Un alone di foschia vela il tramonto sulle rovine romane del Circo Massimo, mentre il pubblico sciama lungo le collinette che conducono alla grande vallata (più o meno) verde incuneata tra il Palatino e l'Aventino. Tutti in fila, molto diligentemente, per assistere all’orazione-monstre dell'ultimo imperatore del rock, almeno di marca floydiana: sua maestà Roger Waters, santone visionario e inveterato castigamatti di potenti e maiali d’ogni epoca. Stavolta, però, c'è anche molta curiosità musicale, perché l'Us + Them Tour è un imprevedibile omaggio alla band-madre, un “c'eravamo tanto amati” che per due ore e mezzo fa dimenticare tutte le amarezze di quel “Final Cut” con cui il bassista-leader tagliò il cordone ombelicale con i compari, con tanto di coda velenosa di polemiche e scontri legali. Forse, però, quel “Pink Floyd's Roger Waters” che campeggia sui biglietti e sulle locandine è anche una fiera rivendicazione, un modo per ribadire – a chi ancora non l'avesse capito – che la band finì quel giorno di dicembre del 1985 quando Waters sbatté la porta (fatto sul quale chi scrive non ha mai avuto dubbi: sarebbe come immaginare i Beatles senza Paul McCartney).
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Welcome to the machine
Seduti sulla brulla superficie dell’arena, si resta ammirati dalla maestosità del palco con gigantesco maxischermo di 66 metri per 12 sul quale verrà proiettato il film in 4K che il compositore-regista ha ideato per l’occasione, un kolossal distopico in cui prendono forma tutti gli orrori della società contemporanea: conflitti, tortura, povertà, disumanizzazione di un sistema globale sempre più governato da macchine e algoritmi. Anche la calma piatta del prologo si vena d’inquietudine, con una donna seduta in spiaggia che scruta il mare all'orizzonte mentre il cielo si fa sempre più scuro e minaccioso. Una spiaggia lontana e generica ma che, trattandosi di Waters, rimanda inevitabilmente a quella situata a 50 chilometri da qui, ad Anzio, dove il padre Eric Fletcher Waters, ufficiale dell'esercito britannico, morì falciato dalle mitragliatrici della Wehrmacht.
Il primo rullo della batteria di Joey Waronker squarcia il silenzio religioso dell’attesa, mentre una luna argentata punta decisa la spiaggia, con una rotta di avvicinamento sinistra in stile “
Melancholia”. Nel buio, ora, si effondono i suoni avvolgenti di “Breathe”, il lato sognante di “
The Dark Side Of The Moon”, ma è solo la quiete prima della tempesta di “One Of These Days” con quel basso pulsante di Waters che, amplificato sperimentalmente con eco Binson, gettò le basi del capolavoro di “Meddle”. Poi è tempo degli orologi impazziti di “Time”, con le lancette che sfrecciano sullo schermo accompagnando il canto desolato di Waters, ammonimento sempiterno sulla fuggevolezza della vita, mentre immagini di senzatetto scorrono durante la celebre strofa “Home again” della
reprise di “Breathe”.
Tutto scorre perfetto, forse persino troppo, in un montaggio congegnato fin nei dettagli. Anche per questo fanno un effetto un po’ dissonante le platinatissime coriste, Jess Wolfe e Holly Laessig delle
Lucius, le cui
paillettes si confondono con le stelle nella galassia di “The Great Gig In The Sky”, facendo per la verità rimpiangere un po' i gorgheggi – quelli sì, davvero stellari – della benemerita Clare Torry, uno degli assoli vocali meno remunerati (30 sterline!) e più redditizi della storia del rock.
Sulle note di “Welcome To The Machine” (da “Wish You Were Here”) emerge finalmente sullo schermo il volto solcato dalle rughe di Waters ed è subito ovazione dei 45mila adepti. “If I had been God… I believe I could have done a better job”, si auto-incensa tra gli archi in “Déjà vu”, uno dei brani del suo ultimo album solista, “
Is This the Life We Really Want?”. “Roger, tu sei Dio!”, lo venera la folla, prima di sciogliersi nella commozione di “Last Refugee”, mentre lo schermo ritrae una bambola di pezza sepolta dalle onde, e di assecondare l’invettiva di “Picture That”, che Waters scandisce muovendosi da una parte all’altra del palco, avvinghiato all'inseparabile basso a quattro corde.
Poi calano le luci e la nostalgia di “Wish You Were Here” si impossessa dell’arena, con gli smartphone a surrogare i vecchi accendini, accompagnando il canto ingentilito di Waters, che per l’occasione imbraccia l'acustica, facendoci riassaporare il ricordo struggente di testamatta
Syd Barrett. È il traino ideale per l’apoteosi di “Another Brick In The Wall”, che rifulge in tutta la sua potenza, con la sua
intro minacciosa d’elicotteri, il suo
hook inesorabile e la sua andatura funk-rock, facendoci apparire una volta di più ridicole le critiche dei fan integralisti dell’epoca. Il coro originario dei 23 ragazzi della Islington Green School di Londra viene rimpiazzato dalle voci di un gruppo di giovani cantanti romani vestiti da detenuti di Guantanamo con sulle magliette lo slogan “Resist”.
“Ora facciamo una pausa, ci vediamo tra 20 minuti”, avverte un soddisfatto Waters.
The great pig in the sky
L’intervallo, però, è tutt’altro che noioso. Perché sullo schermo prende corpo il sermone politico di Waters, attraverso una serie di messaggi ed esortazioni, con tanto di parata in
slide di una serie di personalità del “neo-fascismo internazionale”: oltre a Trump, Orbán per l’Ungheria, Le Pen per la Francia, Kurz per l’Austria, Farage per il Regno Unito, Putin per la Russia. C’è chi gli ricorda il degno compare Salvini, assente ingiustificato all’appello (chissà se per una forma di galanteria verso il paese ospitante).
