
La stazione Leopolda. Fabbrica Europa. Un mondo a sé. Là dentro si respira cultura. Ci si sente un po’ diversi, qualche ora di completa (e)stasi.
Installazioni sonore, composizioni appese alla pareti, arredamenti (stra)vaganti, angoli, sale succosamente interessanti. Un’altra cosa rispetto a là fuori.
La prima installazione, di un giapponese, è evocativa, straniante, perfetta, diversa, coinvolgente. Due quarti di cono posizionati a mo' di convergenza, immagini proiettate su entrambi i lati, un suono alieno circonda l’aria. Persone camminano, felici, sorprese, tranquille, senza sosta. I due flussi si incrociano, sbattono, confluiscono, debordano, scappano. Piccoli sacchi appesi al soffitto, con la loro ombra riflessa sul pavimento, danno un senso di profondità. I nostri sensi vanno in tilt. Il suono è come un contorno imprescindibile. Il loop rimane parte integrante del tutto. Sciabordate minimali saturano la zona, clangori glitch disturbano la vista, spezzettamenti noise ammaliano. La più pura perfezione è lì, a portata di mano. La pace dei sensi confluisce in quel momento. Sedersi guardare, ascoltare, in silenzio, religiosa mutezza, obbligatoria silenziosità.
Questi giapponesi sono di altro livello, non c’è storia alcuna. Non amarli risulta impossibile, se non un delitto all’arte.
Altra fusione suoni/immagini. Questa volta si cimenta un tedesco di estrapolazione berlinese. Uno strato di stoffa a metà altezza. Immagini di sofferenza, violenza, cattiveria, crudeltà, guerra. Proiettate. Sbattute. Sfacciate. Cattive. Orrende. Vere.
Un suono giocoso entra in contrasto, se non in antitesi, con la vista.
Pastiglie elettro, pulviscoli, ammaccature, errori, silenzi, rumori, pause, riprese.
Rimanere in piedi, osservare, come se fosse davanti a noi tutta la nostra vita. I nostri rimpianti. Il passato. La verità. Il suono ci disturba, vuole distrarci. Ma siamo consapevoli. E non cediamo.
Altro capolavoro di sensibilità artistica.
Veniamo al dunque della serata. I Radian. Austriaci. Viennesi. Passati sotto l’ala del deus-ex-machina del rock indipendente anni 90: John McEntire. Poliedrici. Immensi. Straordinari. "rec.extern" ci piaceva, "Juxtaposition" ci stranisce. La loro esibizione ci cattura.
Entrano sotto l’applauso festante dei quasi trecento alternative-boy. Peccato che i succitati visto l’andazzo della proposta pensino bene di chiacchierare, disturbando un suono tanto perfetto. Non meritate tanto.
Si inizia con una suite per batteria-chitarra-campionatore per passare a piacevoli composizioni glitch-noise-rock (suvvia, ormai è diventato una moda inventare etichette). Chitarra fantasma, batteria aliena, strumenti freddi, rumore bianco, saturazione dell’aria. La loro padronanza del genere è per loro quasi un limite. Suonano troppo perfetti. Ma siamo dei completisti e perciò ci sta bene.
Il suono generato dagli strumenti veri viene filtrato dall’individuo al campionatore per arrivare ritardato ai nostri orecchi, per di più disturbato e smembrato come si fa con le interiora di pesce.
Si muovono appena, sembrano lastre di giacchio, robot programmati per portare a termine una missione. Generare suoni. Generatori di suoni, sì, loro sono questo. Un mix strabiliante di aneliti, sussurri, spigoli, dolcezze, ritmi, groove, ammaccamenti, stridii, sbuffi, polvere di stelle, trucioli di acciaio.
Esibizione corta, essenziale, granitica, cristallina, emozionante.
Musica per automi abituati alla perfezione pragmatica, con cuori gelidi, glaciali, immobili. Qui alberga un anima inamovibile, senza pietà alcuna. Gli errori sono solo permessi ai prescelti. I ragazzi sul palco.