Un onesto songwriter: questa è la definizione che più di ogni altra si addice a Denison Witmer, un giovane cantautore statunitense che dipinge di tinte pastello i paesaggi emotivi tratteggiati nei suoi testi, attraverso delicati fraseggi acustici e sognanti melodie. Scoperto da Don Peris, Denison vanta numerose collaborazioni con svariati artisti, tra cui Sufjan Stevens e Rosie Thomas oltre che, naturalmente, lo stesso Don, deus ex-machina di The Innocence Mission. In attesa dell’imminente uscita del suo nuovo lavoro in studio, ripercorriamo con Denison più di dieci anni di carriera all’insegna di un songwriting generoso e sincero, permeato da una spiritualità profonda e da una sensibilità (tanto stilistica quanto emotiva) al di fuori del comune.
Hai 31 anni e sei già al tuo settimo album in studio. Qual è il principale “motore” per un’ispirazione artistica così intensa e prolifica?
Non mi considero una persona particolarmente prolifica. Mi girano sempre in testa numerosi grandi interrogativi sulla vita, e la musica è il mio modo di provare a capire il mondo che mi circonda. Utilizzo le canzoni per cercare di spiegare me stesso a me stesso. In generale il mio approccio al songwriting è un po’ come quello di tenere costantemente aggiornato un diario, aggiungendo poi la musica alle parole.
Ripercorrendo la tua discografia, salta subito all’occhio, specie a quello di un musicofilo collezionista, la tua prima musicassetta autoprodotta, “My Luck, My Love”, ormai un oggetto di culto praticamente introvabile. Il nome sembra quasi profetico, come quello di un prezioso amuleto destinato a pochi eletti. Mi racconti la sua genesi?
Ho registrato “My Luck, My Love” quando ero all’ultimo anno delle scuole superiori, come progetto per il mio corso di Inglese. Ogni iscritto al corso poteva scegliere il proprio genere di progetto da portare agli esami finali; l’unica vera richiesta dell’insegnante era che ciascun progetto includesse un qualche tipo di scrittura. All’inizio avevo intenzione di scrivere un libro di poesie, ma poi ho pensato che sarebbe stato bello provare a registrare musica per la prima volta nella mia vita e mi piaceva inoltre l’idea di poter regalare alla mia famiglia e ai miei amici delle canzoni scritte da me. Così ho registrato “My Luck, My Love”, di cui sono state stampate solo 250 copie. Sebbene “My Luck My Love” sia di fatto il mio primo lavoro, non lo considero in realtà come il mio album d’esordio. Ai miei occhi il vero debutto è rappresentato da “Safe Away”, perché quello è l’album con in quale ho iniziato a girare in tour e a prendere il discorso musicale più seriamente. “My Luck, My Love” è poco più dell’ampliamento di un passatempo.
“My Luck, My Love” non è mai stato ristampato. C’è una ragione “sentimentale” dietro questa decisione?
Non c’è una ragione sentimentale, quanto piuttosto un po’ di imbarazzo. (sorride)
Ero davvero molto giovane e non sono sicuro di volere che la gente ascolti quelle canzoni. Tuttavia... chissà, forse un giorno metterò quei brani a disposizione su internet gratuitamente.
Il primo album che hai pubblicato in veste più ufficiale, “Safe Away”, è nato sotto i migliori auspici poiché ha avuto il supporto, sia in veste di produttore che in quella di musicista, di un mostro sacro come Don Peris (The Innocence Mission), dando inoltre l’avvio a un vero sodalizio artistico. La tua scrittura musicale lineare e leggera si sposa benissimo con il picking gentile di Peris, che ricama finissimi decori chitarristici sulla delicata trama delle tue canzoni. Com’è nata la vostra collaborazione?
Ho incontrato Don Peris quando avevo 16 anni, e in origine lui era il mio insegnante di chitarra. Dopo avermi dato lezioni di chitarra per quasi un anno, Don mi chiese se avessi mai preso in considerazione l’idea di registrare la mia musica, offrendosi inoltre di aiutarmi dal momento che possedeva la strumentazione necessaria per le registrazioni. A dire il vero, Don ha registrato anche “My Luck, My Love”, ma in quell’album non mi ha aiutato con gli arrangiamenti né ha suonato la chitarra.
