Brian Eno

"On Land"

All'età di dodici anni anni Brian Eno scopre, poco distante dalla casa nella quale vive con i genitori, una piccola foresta. Un antro solitario dove non si scorge anima viva, un varco di irrealtà nel quotidiano che l'artista in nuce esplora in ogni minimo dettaglio; la posizione di un albero in rapporto agli altri, la fauna, il sottobosco con il suo brulicante mondo in miniatura. La foresta entra a far parte dell'intimità di Eno e vi rimarrà fino all'età adulta, quando – (non) musicista e produttore oramai affermato - decide di riappropriarsi delle sensazioni provate in quel luogo suggestivo.

Con il quarto e ultimo volume della serie “Ambient” (inaugurato nel 1979 con il caposaldo “Music For Airports” e proseguito con l'impalpabile “The Plateaux Of Mirrors”, in coppia con Harold Budd, e con il luminoso “Day Of Radiance” di Laraaji) Eno partorisce qualcosa che non ha quasi più nulla a che fare con note, ritmi e armonie, ma è imparentato strettamente al riaffiorare di stati d'animo ormai sepolti, piccole sensazioni che riemergono dal pozzo scuro dell'inconscio e si tramutano in una tavolozza di suono astratto. “On Land” è uno scavo nelle profondità del suo creatore che si riflette nell'ascoltatore, nove brani che parlano del mondo fanciullo del giovane Brian ma allo stesso tempo scardinano la porta di legno delle nostalgie di ognuno.

Prima di dormire, nel passaggio tra la veglia e il calarsi negli abissi misteriosi del sonno, si fanno strada a fatica  - sommersi dalla mole di esperienze che si stratificano, ora dopo ora, anno dopo anno - dettagli, frammenti di ciò che siamo stati, che abbiamo provato, specie nei primi anni di vita. L'ascolto di “On Land” li cattura e li riporta alla luce. “The Lost Days”; la calma spettrale di un lago in un crepuscolo che pare già notte fonda, la nebbia e il silenzio assoluto. Una boa al largo fa tintinnare debolmente la campana attaccata alla sua sommità. Dalla riva solo le minuscole onde che si vanno a infrangere sull'arenile fangoso e il suono lontanissimo della campana, coperta da un cielo invisibile.

“On Land” doveva chiamarsi “Return To Lost Days”, dato lo spirito rimemorativo che lo attraversa, con un'immagine ben precisa nella testa del suo creatore: quella dell'ascoltatore e del compositore seduti uno accanto all'altro su un altopiano, circondati da un immenso spazio geografico e da molti suoni; alcuni lontani, appena percettibili, altri più vicini. Questi suoni giungono da tutte le direzioni senza particolari connessioni, lo spirito e la mente li catturano e creano le melodie. Eno vuole trasparenza; particolari più vicini che non ostruiscano la via d'ascolto a quelli più distanti. Per far ciò immagina una stratificazione in filigrana di musica e rumori; la prima è messa sul piatto da collaboratori di prim'ordine (Bill Laswell, Jon Hassell, Daniel Lanois e altri) che Eno registra (e poi trasfigura) dando loro precarie indicazioni tratte dalle “strategie oblique”. A ciò si aggiungono un portacenere urtato da una matita, una cannuccia soffiata in un bicchiere pieno d'acqua, bastoni e catene registrati e poi rallentati fino a sfibrarli, fargli perdere consistenza, renderli fantasmi.

Dunwich Beach, Autumn, 1960, ancora il Brian dodicenne che si smarrisce a esplorare il panorama autunnale della spiaggia, a chinarsi a toccare le pietre, a farsi scivolare tra le dita la sabbia. Schegge collocate nel più angusto scaffale dello sgabuzzino del sé rivivono tramite “On Land”, forse il disco più intimo mai realizzato. Intimità che chiede un ascolto attento, in cuffia, al buio. Più che un ascolto un'esplorazione dei suoi anfratti, dei suoi spettri sonori, alla ricerca di un giocattolo perduto di cui non si rammentava l’esistenza, di un colore, un profumo, un luogo che si pensava dimenticato per sempre. “On Land” è la via verso il mondo della pura e dolce malinconia.