Molte biografie di musicisti, di solito, iniziano sottolineando la casualità di episodi e situazioni che li hanno introdotti nel mondo discografico. Diverso è il caso di Ben Harper. Il suo è stato quasi un mandato, un incarico a perpetuare nel mondo contemporaneo l'inno alla vita che aveva iniziato a celebrare Bob Marley, ma anche ad attribuire ai versi cantati l'autorevolezza e la sensibilità poetica di un Bob Dylan.
Nasce nel 1969 a Claremont, California, 80 chilometri a est di Los Angeles, nei pressi del deserto, in una famiglia di origini indiane e lituane che si occupa di musica da tre generazioni: nonno liutaio, nonna chitarrista, padre percussionista, madre cantante e chitarrista. Non semplici appassionati, ma professionisti, profondamente innamorati del proprio lavoro che inevitabilmente riversano la loro passione nel piccolo Harper. E questi, fin da bambino, dimostra notevoli capacità nel suonare la chitarra acustica. Grazie al nonno liutaio, conosce la Weissenborn, un modello slide che risale agli anni Venti. "Credo nel suono acustico delle prime chitarre. E' il rapporto fisico con lo strumento, ma è anche lo spirito della chitarra acustica: ovvero le radici di gran parte della musica americana. La mia musica nasce così, non è una versione unplugged di qualcos'altro: perché acustico ed elettrico, come del resto slide e chitarra normale, sono linguaggi completamente differenti".
Quando si esibisce in pubblicò per la prima volta a 12 anni, Harper si dimostra un enfant prodige. Non solo come virtuoso della sei corde, ma per le influenze musicali, notevoli per un bambino di quell'età: da Ry Cooder a Bob Dylan, da Edith Piaf a Sam Cook, da Robert Johnson a Jimmie Rodgers, più tantissimi altri musicisti rock, jazz, blues, soul, funk e così via.
Più che eclettico, Harper è onnivoro. Nonostante sia afro americano, non compone semplicemente una musica di colore black. Sicuramente è consapevole dell'importanza della tradizione musicale afro americana che gli scorre nel sangue, ma è molto più consapevole che ciò che esprime fa parte di un'evoluzione che affonda le radici nel jazz, nel blues e nel rap, arrivando fino al rock e le sue ramificazioni moderne. Harper ha sempre ribadito: "Quando scrivo e canto le mie canzoni, non penso a nessuna differenza fra pubblico bianco e nero. Credo solo nei colori". Una convinzione che lo induce a superare gli steccati tra generi e ad assaporare sempre nuove sonorità.
Ma oltre alle notevoli capacità tecniche, Harper dimostra di avere anche una missione. Rifiutando di essere etichettato in un genere e di cedere al consumismo, alla commercializzazione e alla propaganda politica, il musicista californiano crede nell'umanità e nei suoi valori. Nella pace e nella riunificazione dei popoli. "Le Chiese sono la separazione, ma musulmani, cristiani, ebrei, buddisti cercano tutti lo stesso Dio e Dio non divide nessuno, unisce solamente. La separazione ha a che fare con il razzismo". Guardandosi attorno, allora, vuole esortare tutti i popoli, di diverso colore e razza, al cambiamento. Harper è continuamente alla ricerca di nuove risposte. Ricerca qualcosa che lo porti a cambiare le risposte avute in precedenza.
Nella sua prima missione del 1994, in Welcome To The Cruel World, cerca di far capire che nonostante tutti i difetti, "questo mondo crudele" rimane sempre la nostra Casa. Tecnicamente, il disco incanta per quella sua abilità nell'assorbire differenti e contrastanti generi musicali in un solo, emozionante disegno. A sorprendere sono anche i testi, che svelano l'integrità morale di un cantautore alla Dylan e alla Mitchell. All'epoca, la versione al maschile di Tracy Chapman. Ma anche un profeta della pace nel mondo, come Bob Marley. Che con l'altro Bob, Dylan, è forse l'artista che ancora oggi spiritualmente gli è più vicino. La lucida analisi della realtà di Dylan e la celebrazione dell'ottimismo dell'artista giamaicano convivono nelle canzoni di Harper.
