Il mistico cinese Ch’ing-yuan Wei-hsin avrebbe sentenziato una volta: “Prima di applicarmi alla pratica spirituale, le montagne sembravano montagne e i fiumi fiumi; accedendo a una comprensione più profonda, capii che le montagne non sono montagne e i fiumi non sono fiumi. Ma, giunto alla quiete della Realizzazione, vedo di nuovo le montagne come montagne e i fiumi come fiumi”. Per gli appassionati della chitarra acustica che abbiano scoperto l’American primitive guitar degli sperimentatori John Fahey e Robbie Basho, le montagne smettono di essere montagne; per giungere alla perfetta accettazione di uno stile apparentemente elementare come quello di William Ackerman, californiano classe 1949, invece, è necessario che, nella mente dell’ascoltatore, le montagne tornino ad apparire come montagne. La musica incisa dal nostro, dall’esordio nel 1976 a oggi, riluce infatti di una semplicità disarmante, un ricorrere a mezzi minimi per ottenere il massimo risultato emozionale. Uno stile immediato che, ad alcuni, potrebbe suonare perfino inconsistente. È un fingerpicking intessuto tra speranza e malinconia, efficace sia nelle prove soliste che nell’interazione con altri strumenti (nel 2021, quel “Brothers” in combinata col trombettista Jeff Oster e il pianista Tom Eaton per poco non procurò al chitarrista il secondo Grammy della carriera, dopo la vittoria nella categoria new age del 2001, con “Returning”). Già nella seconda fatica da studio, l’ottimo “It Takes A Year” (’77), ci si era spogliati delle reminescenze di Leo Kottke, conquistando la piena maturità; i due brani “The Bricklayer’s Beautiful Daughter” e “The Impending Death Of The Virgin Spirit” riassumono meravigliosamente un’estetica che, dall’osservazione del micro, giunge al macro. Come le copertine degli album, che ritraggono la foto di un albero, un cielo rannuvolato, una foglia, degli arbusti nella nebbia; immagini consuete fino alla noia sicché l’invito del chitarrista-poeta è di recalcitrare quella noia e ricondurre il proprio stupore sulla bellezza ancestrale insita nell’esistente.
Pubblicata in buona parte dall’etichetta Whindam Hill - punto di riferimento internazionale per la veicolazione della prima new age - la folta discografia ackermaniana vanta album imprescindibili (“Passage”, “Conferring With The Moon”, “Immaginary Roads”, tutti usciti negli Eighties), come anche avventure meno conosciute quali, nel nuovo millennio, il quartetto strumentale Flow, responsabile di due album di improvvisazione che, per caratura e rarefazione, non stonerebbe nel prestigioso roster Ecm. Riascoltando l’acquerello meditativo “Processional” (tratto da “Passage”) comprendiamo, più di tante parole, l’innata capacità di Ackerman di impiegare le sei corde dello strumento con un’intenzione di totale abbandono alla cosa sonora, una qualità che non nasce dalle accademie, dalla corsistica, dallo studio matto e disperatissimo, ma dall’arrendevole fiducia nello Spirito che, per un musicista biofilo, mostra il suo volto attraverso la melodia.
William, quando ricordi di aver visto una chitarra per la prima volta?
Sono cresciuto in California, a Palo Alto, dove mio padre era professore di inglese all’Università di Stanford. Un pomeriggio, avevo circa 12 anni, sentii suonare una chitarra elettrica dalla casa dei nostri vicini di casa, i Kilmartin; corsi da loro e mi precipitai su per le scale, diretto alla stanza del loro figlio maggiore, Michael, che aveva probabilmente 4 anni più di me: lo trovai là, intento a suonare. Quel giorno mi insegnò gli accordi di Sol e La minore che sono, ancor oggi, pensa un po’, i miei accordi preferiti in assoluto.
In Italia non molti conoscono la storia di come è nata la Windham Hill.
