Alice Cooper

Alice Cooper

Il padrino dello shock rock

Prima con l'omonima band, poi come solista, Alice Cooper è stato per un decennio il nome di punta dello shock rock, facendo registrare un importante passo avanti nell'evoluzione della musica popolare. I suoi album storici hanno influenzato diverse generazioni di artisti e ancora oggi fanno sentire il proprio peso

di Federico Romagnoli

Prologo – Che fine ha fatto Baby Jane?

Che il rock non sia soltanto musica, ma anche immagine, simboli e mitologia, e che le cose non siano facilmente scindibili, è un fatto che ormai solo pochi romantici con visioni ottocentesche dell’arte si ostinano a negare. Quando poi si parla di Alice Cooper gli elementi risultano talmente compenetrati che il tentativo di isolarli porterebbe soltanto a una sterilizzazione del progetto complessivo.
La musica di Alice Cooper risulta così eccessiva anche perché nel corso degli anni il pubblico si è abituato a vederlo utilizzare grossi serpenti costrittori come fossero sciarpe. La sensazione di disagio che emanano i suoi testi va quasi sempre di pari passo con l’evoluzione degli arrangiamenti e il tutto si adatta perfettamente agli ambienti dei suoi video e delle sue copertine. Alice Cooper è teatro, nello specifico una delle più stratificate forme di teatro applicate al rock.
Quando a cavallo alla fine degli anni Novanta gli interi Stati Uniti si ritrovarono ad accusare Marilyn Manson di ogni episodio di violenza giovanile ipotizzabile, dando involontariamente piena ragione all’artista e alla sua messa a nudo dei retroscena più scomodi del sogno americano, in realtà non stava che andando in onda una nuova puntata del gioco atto a scovare nel rock più duro il simbolo del degrado morale. Quel gioco fu Alice Cooper a sublimarlo, molto tempo prima.

Non che negli anni Sessanta la scena musicale internazionale non avesse conosciuto personaggi eccessivi. L’immagine da cattivo ragazzo di Mick Jagger era sgradita ai genitori perbenisti, Jim Morrison cantava di sesso con sfrontatezza e mimava coiti sul palco, gli Iron Butterfly rimasero per un anno nella top 10 statunitense con uno sballo lisergico.
Tuttavia quando Alice Cooper irruppe sulla scena narrando disagi mentali, fobie, necrofilia, pulsioni omicide e via dicendo, fu chiaro come il gioco avesse raggiunto un livello da cui sarebbe stato difficile tornare indietro. L’eccesso divenne rappresentazione del male e non più mero elemento di protesta. E se anche i Black Sabbath dall’altra parte dell’oceano si stavano muovendo in quella direzione, Cooper aveva in più l’immagine. Vestito di cuoio e truccato in maniera pesante, dichiaratamente ispirandosi a due fra i personaggi più controversi del cinema anni Sessanta, quello di Bette Davis in “Che fine ha fatto Baby Jane?” per il volto e quello di Anita Pallenberg in “Barbarella” per il vestiario. Due figure femminili peraltro, che ora si andavano combinando grottescamente sulla silhouette di un omino scheletrico, brutto e nasuto.
Gli show di Alice Cooper, popolati di rettili, cascate di sangue, ghigliottine, sedie elettriche e camicie di forza, rischiarono tuttavia di venire a noia poco tempo dopo la sua esplosione commerciale. Lo shock durò più o meno un paio d’anni, ma già alla fine del 1973 la gente sembrò non essere più particolarmente impressionata da tutte quelle trovate e l’artista parve per un attimo destinato a finire come quei film dell’orrore che, a qualche anno di distanza dalla loro uscita, perdono la loro capacità di inquietare, resi innocui da quelli più violenti venuti in seguito (quando non dalla realtà).
Cooper invece, con una mossa degna di un grande stratega, scelse un altro percorso. Compreso che spaventare la gente e scandagliare nell’inconscio collettivo con quegli affronti diretti avrebbe significato un continuo gioco al rialzo, si ritagliò uno spazio a parte scegliendo la carta dell’ironia, puntando tutto sul grottesco e sulla farsa. Questa ondata di leggerezza caratterizzò la sua carriera da solista, una volta sciolta la band omonima.
Il suo personaggio divenne così un narratore macabro che mostra gli abissi dell’animo umano mascherato da pagliaccio, senza farsi problemi nel passare dall’hard rock al pop orchestrale più melenso. Dismessi i panni di maestro del terrore, ne fu il giullare. Non più obbligato a spaventare la gente, poteva anche solo farla sorridere, senza che ciò gli impedisse di continuare a cospargere i suoi testi di rappresentazioni poco lusinghiere della condizione umana.
Questa elasticità nel gestire la propria figura l’ha tenuto più o meno a galla commercialmente fino all’inizio degli anni Novanta. Da quel momento la ripetitività della proposta e l’invecchiamento del cantante ne hanno via via messo da parte le nuove uscite, sempre più blande. Senza che questo tuttavia intaccasse la leggenda dei suoi classici, più viva e influente che mai a distanza di decenni dalla pubblicazione.