Don è il principale motivo grazie al quale oggi posso definirmi un musicista. Mi ha incoraggiato a essere sicuro di me stesso e sin dall’inizio mi ha seguito nel condividere la mia musica con altra gente. Gli sarò per sempre grato, perché si è dimostrato essere una persona gentile e meravigliosa.
Hai collaborato e tuttora collabori con numerosi artisti della scena indipendente statunitense. Oltre a Don Peris è doveroso citare in particolare Sufjan Stevens e Rosie Thomas, ai quali sei oltretutto legato da un profondo affetto. Credi che l’amicizia sia un elemento importante nella collaborazione tra musicisti?
Conosco sia Rosie che Sufjan da lungo tempo. Non credo che si debba essere amici di qualcuno per poter essere ispirati e avere delle eccellenti collaborazioni, ma allo stesso tempo so per esperienza che è più divertente lavorare con persone che si conoscono bene e sulle quali si possa fare affidamento. Come qualsiasi relazione tra buoni amici, esiste una silente reciproca comprensione dei rispettivi istinti, tanto nel prendere decisioni quanto nel fare scelte stilistiche e creative. Le nostre tre strade si sono incrociate grazie alla musica e la nostra è stata più una interrelazione tra amici che una collaborazione pianificata. Quando abbiamo registrato l’ultimo album di Rosie, “These Friends Of Mine”, non avevamo affatto in progetto di farlo ascoltare ad altra gente: ci stavamo solo divertendo. Tuttavia mi fa molto piacere che le canzoni siano state alla fine pubblicate e che la gioia che abbiamo espresso in questa nostra “creatura” possa essere adesso condivisa con altre persone.
Il titolo del tuo secondo album, “Of Joy And Sorrow”, prende spunto da uno dei racconti de “Il Profeta” di Khalil Gibran, dove a una donna che gli chiede di parlare “della gioia e del dolore”, il profeta risponde: “[...] essi sono inseparabili. Essi giungono insieme, e quando l’uno si siede con voi alla vostra mensa, ricordate che l’altro è addormentato sul vostro letto. In verità voi siete oscillanti come bilance tra il dolore e la gioia. Soltanto quando siete vuoti, siete fermi e bilanciati.”
Secondo te questa imprescindibilità della gioia dal dolore può essere il vero segreto per godere appieno dei momenti in cui l’ago pende verso il piatto della prima?
Voglio vivere ogni singola emozione il più pienamente possibile. Non “costruisco” le mie emozioni, ma provo a rifugiarmi in un posto mentale in cui non debba nascondermi dai miei umori e dalle emozioni con le quali faccio i conti negli alti e bassi della quotidianità. Non credo che la gente abbia BISOGNO di sperimentare il dolore... non potrei mai augurare il dolore a nessuno. In ogni caso, penso che ogni nuova esperienza negativa porti con sé una migliore comprensione e un maggior apprezzamento dell’altra faccia della medaglia. Credo che sia proprio questo il modo in cui la gioia e il dolore sono legati indissolubilmente per sempre. Il dolore mi ha spinto a non dare mai la mia gioia per scontata.
Provieni da una famiglia con una tradizione cristiana fortemente radicata, e tu stesso ti professi credente. Nei tuoi testi si sente forte la presenza di un aspetto spirituale che risulta tuttavia privo di connotazioni religiose specifiche, una sorta di “spiritualità universale”, lontana da qualsiasi tipo di intento catechesico.
Come vivi la tua fede in relazione alla musica e come ti poni rispetto alla cosiddetta “Christian music”?
Ciascuno di noi ha i propri “credo” (che a volte prendono il nome di religione) e si presuppone che le convinzioni alla base di tali credo influenzino le decisioni della vita quotidiana. Ma quelle convinzioni non rappresentano sempre e necessariamente il motore delle scelte e dei comportamenti, soprattutto in campo lavorativo. Prendiamo ad esempio un idraulico: se le tubature dell’acqua in casa si rompono e l’idraulico che viene ad aggiustarle è musulmano, questo non vuol dire che aggiusterà le tubature in un “modo musulmano”. Farà il suo lavoro indipendentemente dal suo credo personale.
