Massimo Zamboni - Dal punk a Pasolini

intervista di Elena Messana

Il 31 gennaio è uscito il nuovo album di Massimo Zamboni: “P.P.P. - Profezia è predire il presente”. Il filo conduttore del progetto è l’ultima fase della vita di Pier Paolo Pasolini, con la sua tragica morte. Il progetto nasce da un reading-concerto organizzato a Firenze dal Gabinetto Scientifico Vieusseux nel settembre del 2024; alla produzione dello spettacolo ha fatto seguito l’album realizzato per Le Vele-Egea Records e distribuito dalla piattaforma Rizosfera.
“P.P.P.- Profezia è predire il presente” contiene tredici tracce: tre brani inediti, tre rivisitazioni (Giovanna Marini e Josè Afonso) e alcuni brani riarrangiati dell’autore. Massimo Zamboni è affiancato da due musicisti che collaborano con lui già da diversi anni: Erik Montanari alla chitarra e Cristiano Roversi che suona tastiera, stick e basso.
Massimo Zamboni è un musicista e scrittore instancabile: è appena partito ufficialmente da Parma il tour legato al nuovo album ed è in arrivo un suo nuovo libro; intanto i Cccp, dei quali Massimo è stato fondatore e chitarrista, hanno appena annunciato la loro “ultima chiamata” e il commiato dal loro pubblico. Quest’intervista è stata l’occasione per farci raccontare da Zamboni i suoi progetti, tutti accomunati da una visione lucida e profonda delle cose.

Come è andato il concerto di ieri sera a Parma, al Colonne 28? Sono sempre particolari i posti che scegli.
Tante volte mi scelgono i posti, più che poter scegliere io. Quella di ieri sera a Parma è una chiesa sconsacrata molto bella dedicata a eventi di varia natura e si crea proprio un'intimità molto forte, sembra di essere in una specie di capsula. Non è uno spettacolo per cuori leggeri, è molto... molto drammatico, molto intenso per le parole di Pasolini, per le canzoni, e d’altra parte è uno spettacolo che accompagna un uomo come lui alla sua scomparsa, non può avere un tono scherzoso o di intrattenimento. Però per qualche strana alchimia alla fine si esce sempre abbastanza rinfrancati, non saprei neanche io dire come mai.

L’album “P.P.P. - Profezia è predire il presente” ha un duplice effetto su chi lo ascolta: da una parte, c'è un senso di mancanza di aria, di via d'uscita. Però dall'altra ci sono dei brani che dichiarano una gran voglia di restare, di darsi da fare. Se così non fosse, non avrebbe senso neanche il tuo ruolo di autore, di intellettuale, di musicista.
Pasolini parlava raccontando di sé con disperata vitalità e questo credo che sia un album disperato e vitale insieme: disperato perché appunto conduce una persona, un intellettuale come lui, all'estinzione, alla scomparsa, all'uccisione; allo stesso tempo ti rendi conto che non è un percorso mortifero, anzi è un percorso di vitalità assoluta perché è in nome di questa vitalità, in nome dell'amore, del paesaggio, della cultura, del linguaggio, di un'idea di mondo, che Pasolini ha dovuto accettare questo percorso. Ci sono canzoni che più di altre mettono il punto su questo, come “Grândola vila morena”eVorremmo esserci”; ci sono esternazioni di partecipazione e di voglia di cambiamento. Ce ne sono tante che non nascondono l'uccisione: una, in particolare, è una canzone che ho tenuto in mente per 5-6 anni prima di decidermi a registrarla, ed è “Tu muori”, che già dal titolo aspettava un suo protagonista, non può essere una canzone fondata sulla bellezza della musica o delle parole. Si doveva incrociare con Pasolini e doveva raccontare in maniera così spaventosa dall'interno quello che accade a un corpo come il suo, quando viene bastonato, picchiato, ucciso e investito con un'auto. Fino a questo canto di isolamento finale che è “Persona non grata”, che è un altro punto molto forte, quelli che ti fanno tenere il respiro perché non c'è più niente, non c'è più redenzione, non c'è più speranza, non c'è più il passato, non c'è più il futuro, non c'è più nessuna voce dentro: questo racconta la canzone.

Nel tempo ti sei costruito un modo di raccontare e di cantare molto personale. Qui mi sembra che ci siano dei riferimenti musicali ben precisi: da una parte, senz'altro, c’è la musica popolare di Giovanna Marini e di Josè Afonso, per me molto toccante. Dall'altra ci sono anche altre sonorità più moderne: in “Persona non grata” mi pare ad esempio di sentire gli Einstürzende Neubauten di “The garden”… è una mia sensazione oppure c’è un fondamento? Del resto, i Neubauten sono sempre stati un tuo punto di riferimento.
Per quello che riguarda la musica popolare è stato un po' ritrovare la via di casa, io ho cominciato ad ascoltare musica da ragazzo, a cercare la musica che pensavo mi rappresentasse, a partire dalla musica popolare. Quello era un periodo di grande fermento rispetto alla scoperta del mondo popolare, eravamo a metà degli anni 70 e mi sono formato su quelle canzoni, su Giovanna Marini, sul Canzoniere italiano, su Giovanna Daffini, anche su Josè Afonso che canta “Grândola vila morena”. L'anno della rivoluzione portoghese era un anno di grande sboccio anche per me, in qualche modo mi sembrava di avere per la prima volta incontrato il mondo, quindi è diventato un po' uno dei miei inni. Avevo comprato l'album, l'ho ascoltato e consumato per tanto tempo. Questo si innesta con la sensibilità più moderna, sicuramente “The Garden” dei Neubauten c’è. In un certo senso ci sono anche Nick Cave, Patti Smith, anche come riferimenti ideali, come individualità molto forti, molto scure; mi sembra che sia la modalità migliore per affrontare il tempo che passa e anche quello che voglio raccontare.