Dall’inquisizione a Frank Zappa

alice_cooper_60sVincent Furnier nasce nel 1948 a Detroit in una famiglia di seguaci della chiesa di Cristo, ma ciò non gli impedisce di appassionarsi al rock e non incontra difficoltà quando ancora teenager forma la sua prima band. La formazione cambia nome di continuo: Spiders, Earwigs, Nazz, pubblicando in tutto quattro 45 giri fra il 1965 e il 1967, su piccole etichette locali. La musica, ancora innocua, è una perfetta imitazione del Merseybeat, Yardbirds in particolare, di cui il quintetto coverizza diversi brani durante le esibizioni dal vivo. Vincent in particolare è un grande fan dei suoni bizzarri che fuoriescono dalla chitarra di Jeff Beck.
L’ennesimo cambio di nome arriva nel 1968, per evitare confusione con i Nazz di Todd Rundgren. La scelta ricade su Alice Cooper, un casuale nome di ragazza che secondo Vincent avrebbe contrastato in maniera suggestiva la loro musica scalmanata. Ancora oggi persiste comunque la leggenda secondo cui fu lo spirito dell’omonima strega – bruciata viva nel diciassettesimo secolo in quel di Salem – a contattare la band. Presto il nome si appiccica anche addosso a Vincent, per non lasciarlo più.

Durante un’esibizione dal vivo in quel di Los Angeles i cinque vengono notati da Frank Zappa, che ne apprezza lo spirito e li mette sotto contratto per la Straight Records. Oltre al neobattezzato Cooper alla voce, il gruppo conta Glen Buxton (chitarra solista), Michael Bruce (chitarra ritmica e tastiere), Dennis Dunaway (basso) e Neal Smith (batteria).
Sotto l’ala di Zappa – che tuttavia non è presente in studio con la band – escono due album, Pretties For You (1969) e Easy Action (1970). Sono prodotti interessanti, ma molto confusi e oggi invecchiati un po’ male rispetto ai coevi classici del rock. Nei loro solchi scorrono hard rock primordiale, riff acidi, jam psichedeliche, scenette recitate, collage di musica concreta e cacofonie assortite. I momenti organizzati in maniera più sensata convincono, meno bene va invece tutto il resto, che diluisce la creatività del combo in un guazzabuglio di suoni in cui solo il più fervente fanatico dell’ideologia zappiana potrebbe trovare interesse... precisato che Zappa sapeva gestire molto meglio i suoi momenti di caos di quanto non facesse una band ancora acerba e senza il sostegno di un produttore.

Love It To Death (1971)

Nell’ottobre del 1970 il giovane Bob Ezrin, all’epoca assistente del produttore Jack Richardson, vede un’esibizione dal vivo degli Alice Cooper e rimane impressionato dalla loro presenza scenica. Intuendone il potenziale li trascina al volo in sala di registrazione e un mese dopo è sul mercato un nuovo 45 giri, “I’m Eighteen”.
La canzone entra in classifica e si porta al numero 21 a livello nazionale: un risultato esaltante per una band che fino a quel momento era poco più che un modesto circo ambulante. La Warner Bros concede loro un contratto e affida a Ezrin la direzione dell’album. Love It To Death è quindi uno degli album chiave della musica di quel periodo, per diversi motivi.
Anzitutto, è il vero album di debutto degli Alice Cooper, dal momento che ormai nessuno ricorda i precedenti e che da qui nasce la leggenda della band e del suo leader. È poi l’album con cui la loro formula si affina, le canzoni diventano più definite e si limita la dispersione di idee con un grande lavoro taglia e cuci in studio. È il momento zero dello shock rock, sempre che sia possibile definirne uno. È infine il primo album prodotto da Bob Ezrin. Definito dallo stesso Cooper “il nostro George Martin”, Ezrin divenne uno dei produttori più importanti del decennio. Alcuni dei classici del rock nacquero con lui al timone: “Berlin” di Lou Reed, “Destroyer” dei Kiss, “The Wall” dei Pink Floyd. Tutti album in cui la sua mano è evidente e la sua personalità pervade a fondo la matrice sonora.