E qui arriva la parte più assurda della faccenda. Anni dopo quel pomeriggio, avevo pubblicato il mio esordio autoprodotto, “The Search For The Turtle’s Navel”, e ne avevo lasciato 10 copie per la vendita in una libreria di proprietà di amici, a Palo Alto. Quello era dunque l’unico negozio al mondo che vendeva il mio disco. Beh, stavo uscendo dal negozio e chi ti incrocio che cammina verso di me? Michael Kilmartin, con il quale non ci vedevamo da 15 anni. Quello che non sapevo è che lui lavorava nell’ambito della promozione radiofonica per una delle band più conosciute al mondo, i Creedence Clearwater Revival.
Risultato?
Attraverso il suo interessamento, il mio esordio venne trasmesso dalle 10 maggiori stazioni radio fm degli Stati Uniti! Ancora ricordo le telefonate entusiaste degli ascoltatori a questa e quella trasmissione radiofonica. Una delle emittenti era la Kzam, di Seattle. Michael mi suggerì di chiamare tutte le stazioni e ringraziarle per aver trasmesso il disco e quando chiamai la Kzam parlai con Jeff Heiman, al tempo l’assistente del direttore musicale della stazione; questi mi disse che “The Search For” era l’album più richiesto dagli ascoltatori. Poi aggiunse che avrei dovuto andare a Seattle per tenere un concerto. Considera che non avevo mai fatto un concerto in vita mia, ma ero ovviamente entusiasta all’idea. Mio cugino Alex (de Grassi, ndr), che lavorava con me come carpentiere, mi accompagnò a Seattle. Per farla breve, non sapevo nemmeno dove avrei suonato... e mi ritrovai al Seattle Opera House, sold-out, davanti a 3.000 spettatori. Ho suonato tutti i pezzi che conoscevo e poi ho spiegato al pubblico che non avevo altro in repertorio ma che, se gli avesse fatto piacere, Alex avrebbe suonato qualcosa, e così fu. In quella folle serata nacque la Windham Hill, e andò avanti così per decenni.
A proposito di “In Search Of The Turtle’s Navel”: qual è il significato del titolo?
Nel ‘48 mio padre era professore capo del secondo gruppo di studenti dell’università di Stanford, in Germania. All’epoca avevo 10 anni. Uno degli studenti era Bill Sterling, figlio del rettore, e io e lui giocavamo spesso a ping pong insieme e, per mantenere il gioco interessante, facevamo delle piccole scommesse. A un certo punto mi disse che mi avrebbe dato un marco tedesco (circa 0,25 dollari, al tempo) se avessi trovato una foto dell’ombelico di una tartaruga. Ovviamente ero troppo giovane per capire che le tartarughe, essendo rettili, non avevano ombelico. Quando mio padre lo seppe, pensò che fosse uno scherzo esilarante. Per me quella ricerca divenne mitopoietica. Non so esattamente perché ho pensato che sarebbe stato un buon titolo... probabilmente ritenevo che il mio primo album fosse una specie di sogno impossibile e, dunque, ecco, “Alla ricerca dell’ombelico della tartaruga”.
Il nome Windham Hill, invece, a cosa si riferisce?
L’etichetta è stata benedetta, da subito. Siamo riusciti a guadagnarci un nostro pubblico con la sola forza della musica, così, all’improvviso e apparentemente dal nulla. Il nome ha a che fare con una mia esperienza adolescenziale. Devi sapere che, ai tempi del liceo, la mia ragazza mi disse che le sarebbe piaciuto che prendessimo una stanza insieme, idea che per me, allora, era il coronamento di un sogno. Ci ritrovammo così a fare l’autostop da Northfield, nel Massachusettes, e arrivammo nel Vermont, più precisamente nella contea di Windham. Lì, senza preavviso, tentammo di soggiornare in una locanda nel bel mezzo della campagna, che si chiamava Windham Hill Farm. I proprietari, Hugh e Mary Folsom, ci chiesero cosa cercassimo e gli rispondemmo che eravamo arrivati fin lì quasi per capriccio. Mi proposero di alloggiarvi e, in cambio, sarei stato il loro lavapiatti; la mia ragazza Kate, invece, avrebbe potuto servire ai tavoli. Ero un ragazzo giovane che stava cercando la sua strada e lì, alla Windham Hill Farm, diventai per Hugh e Mary una specie di figlio adottivo. Abito ancora oggi da quelle parti, a circa mezz’ora verso sud dalla locanda che, anni fa, è stata distrutta da un incendio.