Massimo ZamboniTu hai fatto un percorso bellissimo con la tua voce. Quando eri nei Cccp e nei Csi, io non mi sono mai resa conto del fatto che tu non cantassi o cantassi poco: eravate coesi, eravate una cosa sola. Forse solo una volta, in un'intervista del primo periodo dei Csi, durante la registrazione di “In quiete”, Giovanni ha fatto notare che non cantavi mai. E quella è stata la prima volta che me ne sono resa conto. Passato quel momento, da quando hai cominciato la tua attività da solista, hai fatto un cammino notevole: prima hai fatto interpretare le tue canzoni a delle voci femminili e poi hai dato tu alle tue canzoni la tua voce, che si è aperta, è diventata sempre più espressiva.  In quest’ultimo album, in particolare, si sente che la tua voce è calda, è aperta e ci sono delle sfumature, da una parte nelle canzoni di Giovanna Marini ma dall'altra, ad esempio, anche in “Tu muori”, in “Persona non grata”, dove si avverte che è successo qualcosa. C’è un cammino particolare che hai fatto in tal senso?
(sorride, ndr) Grazie, questo mi conforta. Sì, negli ultimi 25 anni mi sono trovato come Pasolini, persona non grata, a cantare un isolamento molto duro. E in questo passare attraverso il foro della clessidra… pian piano accumuli i granellini che prendono la consistenza della montagna; io sto cominciando a somigliare a quella montagna di granellini, perché ho sempre più consapevolezza della voce, sono stato aiutato anche da un paio di polmoniti, in questo, che mi hanno costretto a pensare, a rendere un po' più grave il tono, a crederci. Questa è la cosa più importante, perché quando canti, non è tanto il saper cantare, è proprio il pensare di potercela fare. Io so di potercela fare, non suono quasi più la chitarra, ad esempio. L'ho affidata quasi interamente a Erik Montanari che suona con me da anni, perché quello che devo scoprire è più legato alle mie corde vocali che alle corde amplificate. È un processo di raggiungimento di un me che non conoscevo, che fino a una considerevole età anagrafica non ha mai pensato o voluto manifestarsi. Io non ho mai parlato, figurati se mai potevo cantare. Ho cominciato a cantare negli ultimi anni, in qualche modo la svolta c'è stata con l'album “La mia patria attuale” del 2022 e adesso mi sento molto sicuro in questo. Sicuro vuol dire che devo farlo secondo il mio modo, secondo il mio respiro e le mie intenzioni. Però mi trovo a cantare in auto - da solo naturalmente, perché sono ancora molto riservato in questo - canzoni di altri artisti che ascoltavo quando avevo 17- 18 anni. Ma pensa, riesco a cantarla! Ma se io a 18 anni avessi potuto fare queste cose, pensa come sarebbe cambiata la mia vita? Magari le sapevo già fare ma non ho mai avuto l'occasione di manifestarlo neanche a me.

Mi colpisce il fatto che anche in quest'album sia presente “Sorella sconfitta” (2004) che, come tu hai avuto modo di dire, riproponi spesso, magari in altre versioni, perché quello è stato il tuo punto di partenza per questo nuovo cammino. “Mi hai dato gli occhi, un microfono in mano e il coraggio per poterlo cantare” è un verso bellissimo.
Quella canzone è proprio il foro della clessidra di cui parlavo prima. Insomma, superata quella, si è aperto un mondo che si è costruito pian piano. È la canzone che mi accompagna continuamente, perché si adatta a tutti gli aspetti della vita. Incrociandosi con Pasolini, ha trovato un'ulteriore ragione di esistenza quando lui manifesta il suo disprezzo per la vittoria e consiglia alle giovani generazioni di ascoltare il valore della sconfitta: ci ritroviamo molto allineati su questo. Quella canzone parla anche di un ritiro della parte abitata del corpo dietro la linea degli occhi, quindi quasi un abbandono della parte fisica. Mi piace pensare che sia un po' la canzone dell'invisibilità, dove tutto quello che tu sei si racchiude dietro la linea degli occhi e il corpo rimane abbandonato alla deriva, non è più te. La canzone dice che il mio corpo è un passaporto falso, è quello che viene visto, che viene guardato dagli altri ma è un documento falso, non è l'identità vera. L'identità vera è ben nascosta e si manifesta in altre modalità.