Spesso si abusa della parola genio, ma quando un ragazzo di ventun anni riesce da solo a portare maturità in una band di musicisti tutti più grandi di lui, a perfezionarne gli arrangiamenti, a curarne il suono e a dare ordine al caos, generando un album senza sbavature, grazie a cosa ci riesce se non a un talento intuitivo fuori dal comune?
Il primo elemento su cui Ezrin punta l’attenzione sono le melodie: non impedisce alla band di esprimersi mediante jam di rock acido, elemento in cui il quintetto trova una sorta di vocazione, ma al termine delle sessioni spurga tutte le divagazioni che rischiano di minare la fruibilità del brano, e tutti gli intermezzi strumentali che sopravvivono sono caratterizzati da riff e motivetti ipnotici. I pezzi della band diventano in questo modo sensati anche livello di espressività pop.
La seconda mossa consiste nell’indirizzare il sound in una direzione precisa, quella dell’hard rock che andava conquistando i mercati un po’ ovunque. Niente più miscugli di generi buttati alla rinfusa, ma un suono granitico con precisi elementi caratterizzanti. Il risultato è comunque un po’ meno violento della media, allo scopo di mettere in risalto la voce di Cooper, caratteristica come poche ma tendente a sporcarsi al minimo sforzo. Questa sorta di aggressività diluita, unità all’immagine appariscente, farà sì che un anno più tardi, durante l’affermazione planetaria, la band venga cooptata dai giornalisti nel glorioso carrozzone del glam rock.
A parte “Sun Arise”, cover dell’australiano Rolf Harris, la scaletta è composta da otto brani della band. A differenza di quanto molti credono però il leader scrive solo quattro canzoni, il che significa che metà del disco venne concepito dagli strumentisti senza il suo apporto. La constatazione non è ovviamente mirata a sminuire la figura di Cooper: sono musiche costruite intorno al suo personaggio e le sue capacità di interprete sono fuori dall’ordinario, tuttavia per una volta non fa male riconoscere i meriti anche agli altri, troppo spesso ritenuti semplici gregari.
Precisato ciò, i brani migliori sono comunque quelli partoriti da lui, a partire dal singolo. Ascoltata oggi “I’m Eighteen” suona quasi come un’involontaria anticipazione del grunge, con il riff distorto in apertura che si stempera in una strofa d’atmosfera sorretta dal basso e da liquidi effetti chitarristici, prima che il ritornello torni alla durezza iniziale. Il testo è uno dei manifesti rock del mal di vivere adolescenziale: “I got a baby's brain and an old man's heart/ Took eighteen years to get this far/ Don't always know what I'm talkin' about/ Feels like I'm livin' in the middle of doubt”. L’insicurezza e la paura del futuro messe in scena sono tanto universali che il brano diventerà un punto di riferimento per più generazioni di musicisti rock (dai Ramones ai Sex Pistols fino agli Anthrax) e ancora oggi appare perfettamente credibile in bocca a un Cooper ultrasessantenne. Memorabile lo stravolgimento – sin dal titolo, “Fifteen” – che ne diedero nel 1977 gli Eater, effimera formazione punk britannica.
Un altro momento maiuscolo è “Ballad Of Dwight Fry”, ispirata dal quasi omonimo attore americano Dwight Frye, che recitò la parte del folle Renfield nel “Dracula” di Tod Browning, dove veniva ucciso da Bela Lugosi in una delle scene più celebri del cinema anni Trenta. Evitando digressioni sull’enorme influenza di quel film sulla musica rock (già solo con Alice Cooper e i Bauhaus si copre la maggior parte del rock più oscuro), la ballata è una brillante performance teatrale in cui Cooper canta il malessere di un assassino rinchiuso in manicomio, il suo senso di impotenza e il dolore provocato dalla lontananza da sua figlia: “I think I lost some weight there/ And I'm sure I need some rest/ Sleepin' don't come very easy/ In a straight white vest/ Should like to see that little children/ She's only four years old”.
Non è solo la sensibilità del testo a creare per un attimo l’illusione che il cantante abbia vissuto sulla sua pelle quella situazione, ma anche l’insicurezza con cui ripete alcune parole e incespica, nonché quell’agghiacciante momento in cui grida più volte “I gotta get out of here”, come in preda a convulsioni. I cambi di tono sono accompagnati da un arrangiamento elaborato, che prevede inserti pianistici, irruzioni elettriche, sinistri passaggi d’organo, giochi d’eco e ritmo sostenuto da una chitarra acustica.
La marziale “Second Coming”, guidata da una splendida melodia di piano, mostra il contrastato rapporto di Cooper con la religione (“Time is getting closer/ I read it on a poster/ Fanatical exposers on corners prophesied”), mentre Bruce firma i due momenti più tradizionalmente rock, l’inno da radio Fm “Caught In A Dream” e l’assalto proto-punk “Long Way To Go”. A piazzare il pezzo più lungo in scaletta è Dunaway, con “Black Juju”, delirio gotico di nove minuti che dal vivo veniva utilizzato per bruciare Cooper sulla sedia elettrica.