Poi, il vero colpo di scena dello show: un fragore degno di un terremoto annuncia la trasformazione del palco. Sul gigantesco schermo affiorano quattro ciminiere fumanti per una titanica riproduzione della centrale elettrica londinese di Battersea Power Station, sorvolata dal maiale Algie, proprio come sulla copertina di “Animals”. È una delle più geniali icone concepite dai Pink Floyd con lo studio Hipgnosis di Storm Thorgerson, da inserire in un’ideale galleria assieme alla mucca di “
Atom Heart Mother”, al prisma di “
The Dark Side Of The Moon” e ai mattoni bianchi di “
The Wall”. Ed è l’abbrivio alla fase più politica del concerto: ricorrendo ancora alle metafore
orwelliane di “The Animal Farm” (“All animals are equal, but some animals are more equal than others”), Waters mette alla berlina i nuovi cani e maiali della politica mondiale. In prima linea naturalmente Donald Trump, trasfigurato da caricature quasi
warholiane: col rossetto sulle labbra, pupone microdotato e, naturalmente, ributtante porcello. Lo stesso Waters indossa la maschera da suino per ricordarci che “Big man, pig man/ Ha, ha, charade you are”.
Ma a rendere questa fase l'apice emotivo del concerto è soprattutto la musica, con le due epocali suite di “Dogs” e “Pigs” mirabilmente riproposte dal gruppo sul palco, con le
performance impeccabili di Dave Kilminster e
Jonathan Wilson alle chitarre e di Jon Carin alle tastiere (buon epigono del sommo Wright). È un colpo al cuore, questa riscoperta di “Animals”, che gli effetti quadrifonici delle 12 torri restituiscono in tutta la sua magnificenza sonora.
C’è ancora tempo per un ritorno sul lato oscuro della Luna, con una corrosiva “Money”, accompagnata dai volti di una pletora di leader politici (con cameo anche di Berlusconi), una sempre commovente “Us And Them”, storica ballata pacifista virata al dramma dei migranti, e l’accoppiata “Brain Damage”-“Eclipse”, con tanto di prisma di luce arcobaleno a investire il palco. A inframezzarli, una “Smell The Roses” solista che però profuma di inconfondibili aromi
floydiani.
Stay human, stay foolish
Ora Roger è un po’ stanco di suonare. Dopo aver lasciato quasi solo spazio alle sue canzoni per due ore, prende in mano il microfono come un improvvisato oratore dello Speakers' Corner di Hyde Park. E inizia il suo comizio personale. "Grazie di cuore a tutti, vorrei che l'amore che sento qui uscisse dal Circo Massimo e si diffondesse in giro per il mondo. Non possiamo restare indifferenti, dobbiamo farlo per i nostri figli, dobbiamo permettere anche a loro di godere delle colline toscane come del deserto dell'Afghanistan. Dobbiamo difendere il mondo, altrimenti questi politici lo distruggeranno. Restiamo umani”. Ricorda anche l’impegno di chi ha consentito a quattro imbarcazioni cariche di migranti di approdare in Italia, nonostante la chiusura dei porti. E non rinuncia alla sua proverbiale vena burbera: “Ieri sono andato su Facebook e ho letto il commento di un fan mi ha chiesto di cantare e basta, senza parlare di politica. E ho pensato: Fuck you, prick! Sei qui tra noi, fatti vedere?”. Poi capisce di aver un po’ esagerato: “Sono stato scortese, ma nessuno può impedirmi di parlare”. Nella presentazione dei musicisti, si diverte a ricordare massime a lui care: “In nessuna band può mancare un hippie”. Ed ecco l’ottimo Jonathan Wilson. “E non può mancare nemmeno uno scozzese” (nella fattispecie, il sassofonista Ian Ritchie). “Ora vi devo parlare un po’ di mia madre”, scherza infine, attaccando il penultimo pezzo in scaletta, tratto da “
The Wall”: una intimista “Mother” sulla quale si spengono le luci dello schermo lasciando la scena al solo Waters con chitarra acustica. “Restiamo umani”, chiede ancora, stavolta in italiano. Prima di lanciarsi nella chiusura del concerto: quella “Comfortably Numb” che forse più di tutte ridesta il fantasma del convitato di pietra
David Gilmour, anche se Kilminster e Wilson fanno di tutto per non farlo rimpiangere. Cala il sipario sull’evento più atteso della rassegna Rock in Roma. La Capitale ha risposto con l’entusiasmo delle grandi occasioni, ma il deflusso è composto, come all’uscita dalla messa.
Sempre più bianco di capigliatura e nero di umore, ma in buona forma a dispetto delle sue 75 primavere, Roger Waters non arretra di un millimetro. Le sue ossessioni (le macchine, i regimi totalitari, il controllo del pensiero, l’avidità e la follia del potere) restano incredibilmente attuali oggi come quarant’anni fa. E la sua arte, sinestetico
patchwork multimediale di musica e immagini, non ha perso un grammo del suo fascino.
Si potrà continuare a considerarlo un irrecuperabile rompiscatole. Ma in un tempo in cui si avverte dannatamente la mancanza di personaggi capaci di stimolare riflessioni sui nostri orrori quotidiani, questo canuto donchisciotte continua a incarnare ciò che resta della missione primigenia del rock: cambiare il mondo con la sola forza della sua arte.
Resist!
(Crediti delle foto: PitLife Danilo D'Auria & Giuseppe Maffia, Raffaella Rossi)