Autore: Nickolas Butler
Titolo: Shotgun Lovesongs
Editore: Marsilio
Pagine: 320
Prezzo: Euro 18,00
Un cantautore barbuto che diventa star planetaria, tutto grazie a un disco registrato in solitudine nel mezzo della neve del Wisconsin. Vi ricorda qualcosa? Ebbene sì, non è difficile riconoscere i tratti di Bon Iver nel personaggio intorno a cui si incentra “Shotgun Lovesongs”, romanzo d’esordio dello scrittore americano Nickolas Butler.
Era inevitabile, in fondo, che una storia ad alto tasso di suggestione come quella di “For Emma, Forever Ago” ispirasse prima o poi una trasposizione letteraria (e probabilmente anche cinematografica, visto che i diritti del libro sono già stati acquistati dalla Fox Searchlight). Ma “Shotgun Lovesongs” sceglie di affrontare il racconto dal punto di partenza meno scontato: che cosa succede dopo? Dopo l’inverno, dopo l’isolamento, dopo che quelle canzoni fragili e spoglie sono arrivate fino al palcoscenico dei Grammy?
Per Lee Sutton, in arte Corvus, è arrivato il momento di tornare a casa. L’inaspettato successo del suo primo disco (intitolato appunto “Shotgun Lovesongs”), i tour mondiali, persino l’amore di una stella del cinema: sembra avere ottenuto tutto quello che poteva desiderare, eppure qualcosa lo spinge ancora a Little Wing, in un angolo sperduto del Wisconsin.
È lì che una sorta di “assurda specie di gravità” è destinata a ricongiungere le vite di un gruppo di amici d’infanzia, chiamati a fare i conti ciascuno a proprio modo con il passaggio all’età adulta: Henry, l’agricoltore con la testa sulle spalle; Kip, il broker affamato di riscatto; Ronny, l’ex-eroe del rodeo che un incidente ha segnato per sempre. E, ovviamente, Lee, la leggenda vivente di Little Wing.
Attraverso l’intrecciarsi delle loro storie, a emergere è però un altro protagonista: la terra del Wisconsin, con i suoi silenzi capaci di vibrare “come una corda pizzicata milioni di anni fa”. È di quello, in fondo, che parlano le canzoni di Lee. Canzoni “sugli onnipresenti campi di grano, le foreste decidue, le colline gibbose, le gole strette e profonde. Sul freddo a lama di coltello, i giorni troppo corti, la neve, la neve, la neve”.
C’è un’icona che, nell’immaginario dei protagonisti, riassume tutto il senso di questa appartenenza alla terra: è la fabbrica abbandonata che troneggia sull’orizzonte di Little Wing, come un monito tacito che incombe sulle loro vite. Da ragazzi, si arrampicavano sui suoi silos di legno e cemento per guardare verso l’infinito, con gli occhi pieni di attesa. Ma anche il tentativo di Kip di riportarla in vita non basta per ritrovare quello sguardo.
È la musica dei tramonti visti da lassù a ispirare per prima l’animo di Lee. La sua voce si nutre di quei colori: “cantava in un falsetto angoscioso, e se lo ascoltavi attorno al fuoco qualche volta poteva farti scoppiare a piangere, mentre fissavi le ombre inaffidabili emanate dalle fiamme arancio-giallastre e dal fumo bianco e nero”.
Butler parte da lì per raccontare la nascita del disco, attraverso un flashback centellinato lungo tutto il romanzo che va ad attingere direttamente alla biografia di Bon Iver. La disillusione, la solitudine, il freddo e quel pollaio angusto dove rinchiudersi a suonare come se fuori il mondo non esistesse più. “La musica somigliava tanto al pollaio: era un posto freddo affamato di calore”.
In America, “shotgun wedding” è un matrimonio riparatore, un matrimonio con il fucile spianato. Per Lee è più o meno la stessa cosa: “Ecco come mi sentivo rispetto a “Shotgun Lovesongs”. Come se quel disco mi avesse puntato un fucile alle spalle”. La Emma della storia, Beth, è diventata nel frattempo la moglie del suo migliore amico. E con le cicatrici di quel lungo inverno tutti dovranno fare i conti.
Lo stile piano di Butler conduce il racconto verso una parabola corale di amicizia, tradimento e ricerca di sé, in cui al gelo fisico del Wisconsin si contrappone quello interiore di una New York in cui tutti cercano di nascondersi dietro lo schermo di uno smartphone. Non conta avere il numero di telefono di Bob Dylan appuntato sulla parete del proprio studio di registrazione (“è la cosa più vicina a una linea privata con Dio”), quando non si ha niente da dire alla voce che aspetta all’altro capo del ricevitore.
La cosa più difficile di tutte, però, è il perdono. È qualcosa per cui occorre essere pronti a scavare nella ferita aperta del proprio cuore, “attraverso i frantumi e le schegge di proiettile delle nostre vite disfatte”.
Ed ecco, di nuovo, la musica. In tutto il dipanarsi del romanzo, la musica è il catalizzatore, l’imprevisto, il soccorso. Il juke-box di un vecchio locale, la melodia gridata in una tormenta, il coro di una chiesa sulle note di “Can’t Help Falling In Love”. Ritrovare una ragione per cantare insieme, per suonare insieme, per ballare insieme: è tutto qui, in fondo, il punto. “L’America, per me, è gente povera che suona musica”, fa dire Butler a Lee Sutton. “Gente povera che condivide il cibo e gente povera che balla anche quando tutto il resto della loro vita è così triste e disperato che sembra non debba esserci spazio per suonare, mangiare o abbastanza energie per ballare”. A volte occorre che la vita ti punti un fucile addosso per riscoprirlo.