Qual è il tuo modus operandi?
Quando affronto l’avventura di un nuovo album mi solletica l’idea di approcciare la composizione attraverso prospettive per me inedite. Sai, ci sono delle volte in cui penso “Mhh… e anche questo brano suona alla Will Ackerman”, però poi mi dico che ci sono anche cose peggiori, nella vita. Tieni conto che io non leggo la musica, né gli spartiti né le tablature, e sono essenzialmente ignorante in materia, da un punto di vista accademico. Perciò, giocoforza, il mio modus operandi per capire se un pezzo c’è o meno è percepire se mi ci sento veramente connesso sotto il profilo emozionale. Dopo decenni di attività sono diventato abbastanza veloce nel decidere se un’idea valga la pena di essere esplorata o se meriti di finire nel cestino.
Come sai che un pezzo che hai scritto non suonerà autoreferenziale?
Onestamente, non ho dei criteri stilistici netti per giudicare i brani che finiranno negli album. Diciamo che se un pezzo assomiglia troppo a un altro, uno dei due verrà eliminato. Poi ovviamente capita che alcune composizioni non siano così buone da meritare di essere pubblicate, ecco perché aspetto sempre un mese o due prima di fissare la tracklist definitiva. Tutti noi musicisti siamo in qualche modo innamorati del nostro repertorio, soprattutto dei pezzi che abbiamo appena sfornato, ma mi capita che, due mesi dopo, magari mi accorgo che quello che tanto mi piaceva non è poi così riuscito o originale.
New age: molta gente la giudica con sospetto.
Almeno all’inizio, il termine “new age” era ricondotto a una considerevole mole di conoscenze filosofiche. Quanto a me, la mia musica non stava cercando di salvare il mondo, né di offrire una tregua fugace allo stress della vita quotidiana. Era solo musica che “avvertivo”. E non c’era nulla di intellettuale, anzi, se possibile, cercavo proprio di eliminare dalla mia mente la parte pensante, in favore di quella legata alle emozioni.
C’è un musicista che se n’è andato anzitempo: Michael Hedges. Ricordi cosa stavi facendo quando hai appreso della sua morte?
Certo. Ero in studio di registrazione. Però a dirti il vero non riesco a ricordare chi mi abbia informato dalla tragedia… è ancora tutto molto confuso. Non ho mai incontrato una persona più viva di lui, davvero, e questo rende ancora più complicato elaborare la sua scomparsa. Già apprendere di quel fatale incidente è stato straziante, ma venire a scoprire che quando lo hanno ritrovato era morto già da alcuni giorni ha reso tutto impossibile da accettare.
Ieri riascoltavo il suo “Aerial Boundaries”: come sintetizzarne il valore, sotto un profilo tecnico?
Le sue innovazioni, come sai, riguardano la chitarra. Con “Aerial Boundaries” l’ingegnere del suono Steve Miller ha creato delle imponenti stratificazioni di riverberi. Michael all’inizio non accolse con entusiasmo quella scelta, poichè non era così che si prefigurava l’album. Se non erro lasciò lo studio di registrazione mezzo incazzato. Quando tornò, chiese a me e a Steve se ci piacesse davvero quell’approccio sonoro, e dovetti ammettere che, sì, adoravo il risultato finale.
Del John Fahey uomo, che dici?
