Cocteau Twins
Head Over Hills
(4AD, 1983)Una pausa di silenzio e poi, subito, Elizabeth Fraser inizia “In The Gold Dust Rush” con il suo tono più frigido, sottomessa alla superficie, simile a Siouxsie, e tuttavia in cuor suo sempre irriducibilmente avversa alla paura del dover ricordare, come se si dicesse che avrebbe dovuto fare appello a tutte le sue risorse. In “Head Over Hills”, più che la solita aria mortalmente annoiata, intrisa di vaghi e pesanti presagi di delusione, vi si trovano un cane con una coda che scodinzola all'estremità, il vento che rompe le erbe acquatiche molli come capigliature: la scoperta di vivere la propria infanzia rincorrendola nella memoria. Ricordi cosi vivi che par ieri: segno certo di vecchiezza! I Cocteau Twins arrivano persino a sognare con tenerezza - incredibile dictu! - di un amore adolescenziale, senza però accoccolarsi in un umor nero o riferire schematicamente quanto è rimasto. Non c'è compiacenza nella loro musica: dimenticano l'invidia e il rimorso, resistono a qualsiasi coinvolgente lusinga e finiscono per passare in rassegna ogni argomento toccato con un unico “occhio” leggero e lungimirante. La gioia si confonde tra una lamentevole ossessione; ma la sofferenza trova scampo nella pietà per diventare anch’essa prova visibile del proprio “peccato” – ah come diffido di questa detestabile parola!
“Head Over Hills”, secondo album dei Cocteau Twins, racchiude una carezzevole magia che costringe l’ascoltatore a una continua partecipazione, perché continuo e poderoso è il suo messaggio. Una liquidità insinuante simile in tutto all’aria furtiva di una sbirciatina spaventata nella stanza del personale che l’arco degli anni ha allungato in tutta la sua inettitudine. E proprio quando i nostri meschini sforzi tentano di dare forma e nobiltà a questo disco, Elizabeth Fraser, come una preda ambita in “Glass Candle Grenades”, ci saluta con un abile inchino. Quella devastante osservazione da capogiro era terminata. (Gianluca Jandelli)
Cocteau Twins
Treasure
(4AD, 1984)I dischi della 4AD hanno sempre avuto delle copertine molto curate, oscure e nel contempo affascinanti. Da questo punto di vista quella di “Treasure” - il terzo album dei Cocteau Twins - è una delle meglio riuscite. La foto rispecchia pienamente il contenuto. La voce di Liz Fraser è sensuale e carezzevole come un drappo di velluto, leggera come una veste di pizzo su di un corpo nudo. A dire il vero ci aveva già catturato sul disco dei This Mortal Coil cantando “Song To The Siren” di Tim Buckley, ma in “Treasure” raggiunge livelli inauditi. Un diario intimo che, con la sua atmosfera celestiale, cattura un'emotività perduta nella ricerca di qualche stupido e più rapido eccitamento fisico.
Un’atmosfera ovattata, di rilassamento, dicevamo, più che di preghiera o di sofferenza, come potevano essere invece i precedenti dischi dei Cocteau Twins. A rilegare le innumerevoli pagine di quel diario di sensazioni che è “Treasure”, ci pensano Simon Raymonde e Will Guthrie. Con basso, batteria elettronica e chitarra, essi costituiscono e intrecciano il telaio di tutto il disco, attraverso il quale la voce di Liz Fraser si destreggia guizzando di qua e di là, innalzando e sussurrando frasi, ripiegandosi su se stessa, a volte.
Tutte le canzoni hanno per titolo il nome di una persona. S’inizia con “Ivo” – forse un tributo al capo della 4AD – per arrivare alle travolgenti “Persephone” e “Pandora”, quest'ultima dagli accenni più pop. In un clima più aulico, dove Liz Fraser assomiglia a Kate Bush e a Virginia Astley, i migliori brani della seconda facciata ci sembrano “Aloysius” e “Otterley” e “Domino”. Pur sbilanciandosi, la rivista inglese Melody Maker non andava poi tanto lontano dal vero affermando che “questa band è la voce di Dio”: perché “Treasure” possiede effettivamente una spiritualità non comune che lo rende un disco imperdibile. (Gianluca Jandelli)
Cocteau Twins
Victorialand
(4AD, 1985)Un disco non da consumare ma da ascoltare. È ciò che si legge nella sottile filigrana di questo “Victorialand”, dedicato dai Cocteau Twins a tutti coloro che chiedono alla musica il piacere delle illusioni deliziose, delle armonie sublimi, dei suoni soprannaturali. Robin Guthrie e Elizabeth Fraser si rivolgono a tutta questa gente che ama le vecchie tendine di pizzo, il bianco e nero misterioso, i leggeri riverberi di uno specchio fumé e, generalmente, le atmosfere oniriche e tenebrose.