Io sono un musicista. Il mio lavoro è scrivere canzoni. Ritengo che la gente sia in grado di avvertire la presenza di profonde convinzioni nella mia vita personale per via di alcuni dei testi delle mie canzoni, ma le mie convinzioni non fanno di me un cantautore. Non penso che la “Christian music” esista. Penso che esista la musica. Penso che a volte delle persone di fede cristiana facciano musica. Conosco molte persone che fanno musica, e sono persone di tutti i credi (e di NESSUN credo). Penso che ognuno abbia il diritto di essere creativo nel modo in cui desidera esserlo.
Il tuo terzo album, “Philadephia Songs”, è dedicato alla città della Pennsylvania nella quale hai scelto di andare a vivere già da diversi anni, ed è stato composto nel primissimo periodo della tua permanenza a Philadelphia. Lontano da intenti celebrativi o anche solo “turisticamente” descrittivi, quest’album è un racconto molto intimo, una fotografia della città filtrata attraverso gli occhi dell’anima di Denison. Com’è evoluto in questi anni il tuo rapporto personale con Philadelphia?
La miglior risposta a questa domanda sarebbe il testo di “Sets Of Keys”, il primo brano di “Philadelphia Songs”. Mi sono spostato da un piccolo paese , ovvero da un ambiente piuttosto “prevedibile”, ad una grande città dove sentivo che tutto sarebbe potuto accadere. Philadelphia era la città perfetta per permettermi di prendere confidenza con gli altalenanti umori della mia giovane maturità, e infatti ho subito sentito una forte somiglianza tra questo posto e la mia personalità: Philadelphia è una città che guarda costantemente avanti, pensando romanticamente a cosa fare per diventare un posto migliore, e ciononostante finisce poi col prendere spesso decisioni che ne ostacolano o ne rallentano drammaticamente il progresso. Credo di avere lo stesso approccio con quel che riguarda la mia vita, e in realtà penso che sia così per molte persone. Forse questa è una metafora sciocca, ma trovo che tutti noi nei nostri stessi confronti siamo un po’ come delle città: nella nostra mente tutti noi abbiamo un vicinato, un posto piacevole in cui stare, pieno di arte e di locali; tutti abbiamo dei quartieri poveri, dove ci sentiamo miseri e confusi; tutti noi abbiamo viali alberati con palazzi colorati e bella gente ma tutti abbiamo anche una zona fuori città dove maleodoranti sacchi di immondizia si ammucchiano ai bordi della strada.
Avevo 20 anni quando sono andato per la prima volta a Philadelphia e a quel tempo ero molto disorientato dal punto di vista emotivo, e non sapevo in che modo gestire la “città della mia mente”. Ciò che riscatta Philadelphia è la capacità di mantenere sempre la calma, di imparare dai propri errori per poi riprovare ancora con una miglior disposizione d’animo. Ogni anno Philadelphia cerca di migliorare la propria organizzazione e di prendersi cura di sé stessa. Ho sempre provato a essere anch’io così nella mia vita: ho sempre voluto guardare ottimisticamente avanti e sperare per il meglio. Cerco di non colpevolizzarmi (troppo) per le scelte sbagliate che ho fatto. E’ un cliché, ma non si può pretendere di cambiare ciò che è già passato: ciascuno di noi è responsabile delle decisioni prese, ma lo è ancora di più di quelle che prenderà.
Cosa pensi della scena cantautorale della Pennsylvania?
Non saprei. Non mi sono mai davvero addentrato in una particolare scena musicale, perché ho iniziato a girare in tour in una fase piuttosto precoce della mia carriera. Mi piacciono molte altre band di stanza a Philadelphia, ma non credo di preferirle ad altre provenienti da posti diversi. Mi dispiace, so che questa non è una vera e propria risposta...
Non preoccuparti, non c’è problema.