L’album esce l’8 marzo 1971 e si spinge al numero 35 della classifica statunitense, dove rimane abbastanza a lungo da vendere un milione di copie. La copertina viene all’epoca censurata – incredibile ma vero – per via del pollice di Cooper situato all’altezza dell’inguine. Scomode rassomiglianze.

Killer (1971)

alice_cooper_70sDue singoli radiofonici scritti da Bruce introducono l’album in maniera un po’ ingannevole. “Under My Wheels” è infatti un hard rock con inserti fiatistici in cui il protagonista viene stressato dalla ragazza a tal punto da volerla investire con l’auto, mentre “Be My Lover” – una delle tante variazioni sul riff di “Sweet Jane” dei Velvets – parla di un incontro romantico del chitarrista. Sono due classici del rock da Fm, formalmente impeccabili, ma sembrano messi appositamente per dare appetibilità commerciale a un disco che per il resto ne ha ben poca. Killer è infatti l’album più elaborato della band, capace di mescolare hard rock, glam e rock progressivo in un unico affresco nel nome della messa in scena teatrale. Se non addirittura cinematografica, come dimostra il terzo brano, “Halo Of Flies”, una cavalcata multiforme di otto minuti che trabocca di riferimenti, dal testo che è la ricostruzione di una spy story alla James Bond, alla citazione della melodia di “My Favourite Things” – da “Tutti insieme appassionatamente” – che spunta a 2’10’’. Costruita dichiaratamente per fare qualcosa nello stile dei King Crimson, “Halo Of Flies” supera ogni aspettativa per ricchezza sonora e strutturale, un gioco di incastri inarrestabile in cui ognuno dei musicisti si esprime al meglio: Dunaway con linee di basso cavernose e ipnotiche, Smith con i suoi tamburi da battaglia, Ezrin con le futuristiche pulsazioni del Minimoog e il sublime ingresso orchestrale a 5’10’’, Buxton e Bruce duettando fra riff metallici, assoli e scale orientaleggianti.
L’immaginario western di “Desperado” dipinge la figura tormentata e malinconica di un pistolero assassino provetto (“I'm a picture of ugly stories/ I'm a killer and I'm a clown”), su un arrangiamento di chitarre liquide, ricami acustici e ondate orchestrali. Negli anni Novanta Cooper ha messo in giro l’aneddoto che vorrebbe la canzone nata come dedica a Jim Morrison, versione tuttavia poco credibile visto che fino a quel momento né lui, né gli altri componenti della band avevano mai accennato la cosa, descrivendo invece la figura come un cowboy.
“Dead Babies” sembra uno di quei brani usciti da una macchina del tempo. Tanto lo spigoloso giro di basso che la introduce, quanto le rifrazioni echeggianti della chitarra che lo seguono sembrano infatti provenire dagli anni Ottanta, in un’anticipazione del post-punk tanto clamorosa che si stenta a crederci. In seguito rientra comunque in territorio hard rock, fino alle inquietanti armonie vocali dal tono infantile che segnano il ritornello. Il testo è su una bimba di nome Betty che muore dopo aver ingerito una confezione di aspirine, scambiandole per caramelle. Il padre – disinteressato alla sua famiglia – lavora lontano da casa, mentre la madre è come tutte le sere al bar a ubriacarsi e non può così soccorrerla. Sono versi di una crudezza annichilente, che all’epoca causarono più di uno strascico polemico, ma rappresentano in realtà uno struggente atto d’accusa contro la negligenza verso i bambini e il dolore che si provoca nel metterli al mondo quando non si è pronti a far loro da genitori.
A chiudere è la title track, che narra l’esecuzione di un poveraccio che è stato trascinato in qualche losco affare e, incapace di gestire la situazione, ha finito con l’uccidere qualcuno (“I didn't really want to get involved in this thing/ Someone handed me this gun and I… I gave it everything”). Il finale è forse l’apice dello shock rock, una lenta marcia per organo e cori con tanto di preghiera in latino, al termine del quale si può udire lo scatto di una botola e venti secondi di ronzio elettronico in accelerazione a simboleggiare l’avvicinarsi della morte. Roba che nel 1971 non deve aver lasciato indifferenti.