In effetti, la musica dei Cocteau Twins non è altro se non un gradevole dispositivo atmosferico: con dei rumori a onde, dei fruscii costanti e leggeri, una pioggia fine che imperla delle sottili membrane acustiche, degli strumenti rari e sapienti che emergono tutti da un'estetica nostalgica che privilegia di diritto le voci tenui e le chitarre tremolanti. Da una sequenza all'altra del disco sembra di assistere ad un sortilegio mistico che si sforza di avvicinare l'orecchio ai suoni più fievoli e oscuri della natura. Si potrebbe facilmente immaginare un proprio film seguendone gli umori mutevoli, le emozioni appena increspate, le ombre sfuggenti: una serena giornata d'estate ricreata in un ambiente deserto, nella ovattata pigrizia di un silenzio che si sbriciola nella risata di qualche bambino, con un disco di Debussy e un altro dei Durutti Column ai piedi del giradischi.
I Cocteau Twins hanno scelto di fare una musica eterea e immateriale, qualcosa che sembra sopravvivere ad un passato antico e che respira ancora oggi l'aria attutita un salotto neo-classico. Le pretese sono alte tanto quanto i punti toccati da questi suoni. Dei suoni chi hanno la consistenza del vapore e dei giochi strumentali sottili come le venature di una foglia. Questo disco è un diadema di brillanti. La sua luce rischiara una notte senza stelle. A mezz'ora di cammino dal paradiso, tra l'isola del “tesoro” e “Victorialand”. (Giampiero Vigorito)
Cocteau Twins
Blue Bell Knoll
(4AD, 1988)“Athol-Brose”? “Ella Megalast Burls Forever”? Non aspettatevi di ricavare indizi sull’identità sibillina dei Cocteau Twins dai titoli o dai testi delle loro canzoni. Il linguaggio fonetico per quanto li riguarda è una funzione dipendente dalle esigenze armoniche poste dal timbro cristallino della voce di Liz Fraser, la cui duttilità non può certo essere imprigionata da vincoli verbali. La comunicazione ha luogo dunque in modo sensoriale, soccombendo cioè al tepore amniotico che sprigionano musiche così amorevolmente confezionate e cogliendo – sospesi in ipnosi armonica – impulsi e suggestioni che migrano da un immaginario all’altro. È sempre stato così e le cose non cambiano con questo disco nuovo, quantunque si tratti del primo loro atto pubblico da oltre due anni a questa parte. Tanto è stato necessario per mettere a punto le geometrie complesse di “Blue Bell Knoll” riponendo frattanto nel ripostiglio dei ricordi l’avventura vissuta nei meandri del suono ambientale al fianco di Harold Budd e – viceversa – riscoprendo il piacere di racchiudere i propri desideri impressionistici nella sempiterna forma della canzone. Per questa ragione “Blue Bell Knoll” ci restituisce i Cocteau Twins nella veste in cui maggiormente li apprezzammo (l’epoca di “Head Over Heels” e “Treasure”), capaci cioè di indirizzare il proprio indiscutibile talento in una direzione decifrabile. A un certo punto infatti pareva che le aeree evoluzioni da soprano di Liz e le intricate architetture sonore concepite da Robin Guthrie esistessero per se stesse, invaghite del proprio fascino come Narciso, e non si curassero di darsi un preciso scopo espressivo.
Sarà stato forse il ritorno di Simon Raymonde, il terzo elemento per qualche tempo escluso dalla formazione, a dare un nuovo equilibrio. Fatto sta che “Blue Bell Knoll” costituisce un rientro in grande stile di cui sono ambasciatrici canzoni quali “Cico Buff”, “Ella Megalast Burls Forever” e la stessa “Blue Bell Knoll”, che parranno enigmatiche nei titoli, ma conoscono l’esperanto delle emozioni quando si tratta di comunicarle. E tanto basta. (Alberto Campo)
(da Rockstar, 1983 - 1984 - 1985 - 1988)