Ho letto in giro sul web un divertente aneddoto relativo alla realizzazione di “Philadelphia Songs”, riguardante una messinscena architettata al Ritz Carlton Hotel, nel centro della città, per poter registrare un assolo di pianoforte a coda da inserire in un brano dell’album. Mi racconti com’è andata esattamente?
Volevo concludere il disco con una canzone chiamata “Saint Cecilia”. Era stata scritta per pianoforte, ma avevo speso tutto il budget che avevo a disposizione per la registrazione in studio e non mi era rimasto più niente per registrare il piano. Improvvisamente a me e al mio amico Devin è venuta questa strana idea: abbiamo deciso di fingerci degli accordatori di pianoforte e siamo andati nell’hotel più bello del centro di Philadelphia per registrare lì la canzone. Ci siamo vestiti come se fossimo dei tecnici di pianoforte (che poi, in che razza di modo si potranno mai vestire dei tecnici di pianoforte?) e ci siamo diretti verso l’anticamera dell’hotel, dicendo al barista di spegnere la musica di sottofondo perché dovevamo ispezionare il piano. Tutti hanno creduto alla nostra messinscena e ci hanno lasciati lì a “lavorare” sul piano per circa 15 minuti... Abbiamo registrato la canzone, chiuso il pianoforte della grande sala da ballo e detto al barista che avevamo risolto il problema. La parte più buffa di tutta questa storia è che nella nostra pianificazione avremmo potuto portare a termine il progetto solo durante l’ora di cena, e quindi nel brano si sentono molti rumori di sottofondo: i camerieri fanno cadere piatti e posate, la gente parla a voce piuttosto alta, e prestando attenzione si possono sentire anche i passi che echeggiano attraverso il pavimento. Credo che tutto questo dia al brano una gran bella personalità.
Tra i tuoi vari lavori c’è anche un bellissimo omaggio alla musica cantautoriale degli anni 70, “Recovered”, dove prestando estrema attenzione alle sfumature delle versioni originali, i vari brani vengono rivisitati con grande cura del dettaglio, mantenendo una forte continuità con l’epoca nella quale si inseriscono, nel personalissimo stile di Denison Witmer. Quali sono gli artisti che hanno maggiormente segnato la tua crescita musicale?
Jackson Browne, Neil Young, Graham Nash, Leonard Cohen, Fleetwood Mac, Nick Drake.... Ascolto moltissima musica del passato.
A proposito di Nick Drake, il compianto cantautore britannico potrebbe essere considerato una sorta di “grande assente” tra gli artisti omaggiati in “Recovered”. Una suggestiva cover di “Northern Sky” è tuttavia presente nel tuo alter-sito “Happy Birthday Denison”. In che rapporto ti poni con Drake?
Quando ho iniziato a progettare “Recovered”, sentivo di non poter scegliere canzoni di Bob Dylan o di Nick Drake, perché se da un lato Dylan mi sembrava troppo “ovvio”, dall’altro Drake stava attraversando proprio in quel periodo la sua fase di riscoperta e di rinnovata popolarità. Non volevo che la gente pensasse che avessi scelto l’uno o l’altro per mettermi in maggior luce. A dire il vero, come spiego anche nelle liner notes dell’album, non avevo intenzione di utilizzare nessuno degli artisti presenti nell’album per mettermi in mostra. Volevo solo far loro un omaggio riconoscente, cantandone le canzoni nel modo più sincero possibile. Come ho detto amo molto Nick Drake, e ho sempre amato la sua “Northern Sky”. Ho suonato quella canzone nei miei concerti diverse volte, così quando ho deciso di creare il sito “Happy Birthday Denison” ho voluto includere anche “Northern Sky” nel progetto. Ho uno strano rapporto con Nick Drake, ma il discorso è troppo lungo per affrontarlo ora in questa intervista. Volendo approfondire, comunque, su “Happy Birthday Denison” è possibile scaricare un podcast dove racconto la storia del mio rapporto col songwriter inglese.
