Dopo il debutto-shock con "Dell'impero delle tenebre", nella seconda prova ("A sangue freddo") il Teatro degli Orrori sembra aver virato verso una scelta stilistica che smussa gli angoli, lasciando da parte il folle impeto noise per un più ragionato (ma a volte non meno rabbioso) furore rock, lasciandosi talvolta andare anche a una ricerca melodica e a citazioni del cantautorato italiano più classico. Una ricetta che li ha consacrati come la realtà del momento nel panorama alternative-rock italiano. Abbiamo raggiunto il leader e cantante della band veneziana formata dagli ex One Dimensional Man, Pierpaolo Capovilla, che ci ha concesso questa intervista.
La musica di "A sangue freddo", complessivamente, continua e arricchisce di sfumature il suo predecessore, "Dell'impero delle tenebre". Quali sono stati gli ascolti e i motivi ispiratori tra i due dischi?
Non saprei. Non ascolto cose nuove da molto tempo, e ben difficilmente mi lascio influenzare da ciò che fanno gli altri. Un "motivo ispiratore" credo potrebbe essere il paese in cui viviamo, sempre più brutto, più bugiardo, più ignorante. Di fronte a tanta ipocrisia, mi vien spontaneo scrivere delle canzoni. E' più forte di me. Credo di poter dire che questo nuovo lavoro è più raffinato del precedente. E' merito di Giulio (il bassista e produttore dell'album Giulio Favero, ndr).
Il disco suona più smaccatamente rock: compresso e diretto. Cercare un sound più accessibile fa parte di una maturazione artistica (che prende con sé anche i lavori degli One Dimensional Man), oppure è l'attitudine specifica ed esclusiva di questo lavoro?
Non c'è dubbio che abbiamo cercato di fare un disco più classicamente rock, e di allontanarci dai cliché del noise. Sono certo che si tratta di maturazione artistica. Dopo tutto ormai ho quarant'anni, e alla mia età ti senti inevitabilmente spinto a cercare soluzioni diverse. Mi vien spontanea una considerazione: "A Sangue Freddo" è un disco in cui Giulio ha avuto una parte preponderante, tanto nella composizione, quanto negli arrangiamenti. Giulio non è solo il bassista del gruppo, ma un vero produttore artistico: ha curato ogni aspetto della sua realizzazione: le riprese, i missaggi, la masterizzazione, tutte le collaborazioni esterne. Trentatré giorni alle Officine Meccaniche: è stata un' esperienza avvincente e terribilmente faticosa: ne valeva la pena.
La lingua italiana è all'origine di questo progetto, o ne è una conseguenza? La sensazione è che si sia volutamente cercata una maggiore immediatezza, in relazione ai tempi che corrono. È così?
Ho scoperto quanto è bello cantare in italiano solo qualche anno fa. Bello perché finalmente chi ci ascolta comprende ciò che dico: è l'unico modo per arrivare al cuore delle persone. Comporta inoltre anche un rapporto diverso fra la canzone e chi la scrive, essendo la lingua inglese un "media" fra ciò che pensi e ciò che dirai. Con l'italiano, è tutta un altra storia...
Mi viene da sorridere, quando sento dire che fare rock in italiano è difficile. Io non ci vedo niente di complicato: con One Dimensional Man dovevo impazzire, per scrivere canzoni che mi soddisfacessero, ora è tutto... più facile!
Rispetto a una consistente "fuga di cervelli" nostrani (anche nella musica indipendente: Zu e Bloody Beetroots, per fare due nomi), il vostro è un caso eccezionale. Non credi che l'italiano vi trattenga in un paese che certo non sta aiutando la musica e le forme d'arte in genere?
Con il personale politico che ci ritroviamo, la cultura sta andando a scatafascio. Non ricordo un governo peggiore nella storia dell'Italia repubblicana, non ricordo tanta incompetenza e demagogia.
Ma che vuoi che m'importi di ciò che i governi e le amministrazioni fanno o non fanno per la musica, per il teatro, per l'arte in genere! Non ho mai avuto alcun aiuto da chicchessia. Sono felice di vivere in Italia e di esserne un cittadino. Non mi sento "trattenuto", mi sento piuttosto inevitabilmente coinvolto. Siamo qui per lottare. Per cambiarlo, questo disgraziato paese.
Hai detto che ciò che ti interessa profondamente è descrivere la società: nel disco mi pare effettivamente che ci sia al centro l'Alterità in tutte le sue dimensioni relazionali di odio, amore, rabbia, invettiva. L'obiettivo è esclusivamente descrittivo, oppure al fondo dei tuoi testi si nasconde una proposta sociale di relazione con l'altro?
