
La formula l’ha ideata il vecchio Howe Gelb qualche tempo fa, scegliendo di orientare gli scribacchini della critica con un intrigante e lapidario adagio promozionale, “Giant Sand is a mood”, che chi conosce ed apprezza la band di Tucson troverà una verità difficilmente contestabile. Certo di creature musicali arrivate ad essere identificate con un particolare stato d’animo o con una determinata emozione ce ne sarebbero, eccome. In poche, tuttavia, la forza penetrante di questa corrispondenza, il legame quasi sinestetico tra le note e quel sentimento di struggente malinconia, ha saputo raggiungere la stessa intensità degli Spain di Josh Haden, piccolo fenomeno di culto negli anni novanta tornato a splendere nel 2012 grazie all’incoraggiante rentrée di “The Soul of Spain”.
Anche se al plurale, per il loro ormai mitico esordio la adottarono proprio quella parola, mood, avendo cura di attribuirle una forma densa ed indimenticabile come le loro prime nove canzoni ed un colore non meno eloquente, il blu, aperto rimando all’universo musicale di riferimento e nel contempo strategica prerogativa in una dichiarazione d’intenti sommaria quanto suggestiva.
Ritrovarli a diciassette anni da “The Blue Moods of Spain”, finalmente dal vivo, è stata innegabilmente una sorpresa ma, prima ancora, un’esperienza. Una sorta di immersione e rapimento in quel suono inconfondibile che lo studio di registrazione ha plasmato come un lungo ed ininterrotto incantesimo, poi replicato con variazioni mai troppo determinanti nei due capitoli successivi, “She Haunts My Dreams” ed “I Believe”, ed infine riproposto pure nella più recente fatica, senza perdere anche solo un grammo della credibilità o della malia originarie. Anche in concerto, stessa formidabile profondità. Questione di stile, evidentemente, e di talento. Il suo il mite Josh lo ha ereditato dalla monumentale figura del padre Charlie, contrabbassista jazz straordinario, con la passione devota del discepolo dotato comunque di un suo particolare sentire e capace quindi di non soccombere sotto il peso di un confronto che, per forza di cose, si sarebbe rivelato assai poco clemente nei suoi confronti. Gli Spain sono sempre stati lui e lui è sempre stato gli Spain, per cui è assolutamente fuori luogo parlare di reunion in questo caso, così come resta sostanzialmente irrilevante la marginale parentesi del suo unico disco solista, negli anni di licenza anche creativa dal progetto principe.
La band ammirata nel salone della Maison Musique a Rivoli, per l’ultima data italiana di un lungo tour europeo, non ha punti di contatto con quella che accompagnò Haden nel periodo del suo pur limitato successo, se si tralasciano la caratura notevole di tutti i musicisti coinvolti ed il loro impressionante affiatamento: Matt Mayhall alla batteria, le chitarre di Daniel Brummel e di un giovanissimo Dylan McKenzie, con in aggiunta quella di Randy Kirk, titolare per tastiere e pianoforte, oltre al basso sempre melodico dello stesso Josh. I cinque si sono presentati sul palco dopo il degno set di apertura affidato all’amico Fabrizio Cammarata, voluto proprio da Haden per tutte le recenti date europee.
Nessuna baracconata eccentrica ed anzi una sobrietà così radicale da lasciare impressionati. Josh su tutti, aria mite da professore di matematica ed occhi immancabilmente chiusi, come per non attenuare la presa su una concentrazione davvero proverbiale. Pochissime parole da lui, al di là di quelle canzoni già stringate ma incredibilmente pregne ed espressive: per lo più ringraziamenti al collega palermitano o generici encomi alla bellezza dell’Italia, a parte un paio di fugaci interventi promozionali conditi da un umorismo delizioso, come nel vaticinare “magici accadimenti” ai fortunati che scelgano di acquistare e indossare una T-shirt del gruppo.Per il resto, si diceva, gli Spain hanno parlato come è giusto che fosse esclusivamente attraverso la musica. In maniera forte e chiara, limpida, senza incertezze. Soltanto una manciata di perle dal loro repertorio, con generosa (e ovvia) selezione dal primo disco e una partenza quasi inevitabile con uno dei loro titoli più classici, finito a suo tempo nella colonna sonora di “The End of Violence”di Wim Wenders, mica uno qualunque. Tutto come da copione: lenti, precisi, estremamente fedeli alle versioni in studio. Raccontata in questi termini potrebbe sembrare una condanna, un’esibizione pesante o, chissà, priva di fascino, ma è vero proprio il contrario.
Il sound non avrebbe potuto essere più caldo e palpitante, le parole sono arrivate al cuore toccanti come non mai, l’aderenza ai canoni del verbo slowcore – in genere accolto con perplessità da un autore molto più legato ad altre etichette – è parsa totale. Il concerto non è stato molto più che questo, uno straordinario esorcismo. Un’ipnosi che chi ha amato profondamente i dischi della band losangelina conosce benissimo.
Rieccola intatta, allora, con un potenziale di fascinazione (ed assuefazione) illimitato lungo tutti i novanta e più minuti di spettacolo. Pezzi vecchi e meno vecchi ad intrecciare assieme un discorso di grande coerenza stilistica ed emozionale, andatura piana senza disparità di sorta tra languori jazzy, blues dilatato con genio (“Dreaming of Love”), country-folk di rara eleganza (“Without a Sound”) ed una placida meraviglia esercitata a tutto campo e a pieno fuoco (la nuova “Only One” lavora bene come paradigma).
Soltanto con il motore ormai perfettamente in funzione, Josh ed i suoi hanno regalato al pubblico (tutto sommato esiguo, ma in piena estasi) il piacere sottile di qualche strappo controllato, come con la fragranza soft-rock di “She Haunts My Dreams” che, vecchio trucco, non abitava sull’album con l’identico titolo bensì sul meno apprezzato “I Believe” (di cui è stato il solo recupero in scaletta). Così nel secondo bis l’episodio più movimentato di “The Soul of Spain” (e dell’intera carriera degli Spain, a dire il vero), quella “Because Your Love” che ha offerto un po’ di pepe proprio in coda tratteggiando il migliore degli arrivederci.
La massima intensità – emotiva, in questo caso – la si era però registrata nei frangenti immediatamente precedenti. Con la confidenziale umanità di “Untitled #1”. Con la dolente invocazione di “Spiritual”, che seppe stregare ai tempi persino Johnny Cash.
Ma ancor di più in chiusura di set con l’attesa catarsi di “World of Blue”, torrenziale manifesto del gruppo costruito in un crescendo flemmatico ma inesorabile, scandito dalle ritmiche finalmente categoriche di Mayhall ed impreziosito dall’e-bow al velluto della chitarra di Brummel. Quasi un quarto d’ora di celebrazione del blu come mondo a parte, categoria dell’anima, dote e rifugio, rifugio soprattutto. Un luogo dello spirito che solo l’estrosa ironia del Josh Haden paroliere poteva spacciare per qualcosa di algido. La musica degli Spain stasera l’ha raccontato molto diversamente, ripristinando fino in fondo e senza artifici la verità di quel loro mood così inarrivabile.