La sua etichetta Takoma è stata una luce nel buio, per me. Fortunatamente, il produttore Ed Denson è riuscito a tenerlo in carreggiata abbastanza a lungo da fargli registrare degli album che, per lo strumento, sono essenziali. Ho lavorato un po’ con Fahey, ma era un alcolizzato e, a essere onesti, non si è rivelato un tipo particolarmente dolce o gentile. Ci ho fatto anche qualche concerto insieme, ma ti assicuro che non era una persona così affascinante come la sua musica lascerebbe credere. Ricordo la prima volta che l’ho visto in concerto, non avevo ancora iniziato a suonare, era al Great American Music Hall di San Francisco. John salì sul palco, armeggiò per un po' con la chitarra e poi annunciò “Devo andare a svuotarlo”, intendendo cioè che doveva andare a urinare. Al che lascò il palco e stette via per circa mezz’ora. Quando tornò, concesse un’esibizione triste e patetica. Nonostante i suoi studi universitari in Filosofia, non lo sentii mai parlare di quell’argomento. Le dipendenze, ahinoi, limitano la portata delle nostre passioni e temo che, da questo punto di vista, egli abbia limitato e di molto la propria vita.
Di Basho, che ricordi hai?
Sotto un profilo artistico è stato influenzato, in qualche misura, dalla musica indiana, anche se in maniera parziale. Lui pure era una persona difficile, uno che viveva immerso nella solitudine. Non era aggraziato, diciamo, nei rapporti con gli altri. Credo che la vita che ha condotto, fin dalla giovinezza, lo abbia fatto sentire piuttosto isolato e, pur non essendo io uno psicologo, sospetto che si sia ritirato in una specie di esistenza monastica.
Per la Whindam Hill, Basho ha inciso “Vision Of The Country”, opera inspiegabilmente trascurata anche dai suoi estimatori.
Anche a me ha lasciato perplesso che quell’album non sia “arrivato” a più persone; lui ne era molto orgoglioso. Misteri di questo settore, che tali resteranno. Forse, volendo trovarci un perché, in quegli anni il mondo della chitarra acustica stava guardando al futuro, tributando maggiore attenzione a ciò che stavo facendo io, Alex, Michael e anche Daniel Hecht.
Un aneddoto per descriverlo?
Ricordo una volta in cui stavamo discutendo e lui, per assurdo, si è messo a urlarmi di stare calmo. Rimasi seduto per un po’, finché non ricominciò a parlarmi, ma a quel punto prese a rivolgersi a me come se fosse in comunicazione con qualche entità spirituale. Avevo l’impressione che lui sapesse esattamente a che spirito si stesse rivolgendo. Vent’anni fa forse mi sarei potuto ricordare con chi si fosse messo in connessione; ce l’ho sulla punta della lingua ma non riesco proprio a fermarlo nella mente. In realtà, su questo episodio, alcuni anni fa, avevo scritto su una storiella, ma non la trovo più!
Gli artisti imprescindibili per capire il successo della Windham Hill?
Eh, bisognerebbe scrivere un libro, per metterceli tutti. La sintetizzerei così: c’era questo tal Ackerman che ha fatto un disco e in qualche modo ne ha ricavato un’etichetta discografica. Lui era cresciuto assieme a suo cugino, tal Alex de Grassi, personaggio che è riuscito ad ampliare la faccenda. E poi è arrivato un certo George Winston, pianista, il quale ha spalancato le porte dell’etichetta verso il mondo esterno, sicché ci si è accaparrati un accordo con la A&M che ha consentito di passare da una distribuzione indipendente a una ben più ramificata, coprendo non solo tutti i negozi degli States, ma arrivando a essere presenti in Europa e, soprattutto, in Giappone, attraverso la Alpha Records.
Un errore imprenditoriale che ti rimproveri nella gestione dell’etichetta?