E proprio lo spirito di Marley serpeggia sinceramente e in maniera più incisiva nel secondo lavoro del 1995, dall'inequivocabile titolo di Fight Your Mind. Il ragazzo di Claremont amplia i suoi orizzonti, iniziando un percorso artistico che nel corso della sua carriera lo farà cimentare con tutte le sfumature della black music. Entrano in organico il talentuoso bassista Juan Nelson, il percussionista Leon Mobley e il batterista Oliver Charles. Harper infila così i primi tasselli della band che prenderà dal disco successivo il nome di Innocent Criminal, non un semplice gruppo di supporto, ma dei veri e propri compagni di vita e di viaggio, un po' come i Crazy Horse per Neil Young o la E Street Band per Bruce Springsteen. Se il primo album era quasi interamente sorretto dai tappeti percussivi sui quali si innestavano le chitarre weissenborn e le acustiche, su Fight For Your Mind le lap steel iniziano a saturarsi di distorsioni, il basso si fa più presente e la gamma di suoni da cui Harper attinge si dilata, così come, parallelamente, si affina la sua capacità di scrittura.
Il disco si apre con la tranquilla "Oppression", una sorta di folk esistenziale, in cui le voce di Harper canta in modo sommesso l'angoscia incombente su di sé e sul mondo. Con "Ground On Down" la lap steel inizia a scaldarsi lanciando feedback, mentre Harper urla con voce afona una sorta di funk-blues dalle tinte accese, quasi in contrasto con un testo criptico a base d’amori confusi, inferno e redenzione; Juan Nelson inizia a mostrare la sua classe, sorreggendo la band e offrendo una dinamica pompata e robusta al brano. Con "Another Lonely Day" gli animi si placano, Harper canta al contempo in modo delicato, ma malinconico, parlando di un amore non corrisposto e accompagnandosi solo con la sua acustica e un basso appena accennato. "Gold to Me" mostra un lato più solare, la weissenborn torna sulle ginocchia, mentre Harper canta un soul d'amore per la sua donna. Con l'uso del Tone Bar (una sorta di tubo in metallo con il quale si sfregano le corde delle lap steel per ottenere le tipiche sonorità slide), sembra quasi voler riproporre il caldo suono dei fiati tanto cari ai dischi della Stax e della Motown, il tutto prima di aprirsi in un intenso assolo, ideale trampolino di lancio per il suo estro chitarristico. Le atmosfere rilassate sono riproposte anche su "Burn One Down", una sorta d’inno folk alle droghe leggere a base di chitarra acustica e percussioni.
Su "Excuse Me Mr." le tematiche si allargano, da una dimensione intima si passa a un feroce atto d'accusa contro la moderna civiltà industriale. Harper canta su un ipnotico tappeto sonoro di slide, basso e percussioni, la voce viene filtrata e sembra voler personificare la coscienza che tenta di scuotere l'uomo moderno, il cui unico scopo è il puro guadagno personale. Ancora temi sociali, a metà strada tra messia e leader politico con "People Lead". Si vive in tempi duri, ma sta al singolo lottare per tirarsi fuori dal pantano, questa è lo spirito alla base dell'album, autentico manifesto alla vita attiva. Ancora una volte le trame della band s’intessono di distorsioni a base di pedali wah wah, montati su un loop magnetico di basso, un magnifico esempio di funky misto a tematiche cantautorali. Si ritorna alla tranquillità con il gospel di "Give A Man A Home", brano intenso e delicato, con atmosfere vintage di matrice black (non a caso sarà riproposta negli anni a venire con il gruppo vocale dei Blind Boys of Alabama). Ritorna anche il soul con la gemma di "By My Side", impreziosita dall'organo Hammond di Ervin Pope.
Autentico manifesto del pensiero e della visione di Ben Harper, "Power Of The Gospel" è una sorta di preghiera cristiano-panteista per voce e chitarra, in grado di toccare punte di un intensità quasi palpabile e di scuotere anche l’ascoltatore più cinico. Si rimane su temi simili anche su "God Fearing Man", il lavoro della band si fa più ambizioso mostrando tutta la sua classe, si ergono emozionanti trame sonore psichedeliche, dilatando il brano per quasi dieci minuti, Harper maltratta la sua weissenborn, estraendone fischi e dissonanze in una sorta di trance ipnotica.
