È uscita, contemporaneamente in Inghilterra e in Italia, la prima autobiografia dei Dire Straits, dal titolo "La mia vita nei Dire Straits", ad opera di John Illsley, membro fondatore, bassista e colonna portante del gruppo rock britannico (con prefazione del leader Mark Knopfler). Ne abbiamo approfittato per fare una chiacchierata con Illsley al telefono da Londra. Con grande disponibilità e affabilità, il musicista inglese che ultimamente affianca alla sua attività principale quella di pittore, ci racconta la sua storia. Lasciando filtrare una punta d'emozione nella sua flemma tipicamente British. Si percepisce che questo libro (tradotto da Grazia Brundu nell'edizione italiana per Epc Editore) nasce da un groviglio di ricordi e sentimenti che hanno segnato una vita.
A tanti anni dallo scioglimento della band, ti sei deciso a scriverne la storia: come mai?
È nato tutto da una serie di circostanze. Mi sono trovato a parlare con un'agente letteraria a uno dei miei show e lei mi ha proposto di raccontare la storia delle band in un libro. Ripensando a quegli anni, ho riflettuto sulla particolarità della nostra storia. È stato incredibile, folle ciò che abbiamo fatto. Un gruppo di amici che passa in pochi anni dai concerti sotto casa a Live Aid e ai tour nelle arene da 6 milioni di spettatori... Siamo stati molto fortunati a sopravvivere a tutto ciò! Ho voluto raccontarlo per far capire a tutti come la vita a volte possa coglierti di sorpresa. C'è sempre l'occasione di inseguire i sogni e cambiare vita, è un po' questo il messaggio del libro.
Nel libro racconti che all'inizio è stata dura. Non era casuale, insomma, la scelta del nome "Dire Straits" (traducibile come "terribili ristrettezze").
Sì, vivevamo in un piccolo appartamento, molto umile, ma era il massimo che ci potevamo permettere a quel tempo. Il suono dei Dire Straits è nato davvero in quella minuscola stanza. Penso che quegli umili inizi ci abbiano detto qualcosa della vita reale, ci abbiano aiutato a tenere sempre i piedi per terra.
E il vostro primo live fu davanti casa, a Deptford, il vostro quartiere a Londra, collegati a un cavo elettrico dal vostro appartamento...
Sì, avevamo attaccato tutto alla presa di casa. C'era un gran vento e buona parte del suono finiva dietro di noi, ma eravamo talmente entusiasti di suonare insieme per la prima volta che non ci facevamo neanche caso. Era un festival punk, suonavamo in mezzo a tutti questi gruppi punk, una cosa un po' strana...
...per voi che eravate agli antipodi: perché sceglieste di puntare sul rock classico in piena esplosione punk?
Non è stata una vera scelta, è quello che è venuto fuori quando abbiamo iniziato a suonare insieme. Non volevamo seguire una moda come il punk, ma solo suonare la musica che amavamo. Però era difficile fare gig all'epoca, perché tutti volevano le band punk, anche se il nostro nome, Dire Straits, lasciava intendere che fossimo proprio una punk band!
Del resto, nel libro racconti che il primo 45 giri che hai acquistato è stato "Please Please Me" dei Beatles.
Eravamo tutti cresciuti con ascolti molto classici: gli anni Sessanta inglesi - Beatles, Who, Kinks, Rolling Stones - ma anche tanto rock americano che ascoltavamo a Radio Luxemburg: Elvis Presley, Chuck Berry, Buddy Holly, Bob Dylan. Era questa la musica che ci entusiasmava, volevamo essere parte di tutto questo. E io capii che il basso era lo strumento giusto per me.
Com'è nata la tua intesa speciale con Mark Knopfler?
A volte capita di incontrare qualcuno e di capire immediatamente che sarà tuo amico a lungo. Noi ci siamo conosciuti nell'aprile del 1977, quando Mark si è trasferito nell'appartamento che suo fratello David condivideva con me. Abbiamo capito subito che saremmo diventati amici per tanto tempo. Avevamo stessi gusti, stessa visione della vita, stesso humour... insomma, ci piacevamo a vicenda (e succede ancora). Tra noi c'è stato subito un feeling spontaneo, suonavamo sempre assieme, anche se all'epoca eravamo in due band differenti. Così abbiamo deciso di unire le forze. Mark ha iniziato a scrivere tantissimo e così sono nati i Dire Straits. Lui è davvero un grande musicista e songwriter.
Quando hai capito che avreste avuto successo?
La prima volta che abbiamo capito che qualcosa di insolito stava accadendo è stato quando la casa discografica ci disse che avevamo venduto 25mila copie del primo album in Olanda: era strano, non eravamo più soltanto un piccolo fenomeno inglese, voleva dire che stava succedendo qualcosa di importante. E subito dopo abbiamo iniziato a vedere che ci seguivano anche in Germania, in Francia, in Italia...
E dall'Olanda avete fatto il giro del mondo... Cento milioni di copie vendute, tour in ogni angolo del pianeta.
Forse perché la musica dei Dire Straits parla un linguaggio universale: funziona in Israele, come in Grecia, in America come in Nuova Zelanda, in Italia come in Spagna... ovunque. Abbiamo creato un suono unico, molto particolare e immediatamente riconoscibile. Forse anche questo ha contribuito a far sì che la gente potesse appassionarsi a noi e seguirci in questo modo.
Il tuo tour del cuore?
Il primo negli Stati Uniti, con 58 show in 38 giorni, tra San Francisco e New York. Scoprimmo il sapore dell'America per la prima volta e fu fantastico. Poi, certo, Live Aid a Wembley nel 1985 fu straordinario. Ci saranno state un miliardo di persone e non capita tutti i giorni di suonare con una platea del genere. Sul palco non credevamo ai nostri occhi, per fortuna eravamo già in tour e molto rodati: ci aiutò a superare l'emozione.
E il disco?
Tutti unici, speciali allo stesso modo per me. Ma certo "Making Movies" fu un lavoro straordinario.
I miei preferiti invece sono l'esordio e "Brothers In Arms"...
Eh certo, ottimi anche quelli!
Cosa pensi del progetto Dire Straits Legacy, la cover band con Phil Palmer e Alan Clark?
Non mi dà fastidio che portino in giro le nostre canzoni, se fanno un buon lavoro, per me non c'è niente di male. Però credo che un musicista dovrebbe fare qualcosa di suo piuttosto che limitarsi a ripetere qualcosa che è già stato fatto da altri.
In questi anni proliferano le reunion di band storiche... e i Dire Straits?
No, non se ne parla. Io faccio i miei dischi solisti, Mark i suoi. Ma restiamo sempre amici. Ci sentiremo anche stasera!
(Versione estesa di un'intervista pubblicata sul quotidiano Leggo)