In questo album citi apertamente due titoli di opere di Pasolini. Uno è “Le belle bandiere” e l'altro sono gli “Scritti corsari”. Per quanto riguarda questi ultimi, c’è un articolo di Pasolini che parla della fine delle lucciole, è quello che si intitola “Il vuoto del potere in Italia”. E mi aveva colpito moltissimo questa immagine della fine delle lucciole per indicare la fine di una civiltà e anche proprio un cambio antropologico degli italiani. Al punto che io, che abito in città e che quindi le lucciole non le vedo mai, poi andavo a cercare le lucciole in campagna per vedere se ce n’erano ancora… Secondo te, c'è la possibilità che tornino le lucciole? Oppure siamo persi in questa società che non solo è una società dei consumi, come diceva Pasolini, ma è una società che annulla la capacità di pensare perché ci appaga con quello che ci aspettiamo di vedere e che ci piace vedere.
Io abito in un posto dove ci sono le lucciole in mezzo alle montagne, in mezzo ai campi, non uso diserbanti o antiparassitari da almeno 25-30 anni, quindi le lucciole ci sono. Ho notato, però, che non ci sono più gli anfibi, non ci sono più i rettili, ci sono pochissimi uccelli e questa è una zona altamente boschiva e di prati, non ci sono neanche le api. Quando ci sono le fioriture come quella del rosmarino, c'è silenzio ed è abbastanza impressionante, perché questa è una zona molto naturale, quindi figurati nelle città o nelle campagne antropizzate. C'è questa accettazione così distratta di quello che sta accadendo: leggevo che il Consiglio d'Europa ci consiglia di procurarci delle scorte per 72 ore in caso di guerra, quindi la guerra è già stata dichiarata. Io penso, non me lo auguro, però in qualche modo sì, spero di essere il primo a essere colpito, non voglio vivere in un rifugio antiaereo mangiando scatolette senza vedere l'aria. Non è un tipo di vita che si adatta a me, io non ce la posso fare. Abbiamo accettato il cambio antropologico: basta vedere nei nostri filmati di 40 anni fa, 35 anni fa, ai concerti, c'era già una popolazione che aveva dei volti differenti da quelli attuali, che sono tutti così levigati, così freschi, profumati. Senza nulla togliere alle persone, obiettivamente c'è una corsa al livellamento.

Volevo parlare con te di due aspetti della nostra società che tendiamo a rimuovere e che riguardano la morte: i funerali e i cimiteri. Del funerale di Pasolini si parla nel tuo album, nella canzone di Giovanna Marini, “Lamento per la morte di Pasolini”. “E la piazza e le bandiere e noi a cantare 'Bella ciao', l’Internazionale, che strano funerale”. Quando l'ho ascoltata mi è venuto in mente il filmato del suo funerale, con Moravia che diceva: “Abbiamo perso un grande poeta”. L’altro funerale è quello di Berlinguer: tu di recente hai musicato il documentario “Arrivederci Berlinguer”, che mostra una partecipazione degli italiani enorme, commovente. Quindi due funerali, tutti e due laici, con una grande partecipazione di persone: è inevitabile accostare le due figure. Che ruolo ha avuto per te Berlinguer, cosa è stato per te rispetto a Pasolini?
Per la modalità di scomparsa e per l'accompagnamento che hanno avuto, non si possono ridurre a funerali civili, nel senso che c’è stata una partecipazione, non so neanche se definirla religiosa, però con un'intensità tale da andare a toccare delle sfere diverse da quelle delle semplici civiltà, cioè della scomparsa di un poeta e della scomparsa di un grande politico. Ci sono persone che ti toccano molto per la loro umanità, sono rimaste nel cuore degli italiani. Berlinguer è caduto sul lavoro in qualche modo con la modalità di sacrificio in questa sua Via Crucis finale dell'ultimo giorno a Padova, è impressionante, così come si è offerto in sacrificio anche Pasolini, e questa è un'idea sicuramente di retrogusto cattolico. Ci sono dei passi pasoliniani che esplicitano in anticipo ciò che verrà, quando lui scrive della Crocifissione, è facilissimo vedere su quella croce il corpo di Pasolini. Lui ha un'idea molto nitida di quello che sta accadendo e del suo ruolo. Dice che il punto centrale del martirio di Cristo è l'esposizione, l'essersi esposto: è quello che accade a lui, si è esposto come oggetto di scandalo da sempre, da quando era ragazzo, accettando questo ruolo, non per il masochismo; la disperata vitalità è che quello che lo ha spinto in avanti. Fare i conti con questo credo che sia assolutamente necessario; io so che scrivo parecchio di scomparse, in tutti i miei libri c'è sempre qualcosa che scompare. Anche l'ultimo che ho appena consegnato all'editore è su un'altra persona che viene uccisa. Abitando in montagna, poi, ti rendi conto che ogni lutto è il lutto di tutti: qua i funerali turbano il lavoro, ci si ferma, c’è anche un lutto cittadino. Tante volte quando succede qualcosa di particolarmente grave, la morte impone uno stop. Pensiamo di essere noi invece a imporre a lei uno stop, dovrebbe farsi avanti solo quando abbiamo tempo.