Forse sembrerò eccessivamente autocelebrativo, ma, secondo me, siamo cresciuti armoniosamente, al meglio delle nostre possibilità. Era inevitabile che dovessimo passare attraverso una branca della A&M per accedere a una distribuzione internazionale. Il risultato è che ho perso il conto di tutti i dischi d’oro e di platino che stanno appesi alle pareti del mio studio. Sai, parlando del mercato europeo, Italia e Germania sono stati i paesi che ci hanno dato le maggiori soddisfazioni. Con l’Inghilterra, invece, abbiamo fatto un buco nell’acqua; gli inglesi non hanno dimostrato alcun interesse per quello che stavamo proponendo.
Oggi è possibile fare business in una maniera vantaggiosa per la casa discografica ma anche per l’artista?
Onestamente non te lo so dire. Non sono più nel settore discografico, mi ci sono sfilato nel 1992. Ora il mio lavoro è quello di produttore indipendente, nel mio studio, qui, nella contea di Windham. Volutamente, lavoro molto meno di prima. Mi trovo nell’invidiabile condizione di non aver bisogno di lavorare forsennatamente, ma quando arriva qualche musicista incredibile sono sempre lì per affaccendarmi come produttore e, in qualche misura, essergli d’aiuto per trovare la strada ideale da percorrere nel labirinto dello show business.
George Bernard Shaw: “L’inferno è ricolmo di musicisti amatoriali”. Eppure, alcune delle rivoluzioni musicali, dalla seconda metà del Novecento in avanti, provengono da musicisti autodidatti.
Sono uno di quelli a cui piace ciò che riesce a intrufolarsi nel sistema musicale dalla porta di servizio, quei progetti a latere che trovano la forza per mettere radici. Al giorno d’oggi il musicista di talento deve essere molto scafato o conoscere qualcuno che lo sia. Temo che ci stiamo perdendo alcuni brillanti musicisti che non possono o non vogliono nuotare nelle correnti veloci dell’autopromozione.
Il tuo stile è profondamente statunitense. Influenze di formazione?
Da ragazzino andavo alla vecchia Stanford University Student Union per ascoltare le esibizioni dei cantanti locali. Fu lì che conobbi Dave Guard, Bob Shane e Nick Reynolds, e cioè i membri del Kingston Trio. A Palo Alto c’era anche Joan Baez e proprio da questa zona è partita la prima grande ondata musicale che ha formato la scena di San Francisco. Questa situazione si è fatta strada nel mio cervello di ragazzo e mi ha portato a cercare la mia strada. L’aspetto folk è molto importante, nella mia formazione, oltre al fatto che ho sempre considerato quegli artisti non come delle specie di spiriti distanti, ma come persone molto vicine alla terra, alle cose di tutti i giorni, gente che potevi avvicinare per un confronto schietto. Negli anni in cui la mia mente era una spugna mi sono riscoperto particolarmente impavido poiché, in fondo, mi rendevo conto che, cavolo, si trattava pur sempre di persone come me.
Natura a parte, cosa influenza ciò che suoni?
Cerco solo di chiudere questa cavolo di bocca e ascoltare quel che il cuore ha da dirmi. Quante volte nella mia vita sono emerse delle distrazioni che hanno interrotto la comunicazione con qualcosa che pareva voler essere percepito! Ma, nonostante una vita piena di impegni, ho imparato a onorare le idee valevoli, a “farne un’istantanea”, così da poterci tornare su quando posso dedicare loro tutta la mia attenzione. È accaduto anche oggi, con una strana progressione di sette accordi che pare promettente.
Le tue migliori composizioni sono di una semplicità disarmante; non temi di risultare semplicistico?
Qualche volta, sedendo accanto ad amici musicisti come Michael Hedges e a mio cugino Alex, mi sono chiesto cosa diavolo mi credevo di fare. Ma dopo essermi esibito in posti come il Montreux Jazz Festival o alla Carnegie Hall o, come farò a novembre per l’ennesima volta, in Giappone, è difficile credere che tutto questo sia frutto del fraintendimento delle persone che mi apprezzano. Certo, ci sono milioni di chitarristi al mondo che hanno, a esempio, più velocità esecutiva di me, però la sincerità e la verità insita nella mia musica hanno raggiunto tantissime persone in tutto il mondo; questo fa di me un musicista orgoglioso di quel che ha fatto e in pace con se stesso.
