14/04/2005

Tarwater

Museo della Scienza e della Tecnologia, Milano


Lo confesso, sono un po' disorientato. Il Museo della Scienza e della Tecnologia l’ho visitato un paio di volte in tenerissima età, per cui mi è molto facile associarlo alle gite scolastiche e un bel po' più complicato pensarlo come location di una manifestazione cool come il TDK Dance Marathon. Invero la sala Biancamano non è che un salone distaccato dal Museo, tuttavia gli aerei nel cortile, un’antica piroga e il vecchio scafandro da palombaro che fanno mostra di sé dietro a vetri doppi dall’aria austera, non fanno che accrescere il gusto dolceamaro del romantico salto temporale. Un po' di nostalgia, forse annegata nelle tiepide luci soffuse in rosa-rosso, magari appartata nel griffato ipermodernismo di un’istallazione algida e sinuosa, di certo appiccicata, manco a dirlo, alla musica dei Tarwater. Un via vai di persone più interessate alla luccicante parata mondana che al resto, le artificiose immancabili pacche sulle spalle da meeting patinato, il drink, il piatto di plastica usa e getta che fa tanto “happy hour”, le fighissime magliette elasticizzate TDK, i gadget tecnologici in ogni dove: quando Bernd Jestram e Ronald Lippok danno il via alle danze, ben incorniciati fra le suggestive proiezioni che si succedono sullo sfondo, a presenziare c’è solo l’aria distratta e vacua della mera evasione.

Un laptop, un certo numero d’aggeggini digitali, la voce indolente e vitrea di Lippok, ma soprattutto il basso tritatutto di un soprendente Jestram: l’approccio è quello di due musicisti veri, che però brandiscono lo stesso martello che ha già demolito gli steccati fra elettronica e rock’n roll, filosoficamente molto vicino alla figura del “non musicista” di Eno-iana memoria, insomma. I Tarwater hanno un disco nuovo di zecca da promuovere, un disco pop dalla scrittura garbata, discreta e ordinata, un disco maledettamente bello. Ne sono ben consapevoli i due berlinesi, a tal punto da riservare a “The Needle Was Travelling” ben dieci delle tredici tracce che disegnano il live: c’è di che essere orgogliosi di questo pugno di canzoni a metà strada fra il dj set da american bar di classe e i romantici arpeggi da computer in Kraftwerk style, di quelli che trasmettono l’amore e l’adesione incondizionati per una scuola, quella tedesca, che non ha nulla, ma proprio nulla da invidiare a quella anglo-americana.

Non c’è da attendersi mirabolanti divagazioni sul tema, l’avant-pop mal si presta, e infatti l’uno-due iniziale ricalca pari pari l’incipit del disco, apertura dedicata al funkettone pop di “Across The Dial”, seguito dalla cavalcata notwistiana di “Stone”. Prima sorpresa: lo svogliato, scientifico registro di Lippok si esalta anche nel formato live, e ben lo si comprende con “Seven Of Nine” canzone che sancisce la fine delle prove generali e ci catapulta dritti fra le luci ovattate del locale..."and we walk out of this darkness, and we walk into the light”, ama ricordarci Ronald, presente e malinconico quanto basta per strappare il primo applauso che ricambia con un italianissino “grazie”.

Fino a qui la scaletta è identica al disco, e non è affatto un male, credete: così la strumentale “Entry” (suggestivo outtake dei Cure di “Seventeen Seconds” vitaminizzato da arrangiamenti di fiati degni di David Sylvian?) c’introduce al piatto forte rappresentato dalla cover dei Minimal Compact “Babylonian Tower”, in cui il parlatissimo vocalizzo di Lippok è talmente a proprio agio da inalarci cascate di corroborante sensualità. La musica dei Tarwater è un freddo ruscello che scorre fra le caviglie e che si ingrossa senza che ci si possa accorgere: anche i distratti della prima ora abbandonano finalmente i salamelecchi e se ne stanno attenti a seguire le manipolazioni a cuore aperto del duo.

E’ davvero incredibile come suona il basso Bernd Jestram, dicevamo. Non lo avrei mai pensato, davvero, e non tanto perché dubbioso circa le sue capacità, ma perché questo è il genere di live in cui di tutto ci si aspetta, fuorché il gesto tecnico. E invece Jestram, con l’espressione corrucciata e scazzatissima di un Nick Nolte in salsa crucca, pennella linee di basso linde e niente affatto semplici: una macchina in carne e ossa fra le macchine umane che cullano nell’aere la svagatatezza della voce. Fra un paio di richiami all’acclamato album “Dwellers On Threshold”, “Now”, ma soprattutto l’incantevole notturno di “Imperator Victus”, e uno che rinfresca il trip-hop di “Animal Suns & Atoms” (“All Of The Ants Left Paris”), il concerto si chiude con l’ennesimo esercizio di stile direttamente tratto da “The Needle Was Travelling”, che qui assume le sembianze gommose e acquatiche di “90 Days”. Nessun “encore” e tanti saluti, immortalati nel pudico sorriso di Bernd Jestram e di Ronald Lippok: se la missione era quella di catalizzare l’attenzione dei forse numerosi avventori che a malapena li avevano sentiti nominare, ebbene questa è da considerarsi pienamente compiuta.

Setlist

1. Across the dial
2. Stone
3. Seven of Nine
4. Entry
5. Babylonian tower
6. Jackie
7. All that
8. Now
9. All of the ants left Paris
10. The People
11. Unseen in the disco
12. Imperator Victus
13. 90 Days

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