Massimo ZamboniPer quanto riguarda i cimiteri, le immagini del tuo ultimo album sono foto scattate da Diego Cuoghi in alcuni cimiteri famosi: c'è il cimitero di Staglieno a Genova, c'è il Père-Lachaise di Parigi…  sono immagini forti. È una citazione consapevole della copertina dei Joy Division (l’album “Closer” venne pubblicato nel luglio 1980, due mesi dopo il suicidio di Ian Curtis, ndr) o è stata una scelta casuale?
Credo che Diego avesse in mente i Joy Division quando si è trovato a scattare queste foto, sono foto di molti anni fa, 35, 40 anni fa, forse. Mi è venuto in mente di colpo che lui aveva questo piccolo patrimonio: siamo andati a riscoprirlo, quindi la citazione probabilmente c'è. La cosa che mi piace molto è questa corporeità fatta di cemento e di marmo, con queste figure che si espongono ancora una volta. Nella copertina, in particolare, c'è questa figura femminile che si offre con questa corona di luce che sovrasta la testa e questo corpo di marmo, di pietra, non so esattamente di che materiale sia. E mi sembra esattamente allineato a quello che vuole esprimere l'album; quindi, quando ho trovato quell'immagine, non ho avuto alcuna esitazione. Io poi sono un grande frequentatore di cimiteri, mi piacciono, quando vado in una città vado a vedere di solito i cimiteri, ma lo faccio con la stessa passione con cui visito una fattoria o passeggio nei campi o nelle montagne, non trovo distanza tra questo. Sono luoghi di raccoglimento, sono quelli in cui la nostra potenzialità si esprime al massimo.

Del resto nel tuo libro “L’eco di uno sparo” ha un posto importante il cimitero di Reggio Emilia dove ci sono i tuoi familiari.
Ne “L’eco di uno sparo” scrivo che “casa” è lì dove ci sono i nostri morti, noi abbiamo un'idea di casa tarata sugli alloggi turistici o sulla possibilità di viaggiare con voli economici per due giorni e ci sembra che il mondo sia la nostra casa. In questo momento, il mondo ci sta dimostrando che non è così. A un livello più profondo, “casa” è dove qualcuno ci ha seminato, qualcuno ha preparato il terreno per noi e quindi dove noi a nostra volta lasceremo quello che rimane di noi. Non sono pensieri tristi, mi rasserenano molto, la tristezza è questa sovrabbondanza, questa voglia di scappare via dalle questioni.

Sempre a proposito di Pasolini, nel film “Uccellacci e uccellini”, il corvo, che rappresenta la voce dell’intellettuale, fa una brutta fine: Totò e Ninetto Davoli se lo mangiano! E quindi che cosa può fare oggi un intellettuale, una persona che pensa, per farsi ascoltare?
(sorride, ndr) Farsi mangiare è sempre la cosa migliore, nel senso che in un mondo così mediatico, se tu ti fai mangiare evidentemente con intelligenza arrivi a degli onori di cronaca che non avresti mai raggiunto altrimenti, io vorrei evitare questo. È un'idea promozionale abbastanza forte, me ne rendo conto! Forse ne vale la pena in un certo senso, urlare una propria attenzione. Io so, senza superbia, il valore delle cose che sto facendo, che credo che vada al di là di quello che vedo scrivere o del pubblico che riesco a raccogliere. C’è un’incapacità di uscire dal proprio telefonino, dalla propria vita in una stanza, che mi sorprende sempre. Perché non dovremmo raffrontarci a personaggi come Berlinguer o Pasolini? Perché non dovremmo parlare di morte? Perché non dovremmo parlare di patria? Di cosa deve parlare la musica? Questo è un interrogativo forte, non può essere intrattenimento o talent, o espressione della propria corporeità, può essere anche questo, ma insomma c'è una musica rituale, c'è una musica che può avere una poesia profonda: che tipo di rapporto vogliamo avere tra noi, che cosa ci possiamo dare a vicenda? Io posso dare questo, molto più come artista che come persona fisica. La mia parte artistica è decisamente superiore alla mia parte individuale, perché è più disponibile a esporsi, cerca sempre di tirare fuori il meglio e di farlo in maniera molto... comprensiva, cioè capace di comprendere. Poi c'è la persona fisica che sono io, che soffre tutti i difetti come tutti gli altri, molto meno frequentabile, secondo me.

Ne “La rabbia e l'hashish”, tu dici che questa è unaterra di profeti affranti, regno della quantità”, a cosa ti riferisci?
Sai, viviamo vite così da girandola, senza un punto di attrazione centrale, sovrastati da una quantità di oggetti e di stimolazioni che ci rende impossibile vivere. I pochi che si rendono conto di questo, i pochi che hanno la voglia o il coraggio di affrontare questo non possono che essere affranti perché è una voce che chiama nel deserto. Che cosa puoi fare? Io che vengo da una giovanile militanza politica, mi trovo senza armi da questo punto di vista, non c'è nulla che io possa fare, veramente ti verrebbe da urlare tutto il giorno per quello che vedi, che ascolti, per le dinamiche che si stanno costruendo, eppure senti che la cosa migliore che puoi fare è piantare degli ulivi, piantare dei castagni, scrivere dei libri... compongo delle canzoni, sto vicino alla mia famiglia, mi sembrano proposizioni di un valore assoluto, ma si limitano a questo perché non ho nessuna possibilità di incidere.

Hai deciso di non pubblicare il nuovo album su Spotify. Come mai?
Spotify è una pacchia per l'ascoltatore, anche per me in quanto ascoltatore, ma è una tragedia per un compositore, un musicista o un autore, perché non ricavo assolutamente nulla. In questo grande elenco del telefono, tu sei accessibile a tutti i livelli, ma non ti entra veramente nulla. Insomma, in termini pragmatici, se io vendo un cd a un concerto, incasso molto di più che in un anno intero di Spotify: questa è una follia, no? Questo è anche un lavoro, questo svilimento ti obbliga a non scrivere più canzoni, a non produrle, a non pubblicarle. Preferisco accontentarmi di un pubblico piccolo e molto interessato. Mentre Spotify si può usare in qualche modo come fosse una radio, cioè ho un singolo da far sentire, allora lo metto gratuitamente a disposizione, ognuno lo può ascoltare e può giudicare se è il caso di avvicinarsi a un album intero oppure no.

