Nei momenti migliori (pochi), il disco aggiunge qualche gioiellino al repertorio country-folk del cantautore; nei peggiori (troppi), colleziona una serie di pezzi d'antiquariato suggestivi, ma stantii. La prima impressione lascia pochi dubbi: forte del successo - superiore peraltro ad ogni aspettativa - di "Sailing to Philadelphia", l'ex-leader dei Dire Straits ha puntato tutto su una riproposizione degli stessi ingredienti. In realtà il piccolo inganno dura solo tre brani, iniziando dall'agit-prop minaccioso di "Why Aye Man", proseguendo per il pulitissimo (ma meno ispirato) country-folk di "Devil Baby" e terminando con i toni apocalittici della melodia di "Hill Farmer's Blues" che incupisce, assieme ai sussulti elettrici, un giretto di acustica più limpido e sereno.
Al di là delle singole particolarità è facile ravvisare come, fino a questo momento, la formula non sia mutata di una virgola rispetto al fortunato album del 2000: grande il fascino dell'ambientazione, cura della melodia (raffinata quanto orecchiabile), collaudata vena di storytelling; la somma fa tre piacevoli ballate campagnole non troppo inadatte per un passaggio radiofonico ma, al tempo stesso, percorse da un brivido esistenziale, e per questo più intense. Non promette bene, piuttosto, il fatto che nessuna delle tre sia all'altezza di "What It Is", brano apripista di "Sailing", sebbene l'intento sia proprio quello (ascoltare, per credere, la variazione melodica di "Why Aye Man"). Destinato a questo punto a declinare nella stessa monotonia che circoscriveva il disco precedente più di quanto avrebbe dovuto, Knopfler cambia registro.
"A Place Where We Used To Live" è l'esatta trasfigurazione musicale del disegno di copertina: un ballo dei tempi andati rispolverato dall'album dei ricordi attraverso un folk dai contorni opachi e consunti, una malinconica sonata notturna all'insegna della rievocazione, mentre una lacrima solca furtiva una guancia non più liscia come una volta. È l'unico brano dell'album che valga davvero la pena di ascoltare, ma anche l'inaugurazione del revival cantautorale che perdurerà fino alla fine svelando, a poco a poco, l'essenza vera e propria del progetto: una ricostruzione a mosaico di una storia antica che parte in Inghilterra e approda in America (ma musicalmente fa l'esatto contrario, appropriandosi della roots music americana e reinterpetandola con gusto britannico), rivissuta nelle sue mille sfaccettature emotive, con un'oscillazione di umori e di generi che è forse l'elemento più interessante del disco.
Si tratta, da un certo punto di vista, della versione "inglese" del "Love And Theft" di Dylan (2001), ma è un paragone piuttosto scomodo perché, se il collega americano impiegava tutta la sua maestria compositiva per fare della sua operazione di restauro un contenitore di canzoni "classiche" al limite della perfezione, "The Ragpicker's Dream" si concede troppo spesso pause di modesto divertissement che non portano l'ascoltatore oltre alla tenue curiosità. È il caso dell'imbolsito swing da saloon di "Quality Shoes" (che si ripete inspiegabilmente più tardi in "Daddy's Gone To Knoxville"), dell'ambientazione favolistica della title track (un po' alla Tom Waits, ma assai più banale), del macchiettismo elegante di "Coyote", del pizzicato country scarnissimo di "Marbletown", tutti brani che, peraltro, sfuggono solo fino a un certo punto alle formule ultra-collaudate del cantautore, incapace ormai di stupire.
In mezzo a questa fiera del retrò si fa notare soltanto "You Don't Know You're Born", un inaspettato pop dai sapori caraibici che si tuffa in un finale di paesaggi surf alla Brian Wilson; ammaliante, ma appropriato quanto un brivido caldo in autunno. Ammesso che fosse realistico parlare di "seconda giovinezza" per un lavoro come "Sailing To Philadelphia", questo pare decisamente il disco della vecchiaia, una vecchiaia certamente gloriosa, ma non più in grado di divertire - e divertirsi - come un tempo.
28/10/2006