Dopo averne brevemente accennato, mi piacerebbe approfondire con te il discorso relativo a “Happy Birthday Denison”.
happybirthdaydenison.com è un sito che ogni 4 novembre (giorno del tuo compleanno) si arricchisce di nuovi brani scaricabili gratuitamente. Questo sito web rappresenta inoltre una bellissima iniziativa di solidarietà sociale, poiché sulla homepage del sito gli ascoltatori sono invitati a fare donazioni libere in cambio delle canzoni in free download, con la possibilità di scegliere tra due associazioni coinvolte nell’assistenza ai malati. Com’è nata l’idea di questo sito-progetto?
Da sempre avrei voluto aiutare la gente attraverso la mia musica, ma non ho mai saputo esattamente come fare. Naturalmente so bene che la musica si relaziona alle persone in modo emozionale e so che già in quel modo riesce ad essere profondamente d’aiuto un po’ a tutti, ma se non si riesce a convertire quel genere di “aiuto” in un qualche tipo di moneta spendibile, come si può pensare di aiutare le persone andando oltre il livello delle emozioni?
Quando avevo 29 anni mi è venuto in mente che avrei potuto creare un sito speciale, dove fare un grande regalo ai miei fan in occasione del mio trentesimo compleanno, donando loro alcune registrazioni delle mie canzoni. Poi ho deciso di invitare chi visitava il sito a lasciare delle donazioni in denaro in cambio delle canzoni. Come giustamente accennato nella domanda, le canzoni sono scaricabili gratuitamente (e lo saranno sempre) e l’idea è sostanzialmente quella di consentire a ciascuno di donare qualunque cifra desideri (o anche niente). Con questa iniziativa sono riuscito a trasformare la mia musica in qualcosa di tangibile, come una assistenza medica per un bambino indigente che vive ad Haiti o un cd che qualcuno possa ascoltare in un ospedale. Mi sono sempre sentito come un musicista povero in un paese ricco e ho sempre desiderato dare più di quello che sono stato in grado di permettermi, perciò è bello vedere che alla fine la mia musica possa essere d’aiuto agli altri in più di un modo. Spero con questo di non dare l’impressione di uno che vuole vantarsi o mostrarsi orgoglioso di sé stesso, non vorrei mai dare un’idea del genere... Sto davvero solo cercando di dire che l’essenza stessa delle persone che donano mi infonde una grande forza d’animo e che sono profondamente impressionato da coloro che si riuniscono per aiutare chi ne ha bisogno. I miei fan mi hanno trasmesso molto coraggio attraverso la loro generosità.
Tu sei direttamente coinvolto come musicista in “Musicians On Call”, una delle due associazioni no-profit scelte per il progetto “Happy Birthday Denison”: attraverso delle performance live “ad personam”, infatti, porti la tua musica nelle stanze dei pazienti allettati. Ognuno di noi, presumibilmente almeno una volta nella vita, ha ricevuto grazie alla musica un certo sollievo, anche solo fugace, in un momento di difficoltà. Il musicista in alcuni frangenti è in un certo senso un “curatore d’anime”, o per lo meno le sue canzoni assumono il ruolo di balsamo per chi le ascolta. Cosa ne pensi di questo discorso?
La prima volta che qualcuno è venuto da me dopo un concerto e mi ha detto “Volevo ringraziarti per le tue canzoni.... Sono toccanti, mi danno emozioni intense”. Ho realizzato che erano un po’ le sensazioni che provavo io nei confronti del pubblico e che in quel momento avrei potuto tranquillamente esprimere io a lui la mia gratitudine. Mi sono sentito parte di qualcosa che era molto più grande di me.
La gente ogni tanto dimentica che i musicisti che vede o che ascolta sono essi stessi, a loro volta, degli ascoltatori. Noi siamo anche ASCOLTATORI. Sono stato l’ascoltatore molte volte nella mia vita e continuerò a esserlo. Riconosco che la musica mi ha aiutato molto e spero solo di poter aiutare anch’io la gente allo stesso modo. Non mi sento di essere un “curatore d’anime”, dato che non posso controllare in che modo gli altri reagiscono alla mia musica: possono immedesimarsi oppure no; io cerco di non preoccuparmene troppo e faccio del mio meglio per essere semplicemente sincero e pieno di gratitudine.
