Una cosa che mi ha personalmente colpito è la tua dichiarazione d'assoluta eterogeneità di influenze. Questo significa che Babalot è privo di qualsiasi barriera stilistica?
Credo avrei qualche difficoltà ad affrontare un pezzo recitato (parlato, declamato, alla Massimo Volume insomma) ma per il resto... non ho vergogna di nulla.
Da più parti la tua musica è stata definita pop. Considerando la facilità con cui, attualmente, si facciano rientrare nel termine "pop" anche i prodotti meno validi, e considerando l'accezione negativa che, di conseguenza, lo stesso termine assume, accetti questa identificazione o, altrimenti, come definisci la tua musica?
Pop, più che una definizione, è un augurio o una speranza, come a dire "vorrei che piacesse a più gente possibile". Nel caso qualcuno mi definisse pop lo prenderei come un complimento. E poi ascolto tantissima musica pop.
"Faccio musica col computer. Ho due chitarre, un basso in prestito e poco altro.", hai dichiarato. Quella del lo-fi è una scelta precisa o, piuttosto, una necessità?
Una scelta che nasce dal tentativo di infondere sincerità alle canzoni. Il primo disco uscito per Aiuola, secondo me, soffre di questa "bugia" di fondo, ovvero di una produzione costosa (anche se ci è stata magnanimamente offerta da Fabrizio Rioda del Jungle Sound) messa su canzoni povere, nate cioè per voce e chitarra, o per voce e computer. Credo che alcuni artisti, anche quando scrivono le loro canzoni a casa, le pensino già arrangiate in studio, e quindi è naturale che poi finiscano a registrarle in uno studio. A me non succede mai di scrivere una canzone in un modo e pensarla diversa; preferisco che la gente la ascolti così come è stata concepita, tutto qua.
Come è utilizzato il computer nella tua musica, come strumento vero e proprio, alla pari degli altri, come ausilio per integrare e completare gli altri strumenti, o altro?
Ho iniziato a usarlo come strumento di registrazione, in sostituzione delle cassettine. Poi mi sono accorto che sapeva anche suonare e mi si è aperto un mondo. C'è da dire che passo la mia vita attaccato al computer, per ben altri motivi, e quindi non lo considero uno strumento musicale e basta. L'unica cosa che ancora preferisco fare in analogico sono i testi... il foglio di carta e la penna mi ispirano molto più del monitor, vai a capire perché.
Taluna critica ti ha accostato a nomi quali Daniele Silvestri, Federico Zampaglione, creando ex novo una sorta di "scuola romana"… sei d'accordo? E cosa pensi della tendenza di molta critica a cercare sempre di "inscatolare" un artista, o mettere insieme qualche nome e creare una "scena" che nella realtà non esiste?
La critica musicale non è diversa dalla critica in generale e, facendone anch'io parte, capisco benissimo perché sia consuetudine inscatolare le cose. È una comodità irrinunciabile, soprattutto quando sei pagato per scrivere, non hai molto tempo e non vuoi spremerti il cervello. Devi far capire a chi ti legge se quel dato oggetto culturale vale i suoi soldi e il suo tempo oppure no, quindi i paragoni e gli accostamenti sono necessari. Potremmo discutere sulla forma, che è spesso retorica, adoperata in questi casi: "I Pixies che mangiano una pizza con Ben Harper mentre una radio sfasciata suona una b-side di..." ecc. ecc.
In pezzi come "Diavolo" o "Sigarette" , da un punto di vista strettamente vocale, avverto un'eco battistiana, mentre, in generale, l'ironia dei testi, malgrado più surreale e meno immediata, mi fa venire in mente un approccio alla Rino Gaetano . Qual è il tuo rapporto con la musica italiana più o meno recente?
Ottimo, direi, ne ascolto a pacchi e dei generi più diversi, pescando un po' ovunque, ma soprattutto da internet. Non credo che un elenco di nomi sarebbe interessante e tanto meno un elenco di generi. Ciò che distingue il mio modo di ascoltare la musica italiana, rispetto all'ascolto di musica in generale, è che faccio molta attenzione ai testi, anzi, direi che mi baso unicamente sui testi per decidere se una cosa mi piace oppure no.
Data l'originalità e l'acume dei testi, esiste una priorità degli stessi, rispetto alla musica, o persegui un'armonia delle parti?
Boh. Se guardo a quello che ho fatto fino a ora, non essendoci pezzi strumentali, né parti strumentali lunghe all'interno dei pezzi cantati, risponderei che senza un testo non saprei che dire. Il fatto che io non sappia suonare si sposa molto bene con questa frase, quindi facciamo finta che sia così.