Il pubblico si mostra comunque sensibile alla proposta e il disco va anche meglio del precedente, spingendosi al numero 21 e rimanendo in classifica più di un anno.

School’s Out (1972)

Nonostante sia l’album della definitiva esplosione commerciale della band, non è fra i loro più riusciti a causa dell’atmosfera un po’ da musical, che crea qua e là una sensazione di cagnara non facile da ignorare. Certo è divertente cogliere le citazioni di “West Side Story” in “Gutter Cat vs. the Jets”, così come l’atmosfera da cartone animato di “Luney Tune”, tuttavia sulla distanza la formula stanca e lo stesso Cooper se ne è probabilmente reso conto se nel corso degli anni, nonostante sia il disco che lo rese una star planetaria, ne avrebbe eseguito dal vivo quasi esclusivamente la title track.
Sul pezzo in questione è pero impossibile non soffermarsi, perché è di quelli che valgono una carriera. Costruito su un micidiale riff di Buxton, “School’s Out” è uno dei simboli del rock dei Settanta e della ribellione contro le autorità. Il coro di bambini che accompagna Cooper nel suo inno di gioia per il termine della scuola è di fatto un’anticipazione del trucco usato dallo stesso Ezrin in “Another Brick In The Wall” dei Pink Floyd.
È un pezzo che ha tutto per spopolare, infatti spopola. Il singolo è numero 7 negli Usa e numero 1 in Gb, l’album numero 2 negli Usa e numero 4 in Gb. Da recuperare l’esibizione a Top Of The Pops, uno dei momenti topici nella storia del programma.

Billion Dollar Babies (1973)

Non contiene pezzi famosi quanto “School’s Out”, ma nel complesso è un lavoro impeccabile e riporta la band ai livelli dei due album del ‘71. È il disco in cui Cooper si impone come autore principale, anche se in apertura c’è una cover, “Hello Hooray”, scritta dal misconosciuto cantautore canadese Rolf Kempf e cantata per la prima volta da Judy Collins nel 1968. È comunque talmente diversa dall’originale che pure se ascoltata di seguito si stenta a riconoscerla, sia per alcune evidenti modifiche a livello di melodia vocale, sia per l’arrangiamento (pop-folk una, glam cabarettistico l’altra), sia per le parole, che sono state cambiate, trasformandola in un ringraziamento al proprio pubblico (“Let the lights grow dim, I’ve been ready/ Ready as this audience that's coming here to dream”). In più tratti spunta il suono del Mellotron, settato sugli archi.
Il singolo di lancio fu “Elected”, un gustoso inno glam rock che tuttavia non si può indicare fra i momenti più originali della band. Come invece è “No More Mr. Nice Guy”, che sembra anticipare le atmosfere di “(Don’t Fear) The Reaper” dei Blue Öyster Cult, con quei suoni puliti e sognanti, a un passo dalle rifiniture della West Coast eppure capaci di non rinunciare all’energia dell’hard rock. Altro numero vincente è la title track, pezzo sincopato come pochi, con la batteria che sembra voler scappare dalle chitarre e la voce roca di Cooper che si accavalla a quella in falsetto dell’ospite d’onore Donovan, in un bizzarro duetto che ha come protagonista una bambola sessuale.
“I Love The Dead”, con pianoforte e sviluppo melodico in stile Kurt Weill, è necrofilia sbattuta in faccia senza metafore (“While friends and lovers mourn your silly grave/ I have other uses for you, Darling”). La grandeur orchestrale sul finale è ovviamente l’ennesima trovata di Ezrin, così come il minaccioso arrangiamento di “Sick Things”, denso di suoni filtrati, voci deformi e distorsioni.

Fra il marzo e l’aprile del ‘73 il disco si piazza al numero 1 sia negli Usa, sia in Gb. Il tour che segue è un trionfo e fa il tutto esaurito in ogni angolo degli Stati Uniti, benché i guadagni per la band siano inferiori alle aspettative a causa degli enormi costi di produzione dello spettacolo.

Lo scioglimento

Nel novembre del 1973 esce Muscle Of Love, l’ultimo album della band. A sorpresa, Bob Ezrin non figura fra i produttori (si saprà molti anni dopo che abbandonò le sessioni in seguito a un alterco con Bruce riguardo l’arrangiamento di una canzone). L’assenza del mago dello studio si fa sentire e senza le sue trovate il disco si conclude in un mezzo passo falso. I brani suonano come rock radiofonici di media fattura, non male, ma neanche particolarmente degni di essere ricordati. Nonostante la discreta diffusione di “Teenage Lament ‘74” come singolo, l’album si ferma al numero 10 negli Usa e fallisce l’ingresso fra i primi trenta in Gb. Un calo così drastico a distanza di pochi mesi scoraggia i membri della band, che a metà del 1974 decidono per una separazione consensuale.
In agosto esce comunque un Greatest Hits con versioni remixate dei loro vari classici, che si piazza al numero 8 negli Usa.