È una scelta retroattiva? Ho notato che su Spotify non c’è più “Sonata a Kreuzberg”, per esempio…
Sì, sto togliendo pian piano tutto quello che posso da Spotify.

Ora, essendo una tua fan ed essendo cresciuta con la musica dei Cccp in testa, non posso non farti questa domanda: il 21 marzo c’è stato il Gran Gala Punkettone, l’ultimo incontro con la città di Reggio Emilia. Cosa hai provato nel vedere al Teatro Valli tutte queste persone che sono venute a salutarvi?
È stato il primo atto di quello che noi abbiamo chiamato un commiato, che terminerà il 30 luglio, con il concerto di Taormina. Abbiamo deciso coscientemente di chiudere noi questa storia, di farlo al termine di un altro piano quinquennale che stranamente si è riuscito a portare a termine, almeno pare. C'era molta gente, molta commozione e non ne sono uscito rallegrato nel senso che ho molto affetto per Reggio e per i Cccp. Pensare che quella è l'ultima volta in cui noi ci saremmo trovati assieme su quel palco, insomma, ti rasserena da una parte e dall'altra parte ti lascia un po' di malinconia, chiamiamola come vogliamo. Credo che il pubblico l'abbia avvertito questo: due anni fa al primo Gran gala punkettone c’era un’atmosfera di festa, ora invece abbiamo accompagnato una storia alla sua chiusura.

Dopo il concerto a Parma, sono previste delle nuove date per questo tour?
Sì, c'è una data a Nardò in Puglia, il 27 aprile, poi ci sarà Torino il 18 maggio, ancora Torino in giugno. In Romagna, sempre in giugno. Sarò a Canelli il 5 luglio. Ci sono alcune date sparse durante l’estate ma la parte più consistente sarà sicuramente in autunno quando ci avviciniamo all’anniversario della morte di Pasolini (il 2 novembre è il cinquantenario della morte, ndr).

In questo presente che non sappiamo capire c’è molto bisogno della voce, della musica e della coerenza di Massimo Zamboni: speriamo che l’ultima volta non arrivi mai!

(6 aprile 2025)


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Alla ricerca dell'arte totale

di Gabriele Senatore

Si potrebbe pensare che intervistare una figura mitologica del punk italiano come Massimo Zamboni sia sostanzialmente facile. Si rievocano le memorie dei tempi andati, come i Cccp siano stati un gruppo punk unico e irripetibile in Italia, lo sviluppo delle relazioni con Ferretti, ed ecco un articolo pronto quanto scontato. Invece, no. Stavolta ho provato a ripartire dal Massimo Zamboni solista: un artista che si è ricostruito da zero, e a tutt’oggi sta costruendo il suo nuovo percorso con una rinnovata creatività. Non è più una carriera da musicista o artista in senso stretto, ma da comunicatore. In occasione del nuovo spettacolo, intitolato “I Soviet + L’Elettricità”, che lo vede protagonista nel ruolo di autore e musicista, l’ex-chitarra dei Cccp propone una celebrazione non convenzionale del centenario della Rivoluzione Russa: uno spettacolo corale di musica, teatro e arte visuale che recupera l’iconografia sovietica per evocarne il mito infranto. Ne emerge un altro Massimo Zamboni, ancora più maturo dal punto di vista filosofico e artistico, e decisamente molto a suo agio in queste nuove vesti più ampie per la sua ricerca di quella scintilla che possa innescare qualche piccola rivoluzione individuale.


Il tuo viaggio da solista comincia circa nel 2004, se non vado errato, quando pubblicasti “Sorella Sconfitta”. In 13 anni di lavoro da freelance – potremmo dire – a che punto ti senti del tuo personale viaggio?
Questo è un viaggio solista, ma anche solitario. Questo è sicuramente l’aspetto che soffro di più. Io sono il tipo di artista a cui piace instaurare collaborazioni e relazioni. Certo, mi piace avere delle idee mie, sullo spettacolo, sulla scelta delle musiche, ma è il rapporto con il talento e le intelligenze degli altri che mi piace più di tutto. Quindi, di volta in volta, questa che era un’iniziale solitudine, si è riempita di tantissime collaborazioni da Angela Baraldi a tanti altri. Direi che dal 2004 ad oggi, questo è il momento più alto di collaborazione che sono riuscito a frequentare. Attorno a questo spettacolo sono adunati tanti musicisti, tante voci che mi piacciono molto. Cosa succederà in futuro, questo non lo so certamente, non riesco nemmeno a profetizzarlo. Sono sicuro però di quello che ho adesso: ho realizzato un piccolo sogno… A dire il vero neanche tanto piccolo. È più la summa di un pensiero che dura da trentacinque anni; siamo un po’ alla strozzatura della clessidra. Prima o poi ci dovevo passare. Lo spettacolo mi è costato una fatica enorme, anche i tempi di realizzazione sono stati brevissimi; avrei bisogno forse di un anno in più per poter lavorare approfonditamente a questo spettacolo, ma questo tempo non c’è… (ride) Non posso chiedere ai bolscevichi di espugnare il Palazzo d’Inverno. Per cui ci siamo, io sono molto convinto sarà molto simile all’idea che ho in mente.

