Dalla Francia a Londra il passo è stato breve per gli Underground Railroad; perennemente in bilico tra grunge, psychedelia e citazioni cinematografiche di David Lynch, il trio non sembrava riuscire a trovare il giusto equilibrio tra pulsioni indie-rock e ambizioni da rock-stadium.
Non hanno ancora deciso se essere i nuovi Sonic Youth o i gemelli diversi dei Radiohead, ma questa esitazione in verità offre a “White Night Stand” la possibilità di scivolare verso un suono più diretto e accattivante.
Le intuizioni più felici del loro terzo album si manifestano maggiormente nelle sonorità e nella patina di oscura disperazione che grava sulle monocordi tracce dell’album.
L’evoluzione è interessante e stimolante, gli Underground Railroad mostrano un piglio più deciso e una coesione armonica più netta, tutti elementi che potranno finalmente spalancare le porte al successo.
Elementi noise e una maggior presenza di basso e ritmiche ossessive aggiungono un senso di oscuro presagio che affascina e incuriosisce.
Quello che non si è evoluto è, tuttavia, il loro songwriting; nel tentativo di evocare i loro numi tutelari sfiorano spesso il plagio da b-side, come dimostrano ad esempio “We Were Slumbering” e “Traces Of Nowhere”, che possono annoverarsi nella lunga teoria di brani simil-Radiohead che inflazionano il panorama rock-indie.
L’affascinante melange di post-punk e delizie da femme fatale si concentra negli episodi più riusciti: il blues frastornato di “The Black Widow” è una delle migliori performance della loro carriera, un riff funesto che coinvolge un insieme di voci e pulsioni psichedeliche, una magia che prosegue in “The Orchid’s Curse”, corrosivo rock dalle mille variabili cromatiche che guizzano su un corpo armonico apparentemente monocorde e sorprendentemente sfaccettato.
La rete di emozioni che “White Night Stand” distende intorno alle ambizioni del gruppo, possiede esche a sufficienza per raccogliere proseliti, ma non si può tacere lo smarrimento che provoca “Seagull Attack”, confusa tra lungaggini e banalità armoniche, né il disagio che accompagna la pseudo-modernità di “Ginkgo Biloba”.
Il passo avanti compiuto dal gruppo francese è evidente nella insolente nenia futurista di “Lucky Duck”, tra ritmi ossessivi, loop di chitarre violate e cori gothic-doom, per una cavalcata visionaria che spinge oltre le sonorità e raggiunge un climax perfetto.
In definitiva c’è molta carne al fuoco in “White Night Stand”; e anche se il tragitto verso la maturità è ancora lungo, ma pur senza elevarsi dalla aurea mediocrità del rock indipendente, l’album non risulta sufficiente a sdoganare il ruolo da outsider della band francese.
17/06/2011