Troppe band e artisti, soprattutto nei Sixties e Seventies, hanno bruciato la loro creatività nell’arco di un paio di uscite discografiche. Con te è l’opposto; album come “Meditations” (2008) o “Brothers” (‘21) esibiscono una bellezza pari alle registrazioni storiche negli anni 70.
Penso che la cultura pop sia un luogo eccitante, ma si nutre principalmente di novità; è sempre alla ricerca del suo prossimo pasto e se, come artista, non hai qualcosa da far seguire molto rapidamente al tuo debutto, rischi di venir schiacciato sotto il calpestio di quelli che fremono dietro di te. Nei Sixties e Seventies, se non altro, le nuove leve avevano spazio e tempo sufficienti per restare sotto lo sguardo del pubblico durante la loro evoluzione. Oggi è diverso, a causa della perpetua inondazione di musica a cui siamo sottoposti… certo, qualche artista emergerà comunque, ma è un mondo difficile per chi tenti di offrire roba nuova. La contemporaneità si nutre di news, a scapito di artisti meritevoli a cui è negata una carriera solida e duratura. Io, di mio, guardo alla situazione attuale da lontano e, nel bene o nel male, trovo che il panorama musicale promosso attraverso il web verta principalmente nell’affannosa ricerca del prossimo “big one”.
Com’è nato, l’eccellente “Positano Songs” del 2021? Non immaginavo una tua fascinazione per il Belpaese.
Nella musica non credo esistano divisioni in paesi... almeno, non per ora! Per risponderti, ribadisco che non c’è un piano, in quello che faccio. A muovere la maggior parte degli artisti e del mercato musicale sono la convinzione di doversi interfacciare costantemente con il pubblico e la speranza di acquisire sempre nuovi ascoltatori. Io non prendo in considerazione nulla di tutto questo. Non forzo mai l’ispirazione. È la musica e lei soltanto a dirmi quando è il momento di registrare, sicché non faccio altro che posizionarmi davanti ai microfoni e assecondarla. Mi trovo anche in una situazione fortunata, perché mi basta attraversare il prato di casa per raggiungere lo studio di registrazione. Ti confido invece una piccola mania, ben nota al mio ingegnere del suono, Tom Eaton: ho una fissa per un certo tipo di microfoni; tra le altre cose, posseggo delle copie di Neumann d’epoca, riprodotti fedelmente dal maestro Klaus Heine. Tornando a “Positano Songs”, è stata la prima volta che ho ceduto ad altri il ruolo di produttore (a Tom, appunto). Di lui mi fido, sa quando riesco a fare centro. Non devo registrare 23 versioni di un pezzo e passare le giornate ad analizzarle una per una. È un po’ questo ciò che faccio per i musicisti che produco: loro possono suonare, far fare alle dita quello che ritengono opportuno e mettere nelle esecuzioni tutto il cuore che gli riesce; non hanno bisogno di ingombrare la loro mente con l’obiettività, perché ci sono già io a supervisionarli e a coprirgli le spalle. Con Tom è stato incredibile perché mi ha costretto a essere solo un chitarrista. Sperimentare ciò che la sua presenza mi ha dato, mi ha fatto capire perché tanti musicisti lo scelgano come produttore.
I tuoi gusti attuali, in fatto di chitarre?
Non lo dico per pubblicizzare le Froggy Bottom di Michael Millard, ma sono state il pilastro della mia carriera per decenni. Posseggo anche una Martin Parlor che Michael Hedges mi ha regalato anni fa, e amo molto le chitarre di Steve Klein per i lavori di sola chitarra. Sovente gli album sono confezionati attraverso una serie di strumenti e timbriche diversi, perciò, se il mio deve essere lo strumento solista, voglio che abbia un suono che spicchi sugli altri. E volendo ottenere un suono più corposo, per la maggior parte della mia carriera ho doppiato la chitarra, convinto del fatto che una stratificazione fino a tre tracce sia la soluzione ideale sotto il profilo del suono.