Il disco si chiude con la struggente ballata acustica "One Road To Freedom", la strada da percorrere alla fine è una sola, quella riservata dalla vita stessa, con le sue scelte, le sue gioie e i suoi mille dolori, ma che nel bene e nel male ci rende quelli che siamo e ci può donare la libertà.
Nel terzo lavoro, The Will To Live, Harper si avvicina come mai in precedenza all'universo di Bob Dylan. Ma solo da un punto di vista prettamente musicale. Nei testi, infatti, Harper non si discosta da ciò che aveva celebrato e cantato nei primi due album. Aumenta, però, lo spettro delle influenze: dal blues rock dei Led Zeppelin a certe ballate stile Cat Stevens e al soul "carnale" di Al Green. La struggente "Jah Work" è forse la traccia che meglio esemplifica questo nuovo corso.
Nel 1999 arriva Burn To Shine, il disco che più lo ricongiunge alla tradizione nera che gli scorre nel sangue. Non solo Bob Marley, ma anche Jimi Hendrix e influenze black che vanno dai canti religiosi al soul danno corpo al sound. E addirittura lo swing degli anni Venti affiora in "Suzie Blue".
Lo stesso universo sonoro, denso ed emozionante, viene riproposto nelle esibizioni dal vivo, in cui Harper si fa accompagnare dal solito esperto gruppo, The Innocent Criminals, guidato dal bassista Juan A. Nelson e dal batterista Oliver Charles. Nel repertorio live, sono presenti anche preziose cover, come "Sexual Healing" di Marvin Gaye, "The Drugs Don't Work" dei Verve e "Whole Lotta Love" dei Led Zeppelin, che verranno poi incluse nel suo unico album doppio dal vivo, Live From Mars, del 2001, con una facciata acustica e un'altra elettrica.
Nel 2003 Harper pubblica il suo quinto album in studio, Diamonds On The Inside. La sua missione di stimolare risposte è stata necessaria. Come artista, ma anche come cittadino di quella America colpita nel cuore dei valori e della civiltà e che vive i giorni più difficili della sua esistenza. Il messaggio è allora una invocazione ai popoli della Terra, che possano trovare la forza e la luce che deve risplendere come diamante per andare avanti. Album riflessivo, ma forse come non mai in precedenza pieno di vita, speranza, ottimismo, Diamonds On The Inside è forse il suo lavoro migliore per ricercatezza sonora-stilistica e profondità delle liriche. Le sue ballate acustiche vanno dritto al cuore anche grazie a liriche intensissime e delicate, piene di ottimismo e speranza. A cominciare dal primo singolo estratto, omaggio a Bob Marley, "With My Own Two Hands". E a esaltare quella forza interiore che deve risplendere come un diamante, non solo recupera suoni e versi di reminiscenza dylaniana nella title track ma anche il gospel in "When it's Good" e i cori dei padri africani della preghiera "Picture Of A Jesus", in cui si sente l'influenza di Paul Simon così come in "Blessed to Be Witness". Mentre l'acustica "Amen Omen" deve qualcosa a certe ballate dei Rolling Stones. E ancora sonorità della Motown in "Bring The Funk" e "Brown Eyed Blues". Addirittura il Lenny Kravitz degli inizi rivive in "Touch From Your Lust".
Insomma, un universo emozionante che rapisce immediatamente anche per la voce di Harper, duttile, attenta a varie tonalità e alle sfumature. Nella sue corde vocali tutti i lampi e il dolore della lotta per un mondo dove regni l'armonia e l'amore. Nell'ultimo brano, "She's Only Happy In the Sun", "Every Time I Hear You Laughing It Makes Me Cry...": si vivono giorni così poco felici che un sorriso sereno può addirittura provocare un pianto liberatorio.