Welcome To My Nightmare (1975)

cooper__priceÈ il primo album da solista di Cooper, che per evitare beghe legali da parte degli ex
compagni di band, si è fatto cambiare nome anche sui documenti. Ezrin torna in cabina di regia, mentre agli strumenti viene arruolata l’intera band che Lou Reed utilizzò per “Rock ‘N’ Roll Animal”, con la coppia Dick Wagner/Steve Hunter alle chitarre.
Ultimo classico della sua discografia, è una rock opera fra le più magniloquenti degli anni Settanta. Non per tutti i palati forse, ma i più schizzinosi si perderanno una manciata di grandi canzoni orchestrate maniacalmente e traversate da un’atmosfera malata e grottesca. E non solo, se è vero che contiene uno dei brani più toccanti dell’artista fino a quel momento, “Only Women Bleed”, che descrive la vita delle donne costrette a subire violenza domestica. Spinta da delicati arpeggi di chitarra e da maestose iniezioni d’orchestra, la ballata riporta Cooper al successo negli Usa, dove l’album si arrampica fino al numero 5.
La storia narrata è quella del serial killer Steven: le prime canzoni passano in rassegna alcune delle sue ossessioni, mentre sul finale arriva l’azione, con tanto di omicidio, deliri allucinati, incarcerazione e presa di coscienza del male provocato. Cooper dipinge la follia omicida con compassione, non ci sono accuse nei suoi testi, si punta invece sul tormento di chi ne è affetto e sulle difficoltà che hanno portato al disturbo della personalità. In effetti i momenti più shockanti della sua carriera sono quasi sempre stati quelli in cui a venire descritta non era la malattia dei protagonisti, ma i rimedi della società circostante, dipinti quasi sempre con durezza, dalla detenzione in condizioni poco rispettose dei diritti umani, alla pena di morte. Alla fine della fiera, le opere di Cooper mostravano dei principi morali più caritatevoli di quelli dell’America bene che se ne sentiva offesa, e che però non era disposta a rinunciare alla pena capitale.
Le musiche vanno dalle tinte gospel di “Department Of You” al metal in provetta di “Black Widow”, dal misto funk/blues della title track a “Steven”, imponente marcia traversata da scale bachiane per pianoforte e chitarra, cori inquietanti e distorsioni. È anche uno dei capolavori interpretativi di Cooper: nella strofa iniziale la sua voce sussurra, si spezza e si contorce fino a emettere suoni indescrivibili, sembra quasi che squittisca. Il dolore del protagonista viene così messo a nudo, l’esorcismo è completo.

Per supportare l’album viene quello stesso anno registrato un meraviglioso special televisivo intitolato “Alice Cooper: The Nightmare”, in cui Alice/Steven vaga per i suoi incubi, assistito nelle parti non musicali da Vincent Price nei panni di un diabolico Virgilio. Il connubio fra i due è perfetto, forse perché Cooper conosceva a fondo il leggendario attore, essendone stato fan sin da ragazzino e avendone in parte già riprodotto le pose durante i concerti. Vederli muoversi fra quelle scenografie di cartone e nebbia artificiale, con tanto di ragnoni di gomma e fantasmi in calzamaglia, è un momento di teatro grottesco impagabile. È proprio con quello spettacolo, con elementi tanto buffi e posticci, che Cooper cristallizza l’elemento farsesco come componente fondamentale della sua arte. Tre anni dopo avrebbe partecipato a una puntata di “The Muppet Show”, chiudendo il cerchio.

Dall’alcolismo alla religione

La seconda metà dei anni Settanta passa fra album di scarso successo e una serie di ballate che invece incontrano i favori del pubblico sul mercato dei 45 giri (“I Never Cry”, “You And Me”, “How You Gonna See Me Now”, tutte entrate in top 20 negli Usa). Gli ultimi album con Ezrin al suo fianco sono Alice Cooper Goes To Hell (1976) e Whiskey And Lace (1977), che tentano di incorporare le influenze più disparate, dalla disco music al folk, dal rock’n’roll delle origini al pop da classifica. Tuttavia gli arrangiamenti sembrano non fornire più commistioni degne di rilievo e pure le melodie faticano a emergere, eccetto nei lenti, che peccano però in eccesso di melassa.