La scrittura dei testi, stemperata da una buona dose di ironia, appare umorale, passando dall'amarezza al vero e proprio nichilismo, utilizzando un linguaggio surreale e naif ("Vuoto"), paradossale e netto ("Ho Visto la Luce"). Il tutto denuncia uno spirito critico sincero e, contemporaneamente, strabiliato e disincantato. C'è un'analisi lucida dietro i testi o sono il frutto dello stato d'animo del momento? Li scrivi di getto? Fai un lavoro di limatura?
Non c'è una procedura standard. Mi capita a volte che in una frase rimanga un vuoto che non so come riempire, e allora metto un "finto testo", una cosa senza senso ma metricamente adatta, e stai sicura che non la cambierò. Non c'è un senso compiuto che vado cercando, e l'atteggiamento non cambia quando ascolto le canzoni degli altri. Mi capita molto più spesso che non mi piaccia un testo di senso compiuto piuttosto che una sequenza di parole apparentemente (o appositamente) scollegate.
Dal punto di vista prettamente musicale, spaziando in territori internazionali, mi incuriosisce sapere quale sia il background d'ascolto di Babalot.
In rigoroso ordine cronologico ti dico tutte le cose non italiane che mi sono piaciute da quando ne ho memoria fino a qualche anno fa (dall'avvento del file-sharing in poi, ho ascoltato troppa roba per poter fare una selezione): Mozart, Beethoven, Pink Floyd, Michael Jackson, Beatles, Depeche Mode, Guns n' Roses, Metallica, Nirvana, Alice in Chains, Soundgarden, Pearl Jam, Marilyn Manson, Primus, Nine Inch Nails.
Incidi per l'Aiuola, piccola etichetta indipendente. Il fenomeno di siffatte etichette prolifera positivamente, permettendo ai talenti di venir comunque fuori dal sottobosco dell'auto-produzione. Accanto a questo, esiste, poi, il sistema dello share, sorta di arma a doppio taglio. Lo ritieni un canale preferenziale per la promozione o, come molti, un'insidia all'industria discografica? Se ritieni sia una minaccia, su chi grava maggiormente... sulle piccole label?
Fare i dischi è fico. Puoi dire cose tipo "ho un'etichetta che mi pubblica", puoi leggere le recensioni del tuo disco sulle riviste, puoi rompere le palle al grafico perché vuoi la copertina così e colà, puoi scrivere i "credits", magari usando anche degli pseudonimi che fa ancora più fico. Detto questo, se uno si mette a fare musica solo e unicamente per fare un disco, secondo me è un narciso della peggior specie. Se, in più, pretende che la gente paghi per ascoltare la sua musica, è anche uno sfigato e un avido della peggior specie. Mi seccherebbe, però, non poter comprare il disco di un'artista che mi piace perché è diventato antieconomico stamparlo. Ma finché c'è una categoria di ascoltatori feticisti che compra i dischi, dubito che il file-sharing possa incidere in modo significativo sull'offerta di musica. Nel più apocalittico dei casi, saremo costretti a farci stampare i dischi su richiesta, e forse per le piccole etichette è già così (vedi le campagne di sottoscrizione lanciate da Aiuola e da I Dischi De L'Amico Immaginario). Se questo è un segnale del tramonto del disco come oggetto privilegiato per la "riproducibilità tecnica" delle opere musicali, beh, amen e così sia.
Altra mia curiosità: perché il nome Babalot?
Era ed è il mio nickname (con la "b" iniziale minuscola), pescato da un vecchissimo numero di Nathan Never, fumetto di ambientazione fantascientifica della Bonelli. Credevo fosse un nome di fantasia e invece ho scoperto, molto tempo dopo averlo adottato, che è il riadattamento di una parola in dialetto sardo, che indica un tipo di bruco, o di verme.
Sempre nelle tue dichiarazioni, leggo: "Mi chiamo Sebastiano, ho fatto due dischi per Aiuola dischi. Il primo è stato fatto insieme a un gruppo di amici, il secondo facendomi aiutare da altri amici". Il progetto Babalot resta aperto al contributo amicale o prevedi un'evoluzione di questa forma in una band fissa?
I Babalot sono stati, per qualche anno, una band in senso stretto, di cinque o sei elementi, contando anche il tastierista. Tutte persone che adoro e con cui passo ancora del tempo, quando c'è. Evoluzione, per me, vuol dire non pensare più al gruppo e spero di non doverci pensare in futuro. Suonare con i Daisy Godzilla e con Alberto Motta, nel periodo in cui ho vissuto a Milano, è stato bellissimo proprio perché non sussisteva alcuna idea di gruppo.