Che cosa ci fa l’ex-Vic Damone nel tempio della lirica, attorniato da un’orchestra di archi? Ne è passato di tempo da quando quell’improbabile intrattenitore calcava i palchi di provincia dell’Emilia paranoica degli anni 80, oppure vagabondava per i night-club newyorkesi in cerca di fortuna. Ma sono passati soprattutto 25 anni da quando il proprietario di quell’alter ego, Vinicio Capossela, debuttava con “All'una e trentacinque circa” (1990), inaugurando un decennio che lo avrebbe trasformato da misconosciuto guitto da piano-bar in cantautore più importante della sua generazione. Un quarto di secolo: “Qu'ART de Siècle”, come da intitolazione celebrativa del suo tour nei teatri: ogni sera uno spettacolo diverso, scelto con cura per rispetto al luogo, agli ospiti e alla memoria, da Parigi a Bruxelles, da Catania a Milano.
Eccolo là, allora, sul palco del Teatro dell’Opera, l’arruffato mattatore del “Liveinvolvo” e di tutte quelle memorabili performance che hanno avuto il loro indiscusso apice di delirio nell’alba al Pincio durante la Notte Bianca romana del settembre 2006. “Chiudo gli occhi e rivedo quella notte magica. Poi li apro e vedo un condominio”, scherza alludendo alle numerose persone affacciate ai palchi, che sembrano le tante terrazze di uno di quei palazzi affollati che conosce bene.
Il concerto di stasera è unico, sia per il titolo scelto (“Fantasmagorie”), sia per la presenza dell'orchestra d'archi Maderna, diretta da Stefano Nanni. “Diamo spazio alla fantasia e ci prendiamo una rivincita sulla menzogna della realtà”, è l'avviso ai naviganti del Capitano, seduto al piano con mise da corvo (non torvo).
Si parte con uno dei tanti omaggi letterari del suo repertorio, quello a Louis-Ferdinand Céline, maestro di traversate nei dirupi dell’animo umano: è “Bardamù”, la traccia d’apertura dell’epico “Canzoni a Manovella”, ispirata proprio al protagonista di “Viaggio al termine della notte”. Un brano in cui l’orchestra funziona come se fosse l’ingranaggio di un organo da fiera – come spiegò all’epoca lo stesso Capossela. In principio era la manovella, l'innescamotore, ma anche la necessaria carica di aggeggi ambulanti che bruciano l'aria di melodie familiari. Come nella “Polka di Varsavia”, frammento che racchiude in pochi secondi la disperazione e le speranze dell'Europa di un secolo fa. O nella sempre struggente “Con una rosa”, elegia floreale distesa sul candore di archi e piano. E non può mancare il divertissement esotico di "Maraja", a trasformare le "Mille e una notte" in un’ubriacante pantomima alla Kusturica.
Un delirio, ma contenuto. Siamo pur sempre nel teatro in cui nel 1890, un semi-sconosciuto Pietro Mascagni debuttò con la sua “Cavalleria rusticana”. Capossela lo ricorda con devozione e quasi non ci crede: “È una cosa meravigliosa stare qui, è un'emozione grande” – dice, e si inchina tenendosi il tricorno con la mano. Il pubblico è in adorazione permanente, gli perdona anche qualche passaggio vocale non brillantissimo, lo incita, lo coccola. E lo asseconda quando chiede un applauso “più fantasmagorico”, facendo solo schioccare le dita per simulare il tintinnio delle gocce di “Nella pioggia”, cantata sotto l’ombrello.
Particolarmente corposo il capitolo dedicato alla “Marina Commedia”. Con la filastrocca in “sirenese” di “Pryntil”, le odi solenni di “Goliath” e “Il grande Leviatano”, l’approdo a “Nostos” e l'apologo splendido e terrificante di "La bianchezza della balena" ("niente è più terribile di questo colore, una volta separato dal bene"), liberamente ispirato da un passo di "Moby Dick". E sarà proprio l’epilogo di “Marinai, profeti e balene” a chiudere il sipario sul concerto, con il canto sublime de “Le sirene”, che “parlano di te, quello che eri, come fosse per sempre”, grazie anche a un magnifico theremin che simula quelle malefiche soavità. Del resto, l’odissea tra vascelli fantasma, sirene, polpi, balene e foche barbute fu una tappa cruciale del cammino del cantautore nato a Hannover, così come quell’“Ovunque proteggi” pure abbondantemente saccheggiato per questa notte all’Opera: dalla malinconicissima “Dove siamo rimasti a terra Nutless” (omaggio al protagonista di “C’era una volta in America” di Sergio Leone) alla preghiera laica della title track (penultima in scaletta), fino alla doppietta che incendia i bis: prima la truculenta rievocazione dei rituali circensi romani di "Al Colosseo", con tanto di richiesta al pubblico del pollice verso o all’insù; poi una spaventosa "Brucia Troia" digrignata tra i denti con voce di carta vetrata e copricapo da Mamutones in testa. Due mazzate da ko eseguite senza orchestra, al termine delle quali Capossela si ricompone, quasi imbarazzato. Siamo pur sempre al Teatro dell’Opera, anche se gremito come una curva, in versione sold-out.
Il tempo passato si fa sentire quando canta “Una giornata senza pretese”, ripescata dall’album d’esordio: “Era 25 anni fa - dice Capossela come per convincersi – Ma mi ritengo molto fortunato: sono arrivato ancora vivo ai rombanti anni 50. Un’età in cui però si comincia a ricordare qualche amico che non c’è più, come Renzo Fantini (il suo primo produttore, ndr)”.
Vecchie o no, le sue canzoni esplodono con la delicatezza dei violini dell'orchestra – mai sopra le righe, grazie all’accorta direzione di Nanni. Archi che ingentiliscono armonie esili come quelle di “Modì”, la title track dell’opera seconda targata 1991, o di “Il paradiso dei calzini”, eden beffardo in cui “vanno a finire beati, i perduti con quelli spaiati, quelli a righe mischiati con quelli a pois”.
Non mancano piccole chicche a sfondo fanta-animalesco: dal “Bestiario d'amore” di R. De Fournival, al "Requiem per animali immaginari" firmato dallo stesso Nanni, fino al “Pumminale”, il cane mannaro che troverà la sua tana nel prossimo album di Capossela “I racconti della cupa”, a cui l’autore de “Il paese dei Coppoloni” lavora da ben tredici anni.
Dopo tre ore di canzoni, cappelli, giacche, coriandoli, presentazioni fantasiose e trovate sceniche, cala il sipario. La mezzanotte è passata e quella sagoma di Vic Damone l’ha fatta a tutti anche stavolta. Espugnando addirittura il Teatro dell’Opera, a poche ore da Natale. Chi l’avrebbe detto, un quarto di secolo fa.