Dall'incontro con i Blind Boys Of Alabama (un collettivo di cantanti ultraottantenni, non vedenti e pieni d'arcana energia creativa) nasce There Will Be A Light (2004), miglior album di Harper dai tempi di Fight For Your Mind. "Take My Hand" parte subito vibrante: percussioni, liquide tastiere, chitarra con effetto wah-wah. L'atmosfera è intrisa di misticismo. In un attimo la calda voce di Harper scalda la stanza, seguita a ruota dall'entrata dei Boys, a sottolineare alcuni passaggi chiave del refrain. Splendido il finale in cui la voce tenorile di uno di loro rimane in solitudine a chiudere il pezzo. Cambio di mood per la canzone successiva, "Wicked Man", allegra e ritmata nenìa che ricorda un po' i trascorsi rock di Harper. Ancora un'inversione di rotta: "Where Could I Go" è un episodio da luci soffuse, una ballad strappalacrime che sembra uscita dal songbook anni 60 dei maestri R&B del genere, Otis Redding in testa. Dopo tanta dolcezza, si torna subito on the road: "Church House Steps" è un up-tempo rock teso e affilato, dalle polverose ambientazioni notturne. I Blind Boys giganteggiano nelle parti vocali "ausiliarie", risultando in chiusura i reali protagonisti. "Well, Well, Well" è una cover (minore) a firma Bob Dylan/ Danny O'Keefe: Ben a questo punto ci ha già deliziati con l'intro strumentale "11th Commandment", mettendo in luce una volta di più il suo talento con la slide guitar. La cover dylaniana tratteggia a tinte fosche una storia già di per sé piuttosto cupa, mentre i ragazzi dell'Alabama intrecciano le loro voci con Harper: il risultato è puro gospel, blues che sgorga dalla terra e ammonisce i peccatori. Tra i tanti colori complementari presenti in "There Will Be A Light" c'è spazio anche per "Picture Of Jesus": un gustoso numero di gospel-pop. Medesimo copione anche per il traditional country "Satisfied Mind": quando prende la parola uno dei Blind Boys poi, la sala registrazione sembra rimpicciolire per far spazio a lui soltanto. Con "Mother Pray" siamo in territori prettamente gospel. Il traditional è eseguito in cappella, senza alcun orpello aggiunto: tre minuti da brividi. La title track procede con fare malinconico e assorto, sciorinando un pop "natalizio". La chiusura è affidata al movimentato gospel "Church On Time", una vera festa di hammond e cori che si rincorrono e gioiosa ilarità. Una cura anti-tristezza che fa venir voglia di cantare.
Giunto al sesto disco in studio il cantante e polistrumentista di Claremont pubblica, dopo un lavoro di soli tre mesi, Both Sides Of The Gun.
Il disco si presenta come un doppio cd ma in realtà si tratta solo di un’ora e spiccioli di musica: la divisione è più voluta che necessaria, Harper infatti ha voluto scindere il disco in due parti, una più romantica e spirituale, fatta di ballate, e una più aggressiva. Il risultato, come facilmente prevedibile, è contrastante, e già da un primo rapido ascolto il primo disco appare molto più debole rispetto all’altra metà del progetto; se canzoni come “Lonely Day” o “Waiting For An Angel” sui primi album risultavano efficaci, inserite com’erano in un contesto più variegato, il susseguirsi delle nove ballate risulta di una piattezza abbastanza evidente. Anche a un ascolto ripetuto e attento si fatica a distinguere nettamente le canzoni e, anche se alcune sono buone (come “More Than Sorry” e “Cryin’ Won’t Help You Now”), perdono comunque valore in un contesto generale monotono.
È di gran lunga meglio la seconda parte, quando Harper mette nell’armadio viole, violini e violoncelli e alza il ritmo insieme alla sua band: che si tratti di funk (la title track), di rock con chiara ispirazione stonesiana (“Engraved Invitation” e “Get It Like You Like It”), o di country-folk con venature gospel (“Gather ‘Round The Stone”), il californiano dimostra di avere mestiere e di saper creare canzoni che, pur non essendo pietre miliari, si dimostrano efficacissime e trascinanti. “Black Rain”, in cui Harper richiama gli archi a imbastire trame da blaxpoitation in rabbioso funk anti-Bush, è sicuramente la punta di diamante dell’album ma si fa apprezzare molto anche la divagazione semi-jazz di “The Way That You Found Me”.