Va meglio con From The Inside (1978), concept album che racconta la degenza di Cooper in un istituto di recupero, decisione presa una volta realizzato che l’abuso di alcol lo stava rovinando. In almeno un paio di momenti sembra riemergere l’antica freschezza, in particolare grazie agli arrangiamenti che fronteggiano il coevo Aor, come suggerito dal nuovo produttore David Foster. Il boogie di “Serious” è cofirmato da Steve Lukather dei Toto, mentre il piano elettrico che guida la title track sembra preso in prestito dai Supertramp. Sono fra i suoi brani più scattanti e dinamici, meriterebbero una riscoperta.

Con Flush The Fashion (1980), prodotto da Roy Thomas Baker, si tenta la carta della new wave, ma il pubblico non sembra interessato e questa volta neanche il singolo ottiene particolari riscontri. Un peccato, perché “Clones” – firmata da tale David Carron, di cui non si avrà più alcuna notizia – è davvero una delle sue canzoni migliori, un tosto inno sintetico sulla disumanizzazione, degno di Gary Numan. Da segnalare anche il video, dove il cantante, col viso più scheletrico che mai, indossa basco e uniforme nera. Purtroppo il disco non regge il confronto e in generale Cooper dà l’idea di essere costretto a inseguire i nuovi modelli, anziché contribuire a crearli come faceva una volta.

Il periodo che segue è il più difficile della sua carriera, Special Forces (1981) e Zipper Catches Skin (1982) scorrono senza lasciare traccia e le vendite sono irrisorie. Neanche il ritorno di Ezrin in DaDa (1983) risolleva la baracca. L’album non viene sostenuto da alcun tour a causa dei problemi di droga del cantante, ormai fiacco e ingestibile. La Warner Bros lo scarica poco dopo.

Dopo un periodo speso fra nuove disintossicazioni (questa volta da cocaina) e progetti collaterali (B-movie, ospitate televisive ecc.), Cooper firma per la Mca.
I primi due album del nuovo corso sono Constrictor (1986) e Raise Your Fist And Yell (1987), che abbandonano ogni tentazione sperimentale e si tuffano a capofitto nell’hard rock più patinato. Anche quando i synth prendono il posto delle chitarre, la sensazione è comunque di un prodotto più vicino al rock muscolare degli Aerosmith che alla new wave, si ascolti al riguardo “He’s Back (The Man Behind The Mask)”, bel tema scritto per il sesto episodio di “Venerdì 13”. In qualche modo i due dischi vendicchiano e Cooper decide di tentare il rilancio su larga scala.
Cosa che effettivamente avviene quando nel 1989, spinto dalla Epic, pubblica Trash (numero 2 in Gb e 20 negli Usa), prodotto da Desmond Child, che proprio in quel momento sta firmando hit colossali per Bon Jovi e Aerosmith. Il singolo che riporta in alto Cooper è “Poison” (numero 2 in Gb e 7 negli Usa). È un hard rock gagliardo nel segno degli eccessi corali dell’hair metal, ma nobilitato da un interprete di ben altro altro calibro rispetto alla media non esaltante del genere. Anche “House Of Fire” e “Bed Of Nails” escono come singoli e verranno spesso riproposte durante i concerti negli anni a venire.

Hey Stoopid (1991), numero 4 in GB e disco d’oro negli Usa, rappresenta l’ultimo momento in cui Cooper è stato parte del mainstream. La title track, più caciarona che mai, è il suo ultimo classico. Da lì in poi non c’è molto da dire, i sette dischi che si susseguono dal 1994 al 2011 sono ripetitivi e irrimediabilmente già sentiti. Nel recente Welcome 2 My Nightmare deve addirittura abbassarsi a duettare con Ke$ha (“What Baby Wants”) per ottenere un risultato che sia un minimo sorprendente.

Senza sperare inutilmente in una rinascita creativa, tanto vale goderselo in veste di illustre concertista con un vasto repertorio di brani storici a sua disposizione e sempre pronto a far divertire coloro disposti a pagare il prezzo del biglietto. Quello che doveva dimostrare l’ha dimostrato, chiedergli di più sarebbe ingeneroso. Ecco, magari potrebbe evitare di andare in giro per la televisione americana a dire che ogni parola scritta nella Bibbia è una verità assoluta. Da quando s’è scoperto cristiano rinato sul finire degli anni Novanta ha preso la cosa alquanto seriamente... tuttavia rimane talmente ganzo che si finisce ugualmente col simpatizzare per lui.