Oltre a essere un ascoltatore (come lo sono molti di noi) tu sei anche un musicista, e questo vuol dire che hai la fortuna di poterti trovare alternativamente a rappresentare entrambe le facce della “medaglia donante”. Provando dunque ad osservare questo scambio musicista-ascoltatore dall’angolazione opposta, che cosa riceve un musicista dai suoi ascoltatori?
Essendo stato un ascoltatore, so bene quanto la musica possa aiutare ad attraversare tutti gli alti e bassi della vita. Sapere di essere dalla parte (donante) opposta di questa relazione è una sensazione molto speciale, ed è qualcosa che non si può dare per scontato. Credo che stiamo toccando un argomento molto delicato, sacro, e per me è difficile parlarne senza dare l’impressione di essere evasivo. Mi dispiace, ma riesco soltanto a descriverlo come una silente comprensione reciproca tra le persone, come quella di una vecchia coppia di coniugi che siedono in silenzio perché ciascuno dei due sa già cosa sta pensando l’altro. Non c’è bisogno di parlare: è tutto sottinteso e perciò speciale. Cerco di non pensare a questo aspetto troppo spesso, dato che potrebbe influenzare il mio comportamento e questo sarebbe un disastro, perché distruggerebbe immediatamente la relazione. Cerco sempre di essere sincero con le persone e allo stesso tempo mi aspetto sincerità da parte loro.
Il tuo album più recente, “Are You A Dreamer?”, oltre che nella versione canonica è stato realizzato in una versione a tiratura limitata, contenente insieme al disco un prezioso Ep acustico. Nell’Ep è contenuta l’originaria title track di “Are You A Dreamer?” riproposta come “Are You A Sleeper?”, domanda che dà anche il titolo a tutto l’Ep.
I due titoli si affrontano come i volti di un Giano bifronte, e contrapponendo il sonno al sogno sembrano quasi porre un interrogativo filosofico-metafisico all’attenzione dell’ascoltatore. Sonno o sogno, come a dire: concreto o astratto, realtà o fantasia, materiale o spirituale, terra o nuvole. Esiste, secondo te, un punto di equilibrio (o almeno un compromesso) tra questi due aspetti?
Se consideriamo i testi del mio ultimo album, direi che una buona parte di essi riguarda il compromesso che suggerisci, tra concreto e astratto. Ho sempre avuto la sensazione che la musica fosse un modo di fuggire dall’aspetto materiale della mia vita. A volte, sia quando scrivo che quando ascolto musica, mi sembra di trovarmi quasi in uno stato onirico. In alcuni momenti è come se il tempo mi passasse accanto senza che io me ne renda conto... Del resto, 2+2 non deve sempre fare 4: sono in grado di scivolare nel processo di scrittura musicale e restare lì per ore, e quando ho finito di comporre mi sveglio come se fino ad allora fossi stato dentro un sogno.
L’era dell’informazione nella quale viviamo porta con sé molte pressioni concrete: “Sii certo delle tue affermazioni”; “Dacci tutte le prove”; “C’è una dimostrazione scientifica alla tua risposta?”; “E’ possibile che tu venga in qualche modo smentito?”- questo sembra essere il modo attraverso il quale ci relazioniamo l’un l’altro oggigiorno. Tuttavia, se provi a chiedere a chiunque tu conosca, sono sicuro che ti risponderà che nella vita non è sempre così. Ciò che è concreto ci sfugge sempre e per ciascuna risposta ricevuta c’è sempre una nuova domanda, o anche più di una. Non fraintendermi: io amo le risposte, sono sempre alla ricerca di risposte, ma con il tempo sto imparando ad accettare la possibilità di ricevere risposte diverse da quelle che mi sarei aspettato. La vita è più interessante quando la tua curiosità viene soddisfatta da qualcosa di inaspettato.
Sfogliando il booklet di “Are You A Dreamer?”, dove sono raffigurati la front cover dell’album e i titoli delle diverse canzoni ricamati a maglia, si può leggere: “The artwork you are viewing has been hand-knitted [...] by the patient and never sleeping Kaleen Enke. Additional simpleton knitting by Denison Witmer”. Così, ti scopriamo in un passatempo insolito, che però potrebbe essere la classica punta dell’iceberg, nascondendo magari un interesse per l’artigianato artistico inteso in senso più generale. Come e quando ha avuto inizio questa passione?
