Cantautore tra i più raffinati della storia del rock, scrittore di musiche e liriche tanto profonde quanto memorabili, Jackson Browne si può considerare come l’anello mancante tra la purezza disarmante di Nick Drake e l’ascetismo indocile di Neil Young. Stimato e rispettato in America (la sua patria adottiva), misconosciuto in Italia; è partito da un folk-rock aulico per avvicinarsi sempre di più a una ballata "da camera" esistenzialista, intrisa di un chitarrismo flebile e suadente.
Dopo le collaborazioni nei 60 con Nico, Tim Buckley e Byrds e nei primissimi 70 con Eagles e Nitty Gritty Dirt Band, arrivò all’esordio solista nel 1972 con un album omonimo.
"Late For The Sky" è il suo terzo disco, quello della definitiva maturazione di un musicista colto e sensibile. Coadiuvato da un gruppo eccelso (David Lindley alla chitarra, Doug Haywood al basso, Larry Zack alle percussioni e Jai Winding all’organo), Browne dà vita a un disco suonato e arrangiato in modo impeccabile, anche grazie al lavoro di Lindley, uno dei chitarristi più geniali della storia del rock, che con il suo strumento, quello che di solito nel rock è il più narciso, preferisce prodigarsi in ricami e intarsi sonori sopraffini piuttosto che lasciarsi prendere da manie di vuoto esibizionismo.
L’apertura della title track è una delle più toccanti di sempre, con un organo struggente e la voce di Browne limpida e malinconica, e poi quelle poche note di piano dove sembra coagularsi tutta la solitudine umana e per contrasto un inspiegabile bisogno d’amore. Infine, l’assolo di Lindley, che usa la chitarra come Orfeo usava la lira, capace di far sciogliere il cuore anche alle bestie dell’inferno. "Such an empty surprise to feel so alone" ("Che vuota sorpresa sentirsi così soli") canta Browne in quella che è forse la più bella canzone d’amore e di perdita mai scritta.
"Fountain Of Sorrow" non cambia il tono elegiaco della prima traccia e nonostante il ritmo sia (delicatamente) più sostenuto, restano la malinconia e il canto puro di Browne da ultimo profeta dei sentimenti. In "Further On" David Lindley raggiunge l’apice del suo stile chitarristico: il suo strumento non suona; letteralmente piange. Il suo è un lavoro di paziente cesello sulla melodia disperata intonata da Jackson al piano.
Si arriva a metà disco con la forbita "The Late Show", canto corale di una profondità mistica e quasi ecumenica, con tripudio dell’indelebile chitarra di Lindley nel finale. "The Road And The Sky" è una cavalcata spensierata on the road, un rock'n'roll nobile, con le chitarre che per la prima volta nel disco si inaspriscono, mentre la precedente compostezza del pianoforte si trasforma in un boogie scalmanato. Si ritorna alla mestizia, anzi al dolore, con "For A Dancer", canzone per un amico scomparso, dove il clima luttuoso è ben espresso dal violino, suonato ancora dall’imprescindibile Lindley.
Con "Walking Slow" si cerca di esorcizzare nel ballo le tribolazioni della traccia precedente: il basso ammicca al funk, il clapping sostiene il ritmo e l’assolo pirotecnico della chitarra di Lindley suggella il pezzo.
Si chiude con il manifesto antinucleare di "Before The Deluge": "Some of them were dreamers/ Some of them were fools" ("Alcuni di loro erano dei sognatori/ Alcuni di loro erano degli stupidi"), l’incipit del testo è l’epitaffio sulla tomba della speranza, l’abbattimento totale delle illusioni hippie che Jackson Browne aveva sostenuto, e nel contempo monito estremo a un’umanità a due passi dalla catastrofe. Un requiem per organo e viola a descrivere la desolazione del mondo che si chiude in un gospel salvifico: in fondo al baratro c’è ancora speranza.
Con questo disco Jackson Browne si pone come cantore della quotidianità, della società e della collettività, i suoi dolori e le sue malinconie sono in fondo quelle di tutti gli uomini, accomunati dalle medesime gioie e miserie. "Late For The Sky" è un disco popolare nel senso più stretto del termine: è di tutti perché è sentito da tutti. Solo Dylan prima e Springsteen poi sono riusciti a creare opere simili.
07/03/2007