Dopo la collaborazione con la band dell’attore Johnny Depp, gli Hollywood Vampires e dopo la pubblicazione di Paranormal (2017), nel 2021 pubblica Detroit Stories - dedicato alla sua città d'origine. Sarebbe stupido attendersi da un Lp di Alice Cooper del 2021 qualcosa di memorabile e infatti i quindici brani dell'album non sono altro che un minestrone ipernostalgico di tutto il rock anni 60-70. Coerenza e prevedibilità coincidono, con un buona produzione (Bob Ezrin), dosi inesauribili di mestiere e un senso di anacronismo inevitabile. Un album che sarebbe stato vecchio negli anni 70, preistorico negli anni 80 e persino inimmaginabile negli anni 90. Oggi forse, come opera di puro revival di un grande del rock che cerca di chiudere una carriera straordinaria, potrebbe risultare dignitoso e persino piacevole in vari tratti.

In questo grande calderone c’è di tutto, dalla cover tratta da uno degli album meno celebrati dei Velvet Underground (“Loaded” e il brano “Rock ‘n’ Roll”), al punk in stile Ramones (“Go Man Go”), al blues autobiografico senza compromessi (“Drunk And Love”), a tonnellate di rock’n’roll fino addirittura a un ballata da figli dei fiori con potenzialità da hit (“Our Love Will Change The World”). Il brano scelto come singolo è invece "Social Debris", un hard-rock carico di elettricità con un video in cui Cooper appare vitale e in piena forma.
Tutto vecchissimo e tutto già sentito mille volte, ma da un immortale come Alice Cooper cos'altro potremmo aspettarci?

Road, pubblicato ad Agosto 2023, è invece una sorta di concept album, con testi incentrati sulla vita on the road ed il coinvolgimento della formazione live di Alice anche in fase di scrittura e registrazione. Numerosi gli ospiti: Bob Ezrin compare in quasi tutti i brani, ma ci sono anche special guest come il presenzialista Tom Morello, alla cui inconfondibile chitarra è affidata “White Line Frankenstein”, e il compianto Wayne Kramer in “Rules Of The Road”.
Una lunga lista dei credits ed un sound verace, registrato live in studio, per una vera e propria celebrazione della vita da rocker; tra i tredici brani spiccano anche il glam-rock di “Big Boots” e le ballad “The Big Goodbye” e “Baby Please Don’t Go”. La chiusura è affidata alla cover (in tema) di "Magic Bus" degli Who, il cui drum solo consente un passaggio da protagonista anche al batterista Glen Sobel.

Contributi di Valerio D'Onofrio ("Detroit Stories") e Lorenzo Pagani ("Road")

Alice Cooper

Discografia

BAND
Pretties For You (Straight, 1969)
Easy Action (Straight, 1970)
Love It To Death (Warner Bros, 1971)
Killer (Warner Bros, 1971)
School's Out (Warner Bros, 1972)
Billion Dollar Babies (Warner Bros, 1973)
Muscle Of Love (Warner Bros, 1973)
Alice Cooper's Greatest Hits (remix, Warner Bros, 1974)
SOLISTA
Welcome To My Nightmare (Atlantic, 1975)
Alice Cooper Goes To Hell (Warner Bros, 1976)
Lace And Whiskey (Warner Bros, 1977)
The Alice Cooper Show (live, Warner Bros, 1977)
From The Inside (Warner Bros, 1978)
Flush The Fashion (Warner Bros, 1980)
Special Forces (Warner Bros, 1981)
Zipper Catches Skin (Warner Bros, 1982)
DaDa (Warner Bros, 1983)
Constrictor (MCA, 1986)
Raise Your Fist And Yell (MCA, 1987)
Trash (Epic, 1989)
Hey Stoopid (Epic, 1991)
The Last Temptation (Epic, 1994)
A Fistful Of Alice (live, Angel, 1997)
Brutal Planet (Spitfire, 2000)
Dragontown (Spitfire, 2001)
The Eyes Of Alice Cooper (Eagle, 2003)
Dirty Diamonds (Spitfire/New West, 2005)
Along Came A Spider (Steamhammer, 2008)
Theatre Of Death (live, Bigger Picture, 2010)
Welcome 2 My Nightmare (Bigger Picture, 2011)
No More Mr Nice Guy Live! (live, Four Worlds, 2012)
Raise The Dead. Live From Wacken (live, UDR Music, 2014)
Paranormal (earMusic, 2017)
Detroit Stories (earMusic, 2021)
Road (earMusic, 2023)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

No More Mr. Nice Guy
(live, 2005)
Clones
(videoclip, 1980)
Black Widow, con Vincent Price
(speciale televisivo, 1975) 
School's Out
(Top Of The Pops, 1972) 
I'm Eighteen
(Beat Club, Amburgo, 1972)

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Testi