Per I Soviet + L'Elettricità avete un cast d’eccezione. Danilo Fatur, Angela Baraldi, Max Collini, Simone Filippi, il percussionista Simone Beneventi, il chitarrista Erik Montanari e il tastierista/bassista Cristiano Roversi. Questo tipo di lavoro collegiale, appunto, è in linea con quello che per te è sempre stato il fare musica, oppure è un’idea maturata con il tempo?
No, è un’idea abbastanza continuista rispetto ai Cccp. Non un concerto, ma uno spettacolo dove il movimento, la disposizione sul palco, il palco stesso abbia un senso compiuto, sia parte integrante del messaggio. Quindi oltre a una semplice chitarra con amplificatore, anche un luogo. Noi saremo spesso coperti durante lo spettacolo, in modo da dare l’aspetto di essere dei tribuni del popolo quasi, e darà la sensazione al pubblico – spero – di non essere pubblico di concerto, ma un uditorio politico e storico. Stanno ascoltando i loro leader, in un certo senso, ed è un rapporto molto forte, ma nel contempo molto corrotto e ovviamente provocatorio. Anche l’idea di mettere un cantante all’altezza di tre metri su di un podio, che arringa la folla, crea una condizione psicologica di assoggettamento e schiacciamento capace di svelare la natura del potere. Esattamente l’effetto che intendo proporre.

Mi ha colpito l’idea del comizio musicale che è alla base de “I Soviet + L’Elettricità”. Ti era mai capitato di musicare un comizio durante la tua carriera?
Sì, nella mia carriera è capitato. Ricordo che suonammo con la band a un grandissimo comizio per la Cgil Fiom a Torino durante un Primo maggio di tantissimi anni fa. Diciamo che abbiamo sempre espresso la nostra arte, anche se mi suona sempre strano usare queste parole, in luoghi esplicitamente politici, e quando non lo erano si trattava di un immaginario politico. Il nostro stesso nome Cccp, Csi... malgrado ci fosse in parte un gioco in questo, il tempo ha dimostrato che non era solo un gioco; era un pensiero serio, motivato, assolutamente non univoco, talvolta altalenante, però sempre molto sentito.

In un certo senso, ti sei fatto anche tu ricercatore di antropologia della tua stessa famiglia nel libro "L’eco di uno sparo". Dal momento che la validità iconografica di questo spettacolo è lampante, in che modo oggi il comunismo canonico – quello bolscevico, per intenderci – è reiterato da simboli e riti ancora visibili?
Dal punto di vista simbolico, quelli che erano i principali simboli, come la falce e il martello, non esistono più come tali oggi. Nessuno più usa la falce, anche il martello è meno utilizzato. Dunque, i corrispettivi fisici di quei simboli sono caduti in disuso. Sono materiali che i nostri figli probabilmente considerano come una pietra di selce degli uomini primitivi, sono per loro – appunto – oggetti da antropologia. Rimandano ancora al mondo del lavoro, però, e questo è la parte fondamentale. Forse, ad oggi, dovremmo aggiungere la tastiera di un computer o uno smartphone, ma è una sconfitta poiché sono oggetti che hanno meno a che fare con il nostro corpo e con l’utilizzo manuale, sono un ulteriore tipo di schiavitù da cui affrancarsi. Il lavoro, come ai tempi in cui la falce e il martello avevano un valore politico, è ancora uno strumento di grande oppressione e, paradossalmente, anche di liberazione, perché esistiamo in relazione tra di noi grazie proprio al lavoro che ci mette in relazione. Senza il tuo lavoro io non potrei vivere, tu senza il mio non potresti fare lo stesso. Questo è sempre estendibile a tutto quanto. Allo stesso tempo dobbiamo riconoscere il carattere oppressivo del lavoro e del privilegio di poche persone che hanno in pugno il mondo, in un certo senso. Quei pochissimi privilegiati sono ironicamente anche la parte più fragile, perché basterebbe un soffio per farli volare via, e mi piace molto ragionare su queste continue sproporzioni di chi detiene il potere e chi no, e di come nei tempi gli oppressi possono diventare oppressori e viceversa. In questa catena si snoda l’esistenza della nostra razza.

L’attuale e nuovo contesto che si sta sviluppando nella società odierna di alienazione e di distanza nella comunicazione come ricade nell’ottica del tuo pensiero?
Purtroppo questo è molto triste. Vengo da un grande amore per la cultura. Adesso sarò a Napoli, un vero crocevia delle culture di tanti popoli diversi, e questo svilimento continuo della nostra capacità intellettuale è giocato sempre più al ribasso da così tanti attori. Questo mi genera una tristezza sconfinata. Confido sempre nella possibilità di salvezza individuale, perché ognuno di noi non può perdere la propria intelligenza, però nel collettivo è triste dirlo ma ho perso in parte fiducia. Contrariamente a quel che pensavo trent’anni fa, una grande possibilità di salvezza individuale passa dal non leggere i giornali, non ascoltare la televisione, dal non lasciarsi ammaliare dallo spettacolo delle informazioni odierne, perché quello che accade davvero nel mondo lo scoprirai guardando e curiosando, ma di certo non passando per l’informazione generalista, dove – anche se sono sempre sicuro ci siano persone molto intelligenti e preparate – è proprio il medium a non funzionare correttamente nella dinamica sociale.