Nel complesso un disco non disprezzabile ma che, con una scelta “strutturale” diversa, che avesse eliminato il surplus, sarebbe stato ben più incisivo.
Lifeline (2007), terza prova con gli Innocent Criminals, è però un nuovo passo falso. Si fanno notare positivamente il rock intriso di r’n’b di “Say You Will”, lo strumentale per weissenborn di “Paris Sunset # 7” o il rock di “Put It On Me”, che ricorda lo Springsteen degli esordi.
Si salvano pure la soul-rock ballad “Needed You Tonight”, potente e suadente in egual dose, o la malinconica title track, tinta da impalpabili pizzicate di chitarra acustica e slide, ma “Lifeline” finisce qui. Perché il resto è costituito da ballate trite e ritrite, un po’ country–rock (“Fool For A Lonesome Train”), spesso repliche di un Harper-style già sentito tante volte (“In The Colours”, “Fight Outta You”) o irrimediabilmente banali (“Having Wings”) e noiose (“Younger Than Today”).
Il nuovo Ben Harper è rilassato, è quello che fa surf con Jack Johnson, niente più strade polverose, niente più mamme con amanti lesbiche, meno potere al gospel e meno miglia da marciare per non bruciare ancora. Del fuoco che allora ardeva di rabbia dentro il californiano forse è rimasto solo quello presso cui ci si raduna in circolo sulla spiaggia con la chitarra e gli amici; giusto per la pace interiore, certo, ma l’ispirazione di una volta non c’è più.
Cambiare rotta per non fossilizzarsi, per dare una scossa a una carriera che sembra ormai aver detto tanto, se non tutto, il possibile; forse per questo quando ha sentito il disco dei Wan Sant Condo, gruppo di quel Jason Mozersky che ai tempi gli faceva da chauffeur in tour, Ben Harper ha intravisto in quel sound l'occasione di proporsi in nuove vesti.
Non che sia un salto clamoroso, quello di Ben Harper con The Relentless7; in buona sostanza si alza il volume, si lascia da parte quasi interamente il folk, si ridimensiona l'apporto blues e si arriva a un tono generale più rock, magari un po' funk, con chitarre elettriche in evidenza.
L'impressione è che il songwriter di Claremont in questa nuova veste si diverta molto in mezzo a rock con riff Lynyrd Skynyrd ("Number With No Name") o più blueseggianti ("Why Must You Always Dressed In Black"). Harper azzecca singoli coinvolgenti e trascinanti miscelando grunge e QOTSA ("Shimmer And Shine"), accelera il respiro delle ballad con cadenze elettriche da Pearl Jam ("Fly One Time") o torna felicemente alle emozioni di certe canzoni dai suoi primi dischi ("The World Suicide").
La voglia di Harper di mettersi un po' in gioco non funziona sempre, se diverte il funk-blues di "Lay There & Hate Me" e intriga il blues prima elettrificato alla Kravitz e poi rallentato di "Keep It Together", le troppe ripetizioni, i tempi bizzarri e gli assoli estemporanei di "Boots Like These" lasciano perplessi.
A dispetto di qualche canzone banale, però, White Lies For Dark Times è un album compatto e quadrato, divertente e piacevole, Harper forse vocalmente non è nella sua situazione ideale ma ci dà dentro divertendosi e la band dei Relentless7 ha la tecnica e il vigore per accompagnarlo col giusto spirito.
Dopo le buone speranze suscitate da White Lies For Dark Times, il successivo Give Till It's Gone conferma la discutibile tendenza di Harper a pubblicare troppi album in pochi anni, quando, magari, con una pausa più adeguata e una riflessione maggiore, poteva riuscire con più qualità, a dispetto della quantità. Il lavoro è un insieme di pezzi classicamente rock o folk-rock, che a volte tentano (invano) di recuperare il suo vecchio sound ("Don't Give Up On Me"), ma che nella maggior parte degli episodi risultano poco incisivi e banali.
Non sollevano la media un anthem orecchiabile come "Rock 'n' Roll Is Free" o la mielosità di "Feel Love", mentre qualche segnale positivo nasce dalle tracce gospel di "Waiting For A Sign", dalla grezza slide del blues-rock "Dirty Little Lover" e dalla finale "Do It For You, Do It For Us", nella quale Harper ritrova la verve perduta.
