere, basterebbe mutare costantemente il proprio assetto psicologico.
“L’uomo dei dadi” dell’americano George Powers Cockcroft, in arte Luke Rhinehart, è un libro di culto uscito negli Stati Uniti nel 1971 e pubblicato in Italia nel 1973 (dal 2004 circola un’edizione curata da Marcos Y Marcos, in una ristampa c’è anche un dado in omaggio). Il volume scivola dalla satira al grottesco ma riesce a essere anche una sorta di trattato psicanalitico decisamente illuminante, se si va oltre la patina di ironia dissacratoria di cui è composto. La pseudo-autobiografia del dottor Rhinehart svela quanto siamo schiavi delle nostre personalità. A volte basterebbe veramente affidarsi al caso (e dotarsi di coraggio) per trasformarsi in qualcun altro. Questo ci aprirebbe a nuove realtà, potremmo provare sulla nostra pelle quello che provano tutti quelli che sentiamo distanti da noi. Sono timido? Il dado mi dà coraggio per essere un non-timido. Ho paura del diverso? Mi trasformo nel diverso, mi metto nei suoi panni, capisco quello che prova e scardino le mie chiusure. Non vado d’accordo con una persona? Divento quella persona e cerco di comprendere sulla mia pelle il suo punto di vista. Mi annoio di me? Divento un altro.
Detta così pare semplice, e far forza su quelli che sono i meccanismi (e le catene) della propria personalità non è certo il gioco che Luke Rhinehart mette in atto tra le pagine del suo romanzo. Ma il libro dovrebbe essere solo il pretesto per rifletterci un poco sopra. Siamo veramente “Io sono fatto/a così” o è solo una bugia che ci raccontiamo, un paravento che usiamo quando non vogliamo prenderci la responsabilità di metterci in gioco o entrare in empatia con altre situazioni e persone? “L’uomo dei dadi” cerca una risposta a questa annosa domanda e leggendo non sono pochi i momenti in cui, dado o non dado, si avverte il desiderio di uscire dal sé abituale, indossare altri caratteri e liberarsi finalmente dalle auto-imposte catene.
Volete provare? Pensateci, e nel frattempo non fatevi scappare “L’uomo dei dadi”, vi divertirà e vi metterà in crisi come solo le grandi opere sanno fare.
Colonna sonora: Dargen D'Amico – Nostalgia istantanea (2012)
Come Lucius Rhinehart, Dargen D'Amico è uomo dai mille volti. Agli occhi del grande pubblico è un rapper. Ma non solo, anche un giudice a X-Factor. Ma prima di tutto un rapper. Molti lo hanno visto a Sanremo, in verità meno rappante del solito, a snocciolare perle di saggezza sociale e, al contempo, a far ballare le piazze d'Italia. Ma ancora una volta c'è di più. E quel “di più” è realmente tanta roba. Dargen D'Amico è il rapper più intelligente d'Italia, il più innovativo, il più sperimentale, il più creativo. Fin dall'uscita del suo essenziale primo album (“Musica senza musicisti”, 2006) ha dimostrato di usare il rap in maniera al tempo stesso usuale e inusuale. Dargen spara rime, quello lo fanno tutti. Dargen tira fuori una parlata anglo-milanese che se non si sapesse l'ironia che sta dietro alla cosa sarebbe anche fastidiosa. Ma ironia ce n’è, tanta. È come se il nostro mettesse in scena una parodia del rap che alla fine si mostra positiva e originale. Originale e geniale. In primis perché perché il tessuto musicale è quanto di più innovativo possa esserci. Alla base c'è molta elettronica, come d'uso, ma non c'è mai la pochezza e la monotonia di altre esperienze simili, al contrario, è un vero caleidoscopio di invenzioni. Chi avrà voglia di entrare nel flusso del già citato “Musica senza musicisti”, e dei successivi “Di vizi di forma virtù” (2008) e “Cd'” (2011) potrà trovarsi al cospetto di una sorta di Frank Zappa rap.
Per chi conosce il genio di Baltimora non servono altre parole, per gli altri dico solo che c'è il rischio di finire l'ascolto realmente storditi da una ricchezza sonora che molto spesso se ne frega della commercialità e crea giungle amazzoniche di suono. Nel 2012 poi arriva “Nostalgia istantanea”, che è ancora un'altra cosa. L'album contiene due suite (di diciotto e venti minuti), che scardinano ogni idea si possa avere del rap. Già negli altri dischi il tessuto lirico era straniante. Dargen è uno che quando scrive i testi riesce a insinuarsi nei labirintici recessi della psiche con la perizia di un vero minatore dell'anima. Nessuna immagine è scontata, ogni parola è un concentrato di poesia esistenziale. E dimenticatevi anche i successi sanremesi. In “Nostalgia istantanea” si va anche oltre, si assiste a una girandola impazzita di concetti, emozioni, esperienze, ricordi che vengono spalmati sul flow in maniera libera e originale. Dimenticatevi tutto quello che sapete (o pensate di sapere sul rap), qui è tutta un'altra storia. “Nostalgia istantanea” fa l'effetto di una seduta psicanalitica in acido, pare di entrare nella mente multiforme di Lucius Rhinehart e perdersi nelle sue varie impersonificazioni.
Dargen ha scritto i testi andando per libere associazioni, facendo in modo che la penna scorresse sul foglio senza nessuna restrizione, dando libero sfogo a un'immaginazione senza limiti. Dice di averlo concepito nei momenti che precedono e seguono immediatamente il sonno. E il tessuto onirico che sta alla base si avverte distintamente, proprio come sogni le parole volano nella testa dell'ascoltatore narrando frammenti sparsi della vita dell'artista che si specchiano nel vissuto di ognuno. Un flusso di coscienza impazzito, con giochi linguistici e squarci di profonda intimità che restituiscono un Dargen completamente a nudo. Potrei citarne stralci particolarmente illuminanti (e ce ne sono a decine) ma il flusso è talmente compatto che va preso nella sua interezza, occorre abbandonarsi totalmente alle leggi non dette della coscienza. Sotto intanto scorre una base dove le poche note di una melodia apparentemente semplice paiono scontrarsi con l'introspezione profonda delle parole. Restano sospese, poi parte un ritmo che si ferma e indugia, e il flusso non cessa mai. E ti accorgi che quelle semplici note si accordano perfettamente allo scavo, un giro ipnagogico che pare farsi filastrocca sonora per lenire la profondità dello scavo. Poi giri la facciata e nei venti minuti il delirio si fa ancora più intenso, la base è un perfetto esempio di frippertonics. Le parole si sono fatte oscure, adesso veramente non c'è nessun appiglio, nessuna consuetudine, nulla a cui aggrapparsi per decifrare la voce di una coscienza in piena eruzione. Così quella voce diventa anch'essa musica, tutto si sfibra, tutto si smarrisce, anche la propria identità.