Un po' l’avverarsi del pensiero post-moderno di Lyotard: l’informazione come merce. Forse è questo il problema di fondo che ha reso meno affidabile l’informazione giornalistica e la sua posizione nel dibattito pubblico.
È terribile e sono sicuro che la sconteremo nel futuro a un prezzo molto amaro…

Passando alla musica, invece, come sarà organizzato questo spettacolo? Quali sono i generi che affronterà, quali sono gli strumenti dell’orchestra, se così possiamo chiamarla? Rimarrai nei ranghi del punk o si va verso una sonorizzazione più ambientale?
No, a dire il vero sono rimasto molto più eclettico. Si tratta di una sonorizzazione molto varia. Il genere muta in base allo stato d’animo che voglio raccontare in quel momento. Si passerà dal punk più sfacciato e grezzo a dei momenti orchestrali, con strumenti elettrici (da cui il titolo dell’opera). Tuttavia si tratta di un utilizzo di elettronica che va dal molto meditato e ragionato arrivando alla celebrazione più pacchiana che non teme la retorica, e allo stesso tempo arriva a sprofondare con sonorizzazioni e letture molto pesanti, perché una celebrazione deve tenere conto anche di questo. Quindi ho cercato di costruire l’alternanza compiuta e fino alla fine dei generi.

Quali sono dei generi che durante questa tua carriera da solista non hai ancora affrontato, ma vorresti sperimentare anche in un futuro prossimo?
Non amo molto le sigle e le etichette, quindi se dovessi rapportarmi con l’hip-hop, forse sarei incerto.

Anche se Max Collini – seppur per vie traverse – proviene da un certo hip-hop.
Sì, ma Max si è già affrancato da quel modo di esprimersi. È più un oratore antico, non è un rapperolo italiano. (ride) A me interessa sempre la profondità e il significato della proposta e mi interessa mettere in scena delle apparizioni artistiche che non abbiano per forza una spiegazione immediata, ma che spingano a comprendere e svelare cosa stanno dicendo. Così come il titolo “I Soviet + L’Elettricità”, che è uscito in un istante e poi ne ho capito la potenzialità, così come molte opere visual che usiamo. Ci sono delle immagini che appaiono e sconcertano un po’ all’inizio, ma poi sovviene un’epifania e si comprende il significato. Immagini, musica, testi e movimento, i filmati, ed è questo il genere che voglio sperimentare adesso. Voglio creare piccoli “circuiti elettrici” che possano svegliarci. Non voglio pronunciare la parola comunista in concerto perché non dice più nulla; non voglio issare una bandiera rossa perché non è più rossa; non voglio mostrare falce e martello, perché il pubblico giovane non sa più che cos’è. Voglio creare contrasti tra generi e scaturire scintille.

Questo potrebbe essere un modo per combattere l’anacronismo di certi concetti e di un certo modo di esprimere delle idee.
Sì, perché fare il militante arcaico che viene a cantare “Bandiera Rossa” posso farlo, sicuramente ci sarà chi la canterebbe con me, ma non voglio, perché non direi niente a un pubblico che queste cose non le conosce, soprattutto le nuove generazioni. Io credo che il problema sia guardare al futuro, insegnare il passato, tenere d’occhio il presente, ma sapere sempre che noi abbiamo un futuro davanti ed è lì che possiamo cambiare qualcosa.

(29/10/2017)

***

Sempre fedele alla linea

di Gianmarco Caselli

Il punk non è morto, e la creatività neppure. Massimo Zamboni, spina dorsale dei Cccp prima e dei Csi poi, è lì a testimoniarlo con "Solo una terapia: dai CCCP all'estinzione", il tour con il quale ha riproposto soprattutto vecchie glorie di entrambi i gruppi ai quali ha dedicato la propria vita per circa vent'anni, con l'aggiunta di nuove canzoni. Il tour si è chiuso giovedì 1° dicembre a Pisa con un concerto che doveva essere inizialmente in cartellone nella scorsa edizione settembrina del Metarock 2011, ma annullato a causa del forte maltempo. Qualcuno si poteva aspettare una sorta di ricordo nostalgico dei Cccp. Invece, subito dai primi pezzi, con "In viaggio" e "Allarme", la coppia Zamboni-Baraldi sprigiona un'energia che forse pochi avrebbero immaginato e testimonia che Zamboni è in pista come e più di prima, pronto a regalare altre canzoni che accompagneranno le nuove generazioni senza dimenticare affatto il percorso che ha fatto fino a questo momento. Fondamentale, per la ripresa del proprio passato, la Baraldi con una presenza scenica, una forza e un'interpretazione delle vecchie glorie che scatena il pubblico in pezzi come "Punk Islam" e "Tu menti", e che lascia un'impressione di freschezza, non di revival: un'impressione e fa ben sperare per il futuro.
Dopo il concerto Zamboni ci ha rilasciato una breve intervista.