Tardi, però, per salvare un album "qualunque", un disco che ci si aspetterebbe da qualche cantautore con poco talento e tanta voglia di fare, non da un artista che era stato capace di inventarsi un songwriting folk che miscelava felicemente elementi di black-music quali blues, soul e funk in una proposta assolutamente di qualità e originale quanto basta.
Nel 2013 è la volta di Get Up!, nel quale Harper torna a scandagliare il roots blues in compagnia di Charlie Musselwhite, armonicista di fama indiscussa, all’occorrenza abile anche sulla sei corde. Non è un caso che l’ombra di John Lee Hooker possa emergere come una delle massime fonti di ispirazione (ascoltate un po’ “I’m In I’m Out And I’m Gone”), visto che (così almeno si narra) Harper e Musselwhite si sarebbero conosciuti nel 1997 proprio durante una serie di session eseguite per il celebre bluesman. “Get Up!”, edito dalla leggendaria Stax Records, è un disco bifronte, con una serie di brani delicati, sapientemente alternati con altri più ritmati, con una serie di colpi di genio alternati a momenti un po’ più scontati. Dieci canzoni autografe, scritte da Harper per l’occasione, che hanno in molti casi la stessa forza dei traditional ai quali chiaramente si ispirano, che sanno contaminarsi tanto con i cori gospel (“We Can’t End This Way”), quanto coniugarsi con il caro vecchio rock’n’roll (“She Got Kick”). Non mancano momenti tipicamente harperiani, come nel caso di “You Found Another Lover”, che sa tanto di outtake rimasto inspiegabilmente nel cassetto. Si cerca il ritmo (“Blood Side Out”, “I Don’t Believe A Word You Say”), ma si lavora anche di fino (“I Ride At Dawn”) senza disdegnare le soluzioni più scarrnificate (“All That Matters Now”, posta a fine sequenza) in un lavoro che odora di antico, pur sapendosi amabilmente sposare con la contemporaneità.
A distanza di un anno Harper pubblica una piccola perla d’intimità, accompagnato dalla mamma Ellen, polistrumentista e vocalist in Childhood Home. La sinergia che i due mostrano in questo breve ma intenso ricamo di primavera è il nido d’unione tra genitori e figli, come quando il nonno materno di Ben, dalla sedia a dondolo della casa di Claremont, CA, guardava con occhi scuri quella ragazza ebrea tornare a casa e stringere tra le braccia il piccolo Benjamin Chase.
Così le dieci canzoni sono una scelta stilistica definita, tributo a chi quegli anni di abbracci li ha vissuti (Joni Mitchell, Joan Baez, Cat Stevens), con Ben a cantare le canzoni scritte da Ellen e viceversa. Gli scambi emozionali nei testi (“A House Is A Home”, “Learn It All Again Tomorrow”) valgono più di mille sonorità mancate e sono come carezze d’inchiostro, passate sul ventre morbido di coloro che si lasciano cullare dalla tenerezza.
È tutto un susseguirsi di profondità (“City Of Dreams”, “Born To Love You”, “Altar Of Love”) questo “Childhood Home”, inframezzato dall’Harper dei passaggi folk di “Fight For Your Mind” (“Farmer’s Daughter”, “Break Your Heart”) e sempre fedele alla caratteristica che ne ha definito il personaggio in questi vent’anni di carriera: la sincerità.
Nel 2018 è il turno di No Mercy In This Land, ancora in coppia con Charlie Musselwhite. Il nuovo album è quel tipo di disco che racconta storie di sofferenze e perseveranza, una catarsi ruggente dove le vicende personali di Ben e Charlie si incrociano, fino a mescolarsi, con quelle di milioni di cittadini americani. Impossibile, infatti, non percepire i riferimenti a Trump presenti nella title track, come altrettanto impossibile è non essere smossi dall'ultima strofa cantata direttamente da Musselwhite, dove evoca il dolore per l'abbandono del padre e la morte prematura della madre ("Father left us down here all alone/ My poor mother is under a stone"). Soltanto qualche nota d'organo si intromette nel formidabile connubio tra l'armonica di Musselwhite e la chitarra di Ben Harper, mentre altrove l'accompagnamento è dato dal piano e dalla sezione ritmica, che segue alla lettera l'andamento del loro blues al chiaro di luna. Il passato dell'armonicista torna a galla inaspettatamente anche nei brani "The Bottle Wins Again" e "Bad Habits", dove alla voce di Harper si mescolano gli sbalorditivi fraseggi dell'armonica di Musselwhite, capace persino di portare alla mente certe atmosfere folli tipiche del jazz di Charlie Parker.