Tutta la disperazione che si nasconde nelle nostre canzoni sottende un desiderio di riscatto e di emancipazione: se non fosse così, non varrebbe la pena di cantarle, queste canzoni... Sono convinto che una buona canzone, dotata di autenticità e di contenuto, possa contribuire al miglioramento della società. La buona musica ha sempre un valore progressivo. Negli anni 70, De André, De Gregori, Bennato, mi verrebbe da dire persino Finardi, Ivan Graziani, la Pfm, il Banco del Mutuo Soccorso: questi autori parlavano alla gente, narravano il paese e le sue contraddizioni, erano società civile viva, propositiva, impegnata socialmente. Erano certo tempi di grandi speranze; si potrebbe ripartire da qui, dalla speranza.
Il canto per Ken Saro Wiwa sembra avere a che fare con il potere della parola: questa libertà di urlare il proprio dissenso, anche con la musica, può cambiare le cose? Credi in questo senso che la poesia possa conoscere una sorta di nuova stagione?
La poesia ci salva dalla mediocrità delle nostre esistenze. Non da ieri, sono convinto che sì, la musica contribuisce a cambiare lo stato delle cose. Fare musica rock, significa concorrere alla costruzione dell'immaginario collettivo, dunque alla vita delle persone.
Una nuova stagione per la poesia? Perché no? Ma io non sono un poeta, io sono il cantante de Il Teatro degli Orrori: scrivo canzoni, forse con una certa di tensione poetica, ma pur sempre canzoni. Se vogliamo un poeta, andiamo a trovare il mio conterraneo Andrea Zanzotto, o chiediamo lumi alla compianta Alda Merini.
"E' colpa mia" pare, musicalmente, un tributo alla stagione dell'indipendente italiana anni Novanta: Afterhours, Marlene Kuntz, Ritmo Tribale, Subsonica... Che cosa è cambiato rispetto a quindici anni fa nel mondo indie italiano?
Un tributo alla musica indipendente italiana degli anni Novanta... Non mi sarebbe mai venuto in mente! Non me ne vogliano i sopracitati, ma nei Novanta io ascoltavo Scratch Acid, Birthday Party, Jesus Lizard, Big Black, Rapeman, Killdozer, Butthole Surfers, No Means No, Fugazi... Tutto, ma non gruppi italiani. Non ho mai ascoltato neppure i Cccp. Li vidi dal vivo un paio di volte: una figata.
La Tempesta è l'esempio più felice di come la sincerità e la qualità siano ben ripagate: nessun compromesso, nessun artefatto, fiducia nel prodotto artistico in sé. Tutte cose che le major non hanno mai saputo fare, tanto meno adesso. Non è che forse si vende meno anche per questo? In tal senso, c'è chi sostiene che puntare oggi su etica e qualità alla lunga premi. È anche la tua opinione?
Sì, sì, e ancora sì. Si vende meno perché non c'è qualità, né onestà intellettuale. "A sangue freddo" sta vendendo bene. Qualcosa sta cambiando. Vasco Brondi, Giorgio Canali, Moltheni, gli artisti de La Tempesta fanno tutti buona musica e, in un modo o nell'altro, sento delle affinità elettive con essi. La Tempesta è un gruppo di persone che amano la musica, vocazionali, fanno ciò che fanno per amore. Questo fa dei ragazzi de La Tempesta non soltanto dei partner affidabili, ma anche degli amici di cui ci si può fidare.
Fare musica in Veneto: sembra che negli ultimi tempi questa regione stia esportando tanto - e ottimo - materiale artistico. Un rigetto sociale dello stilema casa-lavoro-casa tipicamente nordestino, oppure un suo frutto diretto?
Me ne frego bellamente di esser veneto e di vivere in mezzo a questa gente. Lo stile di vita del nord-est non mi si confà, né oggi né mai. Vivo a Venezia, città meravigliosa e perla della regione, e mi sento fortunato, perché Venezia, con tutta la sua gretta ignoranza, resta pur sempre un'eccezione. Mi sento cittadino del mondo, e rigetto ogni localismo. Certo, il nord-est è un perfetto esempio di come benessere e progresso economico non portino con sé necessariamente un miglioramento culturale nella società. E non c'è dubbio che la nostra musica nasca dall'insofferenza che proviamo di fronte all'inutile operosità di questa gente. I miei genitori fecero grandi sacrifici per farmi studiare, mi volevano laureato, perché desideravano un figlio migliore, più cosciente e consapevole della loro generazione. Oggi, qui in Veneto, sembra che nessuno pensi più al futuro: viviamo in un eterno, stupido presente.
Quali sono le prospettive future del Teatro? Ci dai qualche anticipazione?
Di fronte a noi c'è un'interminabile tournée. Questa è la prima cosa di cui dovremo preoccuparci. Faremo un nuovo videoclip in gennaio, progettiamo un disco acustico per la fine del 2010. Ma è presto per nuovi progetti.