Hai trovato la maturità artistica già a partire dal tuo secondo album, “It Takes A Year” (1977). Com’è accaduto?
Devo molto a un personaggio come Harn Soper, fin dai primi tempi. Lui ha tirato fuori per me una manciata di malizie tecniche, attingendo da un bagaglio molto più ampio, allargando sensibilmente la gamma dei suoni della mia chitarra, e perciò gli devo profonda gratitudine per ciò che mi ha insegnato in quel periodo.
Con “The Opening Of Doors” (‘92) hai arricchito la palette timbrica aprendoti ad altri strumenti.
In realtà, non ascolto la mia musica una volta che è stata registrata e prodotta, quindi non sono sicuro di poterti dare qualche soddisfacente indicazione in merito. Ogni tanto un fan mi scrive di quanto gli sia piaciuto un pezzo e, in quel caso, magari torno ad ascoltarlo. In generale, quali che fossero gli ospiti negli album, devo ammettere che sono quasi sempre soddisfatto di ciò che sento. Riesco a riascoltarmi come se la mia musica fosse stata suonata da un altro musicista. E mi dico che devo aver fatto qualcosa di giusto se, dopo quasi 50 anni di attività, sto ancora incidendo nuove cose.
Cosa auspichi per il futuro del tuo paese?
I cari vecchi Stati Uniti d’America? Non voglio entrare nel merito della politica, ma credo che storicamente stiamo attraversando una fase spaventosa. Come ti ho accennato, quand’ero un ragazzino ho vissuto in Germania per un paio d’anni. A quell’età si imparano le lingue con la facilità con cui si raccolgono le conchiglie sulla spiaggia e, beh, ricordo bene di aver sentito diversi vecchietti nel bar della Gasthaus Krone, a Beutlesbach, vicino a Stoccarda, parlare con nostalgia dei “bei tempi” di Hitler e della Seconda Guerra Mondiale. Poi però la Germania è emersa come una nazione illuminata eh, e tale rimane, oggi. Di mio, sono terrorizzato dalla polarizzazione del pensiero che sta avvenendo nel nostro paese, soprattutto a livello politico e culturale. Non possiamo credere di essere immuni al cambiamento culturale globale in atto e nascondere la testa sotto la sabbia. Dobbiamo comportarci da cittadini consapevoli e tenerci alla larga dalle politiche radicali. La destra radicale, nello specifico, mi fa una paura fottuta. Sono molto preoccupato per il futuro. Forse è troppo semplicistico, ma credo sia ora di mettere una donna al comando. Mi piacerebbe vedere Kamala nello Studio Ovale, ecco.
L’ultima volta che la vita t’ha sorpreso?
So che sembra una frase banale, ma ogni giorno trovo motivi di stupore. La sindrome da stanchezza cronica di cui soffro mi limita, in qualche misura, ma sono ancora capace di bearmi alla bellezza del mondo e delle persone. Forse, in un certo senso, vivo in una specie di bolla, però non ignoro i problemi del paese e del mondo, a livello politico e sociale. Le opzioni sono due: gettare la spugna e arrendersi o cercare, soprattutto nelle piccole cose, di alimentare la speranza per un futuro migliore.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Quando ci si sorprende. Come un bambino nella sabbiera che fa un bel castello, o un settantenne che prende in mano una chitarra e fa uscire da sé qualcosa che spera gli altri possano apprezzare. La mia metodologia per arrivare a stupirmi è presto detta: scegliere un’accordatura strana, in modo da perdermi completamente, e adottare esclusivamente le sensazioni come guida. Lasciare che il cuore soltanto parli per me. Nel mio caso, da un po’ di tempo a questa parte, ha funzionato molto bene, che dici?