Nel corso del disco, a momenti più duri si mescolano altri più introspettivi, come nel caso del brillante soul di "When Love Is Not Enough" e della ballata per pianoforte di "Nothing At All", che evoca la contemplazione di una notte solitaria. Grazie a questo espediente l'album di Musselwhite e Harper, che sulla carta potrebbe risultare un disco "passatista", riesce nell'impresa tenere sempre viva l'attenzione dell'ascoltatore, attraverso brani febbrili come "Found The One", accuratamente collocata a metà dell'opera. Ecco allora che, se vale la regola che il blues racconta sempre una storia (come diceva John Lee Hooker), il duo dimostra di avere ancora le parole giuste per farlo.
Due anni dopo Ben Harper si cimenta con il suo primo album interamente strumentale. Winter Is For Lovers (2020) è un ritorno alle origini, un viaggio di ritorno che non si ferma all’inizio del suo personale percorso musicale, ma prosegue fino alle radici della musica folk. E allora non è un caso se l’artista californiano ha scelto proprio il The Folk Music Store per registrare l’esecuzione integrale del suo disco, disponibile in video sulla piattaforma streaming più famosa del mondo. Un luogo che aulisce di sacro e di tradizione, oltre che di famiglia. Lì, in quel negozio messo in piedi dai suoi nonni materni, Harper ha incrociato il suo apprendistato adolescenziale con la vita di artisti come Ry Cooder, David Lindley, Jackson Browne e Leonard Cohen. Erano gli anni Ottanta e da allora il cantautore statunitense non ha mai fatto prendere polvere alle proprie chitarre hawaiane, tanto da celebrarle definitivamente in questa occasione.
Sebbene “Inland Empire” avesse fatto ben sperare - con una linea melodica che è un colpo di tosse all’anima e con dei bassi profondi che bussano in testa come un pensiero ricorrente - il nuovo disco però tradisce le aspettative. Vuoi perché un album strumentale, per chi fa della voce e delle parole un cardine della propria musica, è già di per sé un’impresa rischiosa, vuoi perché la tecnica di Harper sullo strumento è buona, ma non al punto da giustificare un disco scheletrico e minimale come quello uscito il 23 ottobre scorso con Anti- Records.
Pochi episodi veicolano un sentimento o un'atmosfera, qualcosa da cui recuperare un profumo, uno scorcio, un gioco di luci o anche soltanto una flebile sensazione. Se “Joshua Tree”, con la sua sacrale progressione, ricorda vagamente l’inizio di “Power Of The Gospel”, uno dei brani più belli mai scritti da Harper, “Toronto” pennella una striscia di malinconia su una foto in bianco e nero del Lago Ontario, ma sono eccezioni di una regola che non fa mai trasalire. Tutto il resto, infatti, si fa ascoltare e si lascia subito dimenticare, come un posto in cui sei stato, ma di cui non conservi neppure un ricordo. “Winter Is For Lovers” rimane allora solo un discreto sottofondo per serate domestiche con un bicchiere di vino in mano o un tentativo di colonna sonora per un film itinerante con riprese grandangolari (da questo punto di vista, “Paris, Texas” di Ry Cooder sembra qualcosa in più di una vaga ispirazione).
Harper si addormenta su uno spettro sonoro che non ha tanto il difetto di essere stretto, quanto più di rimanere lo stesso. Perennemente immutato.
Contributi di Valeria Ferro ("No Mercy In This Land"), Claudio Lancia ("Get Up!), Stefano Macchi ("Childhood Home"), Federico Piccioni ("Winter Is For Lovers"), Ariel Bertoldo, Dario Baragone