Ho iniziato a lavorare a maglia perché desideravo fare qualcosa di diverso dalla lettura quando mi trovavo nel furgone del tour. Mi piace tenermi impegnato con qualche progetto e adoro le attività con un prodotto finale che posso concretamente vedere. Un mio amico stava lavorando a maglia (circa due anni fa sembra che fosse una mania, qui negli Stati Uniti) e mi è sembrata una cosa interessante, così ho provato e mi è piaciuto parecchio il procedimento. E’ molto meditativo, come contare i grani del rosario o qualcosa del genere... Nel frattempo posso ignorare qualsiasi cosa e starmene semplicemente seduto a pensare. E’ anche carino essere capaci di farsi i propri guanti, cappelli, sciarpe e calzini. (sorride)
Apprestandoti a registrare il tuo nuovo album in studio, hai deciso di coinvolgere interattivamente i tuoi fan attraverso l’aggiornamento periodico di un profilo su Flickr, creato appositamente per l’occasione, pubblicando fotografie relative alle varie fasi di registrazione. Com’è stata questa esperienza?
Ho idea che questa risposta non sarà troppo interessante per te. (ride)
Purtroppo sono stato talmente impegnato a registrare che molte delle foto della fase di registrazione non sono state mai fatte oppure non sono state ancora pubblicate su Flickr. Amo la fotografia e ho una collezione enorme di macchine fotografiche. Ho creato la pagina su Flickr principalmente per postare tutte le mie foto del tour, quelle delle registrazioni e più in generale le foto che riguardano momenti della mia vita. Quando avrò un momento di calma, non appena riuscirò a dedicare una giornata al computer (per il quale ho poca pazienza, visto che odio stare a fissare lo schermo di un pc), caricherò tutte le mie foto su Flickr.
Potresti darci qualche anticipazione sul nuovo album?
L’album si chiamerà “Carry The Weight” e includerà due differenti versioni della title track: una con il gruppo e l’altra acustica. Nel complesso si tratta di un album fortemente “di gruppo”, con un suono un po’ più pieno ma in ogni modo molto simile a quello del mio ultimo album “Are You A Dreamer?”. L’ho registrato a Seattle, con il produttore e amico Blake Wescott (Saltine, Damien Jurado, Pedro The Lion). Alla batteria c’è il mio amico James McAlister (che è stato batterista in “Are You A Dreamer?” e suona anche con Sufjan Stevens), mentre Rosie Thomas mi accompagna in veste solista nella maggior parte dei brani. “Carry the Weight” sarà pubblicato a settembre od ottobre di quest’anno.
Per concludere, vorrei chiederti un piccolo regalo, se posso osare. Oggi non è il tuo compleanno, né il mio, né probabilmente quello della maggior parte dei lettori di OndaRock. Ma prendendo spunto da “Alice Nel Paese Delle Meraviglie”, mi piacerebbe poter festeggiare questa giornata di “non-compleanno” con qualcosa di speciale. Potresti donare ai lettori di OndaRock un tuo brano live non ancora pubblicato, come regalo per questo non-compleanno? In tal modo, ne sono certa, questa diventerebbe una giornata dolcemente luminosa, indimenticabile.
Certo. In questo momento sono in tour negli Stati Uniti con The New Frontiers, miei compagni di etichetta. Mi farò aiutare da loro a registrare una o due tracce live durante questo tour e te le spediremo. (sorride)
Epilogo.
Denison è stato di parola, e il 30 giugno 2008 il regalo per i lettori di OndaRock si è magicamente materializzato: si tratta di due brani inediti in esclusiva per OndaRock, registrati in versione live durante un concerto al Southpaw di Brooklyn l’11 giugno 2008.
Buon non-compleanno (o compleanno, se è questo il caso) da parte di Denison Witmer.
Denison Witmer – Carry The Weight (live @ Southpaw)
Denison Witmer – Life Before Aesthetics (live @ Southpaw)
(10/07/2008)