Il concerto inizia con "In viaggio", canzone del primo album targato Csi. Quello che stai facendo tu è proprio incamminarti in un nuovo percorso. Ti penti di non averlo intrapreso prima?
No. Nonostante le difficoltà sono stati venti anni fondamentali. Ci sono stati tanti problemi ma anche tante soddisfazioni

Finalmente però esce la voce di Massimo Zamboni. Essere affiancato dalla Baraldi in tour anziché da una voce maschile credo sia importante in questo ambito. C'è ancora da esplorare nuove sonorità? Stai cercando le varie potenzialità della tua voce?
Cercando...anche se non ne sento un bisogno così forte. Può succedere, come no. Sono ben contento della voce femminile al mio fianco, mi lascia molto spazio per la composizione. Non è fondamentale che ci sia la mia voce. Mi piace l'idea di tenermi aperto a quello che succede.

I Cccp prima e i Csi poi hanno dato voce a generazioni negli anni 80 e negli anni 90. Senti di poter essere espressione anche delle nuove generazioni?
Da una parte è impossibile che mi venga delegato questo compito a 55 anni. Uno deve anche darsi voce da solo, capire in che tipo di mondo vive, proprio come facevamo noi a vent'anni. Però ci sono figure "parentali" che fanno da riferimento, sicuramente: quando avevo quindici, vent'anni ascoltavo gli stessi gruppi e cantanti che seguo adesso; eppure questi per me sono ancora un punto di riferimento, c'è da vedere quanto hanno da dire invecchiando.

La Baraldi sembra fatta a pennello per stare sul palco con te. Questa era l'ultima data del tour. Sarebbe un peccato perdere questa alchimia. Non avete l'idea di fare un duo, o qualcosa di più insieme?
L'idea sta già camminando. E' naturale che accada

C'è molto vuoto nella musica italiana attuale. Siamo ancorati al passato per forza?
Abbastanza. I gruppi che mi piacciono sono i soliti, quelli che dico sempre. Alcuni gruppi stanno in piedi per miracolo, hanno una forza nervosa che mi piace molto.

Nel tuo ultimo album, "L'estinzione di un colloquio amoroso", ti rivolgi più ad atmosfere intime, raccolte. Dal vivo invece c'è un'energia di tipo completamente opposto.
Sono due modalità diverse. Angela ha una fisicità che non metto nei miei album. La mia musica "da solista" è tutta cerebrale. Cerco altre sonorità con un'altra cantante, per una musica più di ragionamento, più coinvolgente, con una scelta accurata dei suoni.

Con questo concerto si chiude il tour di "Solo una terapia: dai Cccp all'estinzione". Come proseguirà la storia?
Sì, questa era l'ultima data del tour. Quando riprenderemo sarà qualcosa di diverso. Ho scritto tante, tante canzoni che Angela si metterà addosso come un vestito.

Anche Angela Baraldi ha scambiato alcune battute con noi...

Angela, ti trovi a intraprendere questo nuovo percorso? Pare che ti trovi molto a tuo agio.
Con gli anni ho capito che avevo una certa frustrazione a lavorare in certi ambienti: era una macchina conformista che bisogna saper gestire. Io desideravo un mondo sonoro sobrio e parco intorno alla mia voce. La mia dimensione era quella dell'autoproduzione e dovevo trovare il suono della mia voce.

Spesso il tuo modo di cantare, la tua timbrica in particolare, ricorda Amanda Lear.
Sono in giro anche con Giorgio Canali con un progetto-tributo ai Joy Division. Questo ha sicuramente ingrossato la mia voce spingendomi su tonalità maschili.

Nessun problema nel confrontarti con la voce storica dei Cccp, a quanto pare.
Non mi sono mai posta il problema. Questo spettacolo all'inizio è nato per una data sola. Poi il risultato è stato molto positivo e abbiamo deciso di rinnovare quel sentimento, ogni volta con incoscienza. Va presa con divertimento.

(2011)

Discografia

CCCP
Compagni, cittadini, fratelli, partigiani/Ortodossia II (Attack Punk, 1984)6
1964-1985. Affinità-Divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età (Attack Punk, 1986)8
Socialismo e Barbarie (Virgin, 1987)6,5
Canzoni, Preghiere, Danze del II millennio - sezione Europa (Virgin, 1989)5,5
Epica Etica Etnica Pathos (Virgin, 1990)7,5
Ecco i miei gioielli (antologia, Virgin, 1992)7
Enjoy CCCP Fedeli alla linea (antologia, Virgin, 1994)
Live in Punkow (live, Virgin, 1996)
Felicitazioni! (antologia, 2024)
Altro che nuovo nuovo (live, Virgin, 2024)
Gran gala punkettone (cd+Dvd, 2025)
CSI
Maciste contro tutti (Virgin, 1992)
Ko' De Mondo (Polygram, 1993)8
In quiete (Polygram, 1994)6
Linea Gotica (Polygram, 1996)8
Tabula Rasa Elettrificata (Polygram, 1997)5
La terra, la guerra, una questione privata (live, Polygram, 1998)8
Noi non ci saremo vol I (Universal, 2001)
Noi non ci saremo vol II (Universal, 2001)
MASSIMO ZAMBONI
Sorella sconfitta (2004)
L'apertura (con Nada, 2005)
L'inerme è l'imbattibile (2008)
L'estinzione di un colloquio amoroso (2010)
Solo una terapia: dai CCCP all'Estinzione - con Angela Baraldi (2011)
Canto l'isolamento (2012)
Un'infinita compressione precede lo scoppio -con Angela Baraldi (2013)
La mia patria attuale (Universal, 2022)
P.P.P. - Profezia è predire il presente (Le Vele – Egea Records, 2025)
Pietra miliare
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