“An Overview On Phenomenal Nature” fu una rivelazione, un disco unico, anche per via delle tragiche circostanze che contribuirono alla sua genesi. Ma suonare quelle canzoni ripetutamente, durante due anni passati per la maggior parte del tempo in tour, deve aver completamente prosciugato la loro autrice, Cassandra Jenkins, che su Zoom mi confida: “Temevo di non aver più nulla da dire”. Nonostante la pressione, la cantautrice ha ritrovato, anche grazie a New York City, la compagna di una vita, e alle persone a lei vicine, la propria voce autoriale. Durante la nostra conversazione abbiamo discusso di alcuni aspetti del suo nuovo lavoro “My Light, My Destroyer”, imbevuto di mitologia greca, proiettato verso lo Spazio profondo, e, ancora una volta, costellato dai suoni della metropoli statunitense.
A chi o a cosa si riferisce il titolo del tuo nuovo disco, “My Light, My Destroyer”?
Si ispira a un testo di Anne Carson, una delle mie autrici preferite. Ha scritto molto sulla mitologia greca e, parlando della figura di Cassandra, scrive che mentre sta apparentemente cedendo alla follia prima della caduta di Troia, si rivolge urlando ad Apollo. Lo invoca sette volte, e l’ultima volta cambia leggermente l’invocazione in moda tale che il nome assume un nuovo significato, ossia quello di uccidere, distruggere. "Mio dio" è così contemporaneamente "mio distruttore”. Apollo era la divinità della luce del sole e mi sono lasciate ispirare da questa idea.
Per “My Light, My Destroyer” hai lavorato con molti musicisti e musiciste. Come sono nate queste collaborazioni?
Spesso ho collaborato con amici e amiche o persone che si trovavano a New York o a Los Angeles. Il mio principale collaboratore per questo disco è stato Andrew Lappin. È stato lui che ha proposto di lavorare insieme e in poco tempo si sono stabilite fra noi una buona amicizia e un’ottima relazione lavorativa. Alcune delle persone che suonano nelle nuove canzoni le conosco già da molti anni, altre invece da poco ed era la prima volta che lavoravamo insieme. Mi piace l’idea di creare una band in base alle peculiarità dei singoli individui. Per esempio, per “Petco” avevo una vaga idea di qualcosa in stile pop-punk e mi sono detta che Zoë Brecher fosse la persona adatta; o per “Devotion” sapevo di aver bisogno del drumming Joshua Jaeger. Questa band è la mia squadra ideale per il fantasy football!
Il processo di scrittura e quello di registrazione si sono svolti diversamente rispetto a quelli per le tue precedenti raccolte di canzoni?
Sì, decisamente, in quasi ogni aspetto. Ho scritto “An Overview” mentre mi trovavo in un momento confuso della mia vita, in seguito ad alcuni eventi tragici. Dopo due anni di tour, mi sono poi ritrovata esausta e pensavo di non avere più niente da dire. C’è voluto tempo per ritrovare le energie e, andando a sentire dei concerti, mi sono lasciata ispirare da amici e amiche. Stare a New York mi ha rinvigorita.
A livello puramente sonoro, credo che questo album sia più eclettico del precedente. Invece di un flusso atmosferico coeso, ci sono brani indie-rock, ballate jazzate e canzoni indie-folk. Perché hai scelto di mescolare i generi in questo modo in “My Light, My Destroyer”?
Ho cercato di ascoltare le canzoni e di seguire la strada in cui mi stavano indirizzando. Aver collaborato con molte persone ha ovviamente contribuito nell’accrescere i riferimenti musicali. Quando ho scritto “An Overview” vivevo la mia vita a NY, sempre circondata da amici e amiche; per questo disco mi sono ritrovata improvvisamente con un contratto con un’etichetta e lontana dalle mie amicizie o perché ero in mezzo a un tour o perché cercavo di evitare troppi contatti in modo da non ammalarmi di Covid, poiché avrebbe potuto mettere a repentaglio i concerti successivi. Avevo davvero bisogno di stare con i miei amici e le mie amiche, di avere influenze esterne, di diventare una spugna e assorbire tutto quello che mi circondava, in modo da poterlo canalizzare nella mia musica.
In “An Overview” il dolore era un tema centrale, eppure l’album aveva un suono molto luminoso. In alcune delle nuove canzoni, come “Delphinium Blue” e “Tape And Tissue”, esplori invece arrangiamenti più cupi, notturni.
È vero! “Delphinium Blue” è molto notturna, sembra provenire da uno spazio oscuro. Buona parte del disco è ambientata all’alba o prima del sorgere del sole. Penso di tematizzare un’oscurità e il modo in cui cerco di trovare la luce al suo interno. Luce e oscurità, non può esserci l’una senza l’altra. Trovare un equilibrio tra le due è stata una forza propulsiva per me, in generale all’interno di questo album, ma anche nelle tonalità di ogni canzone. È un’interazione che trovo davvero avvincente.
I field recordings erano già in “The Ramble” una parte fondamentale della tua musica. Ora li utilizzi di nuovo in più frammenti nel corso del disco. Che significato hanno per te?
Mi piace pensare che siano degli strumenti in grado di cambiare la mia prospettiva. Il deep listening e l’osservare con curiosità permettono di mettere delle lenti differenti per guardare il mondo. Quando indosso le cuffie che utilizzo per il field recording, ascolto in un modo diverso, con discernimento e apertura. È molto diverso da attraversare il mondo andando da un punto A a un punto B: è un modo di essere presente.
In maniera analoga alla meditazione?
È sicuramente meditativo. Per me la meditazione significa essere consapevole del mio circostante e dei suoni e rumori attorno a me. Non si tratta di acquietarli, ma di ascoltarli con attenzione. Pauline Oliveros ha scritto e riflettuto molto sul deep listening e parlava della pratica di camminare come se si avessero le orecchie nei piedi. I field recordings sono il mio modo per entrare in quella dimensione.
“Shatner’s Theme” mi ha ricordato per certi versi “The Ramble”. Se lì il rumore dei tuoi passi si univa al canto degli uccelli e al respiro della città, qui il fischio umano di Molly Lewis si fonde con i suoni circostanti. È come se gli esseri umani facessero completamente parte di ciò che percepiamo come natura e si fondessero con entità non-umane e i suoni non-umani.
Sì, credo che sia vero. “Shatner’s Theme” è peraltro una specie di sci-fi track, dato che alludo giocosamente e scherzosamente a "Star Trek" e, più in generale, alle trasmissioni radio provenienti da un luogo lontano. Mi piace anche l’idea di interrompere il flusso del disco con questi messaggi che sembrano provenire dallo spazio.
La solitudine è un tema che hai esplorato nella maggior parte delle nuove canzoni. Ho la sensazione che le tue osservazioni si basino su un’esperienza personale, sulla vita quotidiana di una musicista on the road, ma pensi che questa sensazione di solitudine possa essere estesa a un discorso sociale o anche traslata su un piano più filosofico?
Sì, utilizzo la mia vita per esplorare il tema della solitudine. Peraltro, è una tematica che in generale ricorre spesso nella musica popolare. Gli esseri umani sono costantemente alla ricerca di compagnia e amore, similmente a molti altri esseri viventi. È una strategia di sopravvivenza di fronte al vuoto sconfinato che regna appena al di fuori dell’atmosfera terrestre.
Hai poi inserito anche un frammento in francese, Attente Téléphonique, il cui protagonista è un viaggiatore solitario.
Sì, l’ho scritto quando mi trovavo in tour in Europa e mi sentivo un po’ persa, non potendo comunicare nella lingua del posto. Però mi sono spinta oltre, sottolineando come alla fine siamo solo dei viaggiatori e delle viaggiatrici attraverso la vita. Ad ogni modo, è una caratteristica della condizione umana quella di non riuscire a comunicare ogni aspetto dell’esistenza con il linguaggio, che può essere solo una traduzione della nostra esperienza. Proprio Anne Carson, la grecista e traduttrice che abbiamo menzionato all’inizio, lo affermava a più riprese: chi traduce fa del suo meglio, ma l’esperienza vissuta sarà sempre uno step oltre.
Mi è piaciuto molto il modo in cui il video musicale di “Only One” ha trasformato una break-up song in un tributo e in una dichiarazione d’amore a NYC.
Sì, sicuramente è una parte del video. Trovo che i video musicali possano essere molto interessanti quando donano a una canzone una nuova vita. Non limitandosi a una forma descrittiva della musica, ma elaborando a partire da essa divengono una forma d’arte a sé stante. Mi è piaciuto poter dedicare una lettera d’amore a New York, che è una città che amo ed è l’unica dove ho davvero vissuto. Ma il video parla anche di vedere dei segnali intorno a noi e di estrapolare, o filtrare, solo quello che vogliamo vedere. Questo è un atteggiamento decisamente miope, che offre punti di vista limitanti e limitati. E si correla nel brano al fatto che anche un heartbreak può essere ugualmente miope. E, tra l’altro, i segnali che si scorgono a NY sono fantastici, divertenti e weird. Anche se la città si modernizza, trovo che non abbia cancellato completamente la propria umanità.
Pensi che Sisifo possa essere una figura chiave non solo in questa canzone, ma anche all’interno del disco, in particolare in relazione al tema della solitudine?
Sì, sicuramente la routine in “Delphinium Blue” è sisifea, ma allo stesso c’è della bellezza in quello che la circonda. Camus scrive che si dovrebbe immaginare Sisifo come felice ed è una prospettiva che capovolge il mito. Quando ho scritto “Only One”, in quel simbolo sulla finestra vedevo solo sofferenza e disperazione, ma in realtà poteva essere un segno di speranza durante un periodo particolarmente buio per me. Era un messaggio di speranza che non riuscivo a vedere in quel momento, ma che colgo in pieno solo ora, quattro anni più tardi.
(photo Credits by Pooneh Ghana; intervista pubblicata il 14 luglio 2024)
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