25/05/2019

Hermann Nitsch

Basilica di Santa Maria dei Servi, Bologna


Pochi strumenti hanno suggestionato la fantasia umana come l'organo: la sua capacità di generare suoni continui nel tempo, che non decadono come quelli del pianoforte o del clavicembalo ma rimangono sospesi in un'eternità violabile solo dalla volontà dell'esecutore, l'hanno reso la più verosimile trasposizione musicale della voce di Dio, solenne e ieratica come le mastodontiche dimensioni di alcuni esemplari. Tutti i massimi compositori di ogni epoca, presto o tardi, si sono dovuti confrontare con lo strumento che più di ogni altro incute soggezione, uscendone quasi sempre soggiogati alle sue condizioni: chi vuole domarlo dovrà dargli in pasto musica tassativamente sacra. Sarà per questo che i pochi che hanno osato profanarlo hanno partorito partiture somiglianti a quello che poteva essere il caos precedente alla Creazione o successivo all'Apocalisse: musica peccaminosa, ma comunque sovrumana.

Due anni fa, in questa stessa chiesa e sempre nell'ambito dell'AngelicA Festival (possiamo dirlo una volta per tutte che si tratta del più prezioso evento musicale italiano se non europeo?), il pisano Francesco Filidei ci diede un impressionante saggio di eresia musicale, accompagnando nulla meno che Roscoe Mitchell: istigate dagli strazianti pigolii del titano chicagoano, le canne del magnifico Tamburini si sono trasformate in un elettrofono imbizzarrito vomitante note dilaniate e spettrali, sprazzi di colore scagliato come in un quadro di Pollock, tela mostruosa come un mare in burrasca. Un'esperienza che chi c'era faticherà a dimenticare, e che questo pomeriggio troverà un seguito altrettanto memorabile.

Hermann Nitsch ne ha combinate così tante e così gravi che vederlo officiare una messa pagana in una basilica cristiana ci sembra tutto sommato poca cosa. Non ci sorprende che abbia scelto Bologna per questa prima italiana del suo ORGELKONZERT: proprio in questa città, nel lontano 1977, tenne una delle sue performance più famigerate nell'ambito della Settimana Internazionale della Performance organizzata dalla Galleria d'Arte Moderna, durante la quale sfilarono pure Marina Abramovic e Ulay, Laurie Anderson, Gina Pane e Luigi Ontani. A osservarlo da vicino mentre si avvia alla sua postazione, somiglia poco allo scandaloso terrorista-santone che ha martoriato l'arte del '900 come una puttana nelle mani di un serial killer: un ometto curvo sul suo bastone, con quella barba incolta più simile a un babbo natale ortodosso che a un Rasputin dagli occhi fiammeggianti. Simpatico, quasi bonario: e forse, proprio per questo, ancora più inquietante. Dopo la diligente introduzione del curatore Leopoldo Siano, anche co-esecutore insieme a Josef Smutny e allo stesso non-musicista viennese (che nel frattempo si è scaldato con un liquore non identificato), il rituale può avere inizio. Seguiranno quattro atti, come nella più classica delle sinfonie, ma con esiti ben poco accademici: la sua personalissima e ben poco rassicurante idea di "musica delle sfere".

Il primo parte con un lunghissimo bordone, immobile come un rinoceronte morto a inizio putrefazione, che mano a mano modula uno stridente cluster. Sembra volerci prendere per esasperazione, come certe elevazioni irrisolte di Charlemagne Palestine, ma proprio quando ci abbiamo fatto il callo, ci toglie il tappeto da sotto i piedi simulando il trotterellare di un corno, poi uno squillo di tromba, infine riprendendo la sua fiaccante levitazione. Siamo nei paraggi dei droni vischiosi di La Monte Young ma, a differenza del Teatro della Musica Eterna, quello delle Orge e dei Misteri predilige la tortura all'estasi: ed eccolo dunque arrotare l'ascia in una spirale sempre più dissonante, fino a farsi vortice e avvolgerci in un inferno di cartapesta da film espressionista. Sempre cinematografica, ma più prossima a uno slasher di serie Z, è la lama che squarcia il telaio, sprizzando a più non posso fiotti fucsia e interrompendosi a tradimento in uno stacco brutale, così netto che sembra non possa esistere altro dopo una pausa tanto lacerante.

Il secondo, appena più garbato e meno schizoide, inizia sciorinando delle notine Ligeti-iane simili a gocce d'acqua torbida, seguite da un silenzio più parodistico che austero. Si riprende su un registro più acuto ma con timbro brumoso e una costanza un po' sinistra, presto stirata da un lamento lancinante. La faccenda evoca di volta in volta immagini differenti: una palude, una fontana, un campo magnetico. Il suono ribolle in maniera viscerale, nel senso di viscere. Sarà un caso che uno splatterofilo come Nitsch prediliga uno strumento che, in più di una lingua, si chiama come le unità sistemiche di quei corpi che ama tanto fare a pezzi?

Il terzo pare studiato a tavolino per darci fastidio: acidognolo, gorgoglia per un po' prima di sputare ulcerose vampate, spente da un effetto che somiglia a un leslie ma quasi sicuramente non lo è. Il finale, un vento saturo come un'iniezione di white noise, dimostra quanto un organo a canne possa emulare un sintetizzatore steampunk, se dissacrato col giusto godimento.

L'ultimo si ricollega in qualche maniera agli umori contraddittori del primo: uccellini cinguettanti e sciabolate in piena faccia, un violoncello invisibile che ci infilza come uno spillone, una massa d'aria che si condensa nell'alito di un drago, poi uno scroscio o forse un tuono. Segue quello che, chiudendo gli occhi, potremmo ancora una volta scambiare per un synth, abbattuto in volo dentro un marasma che fa calare la notte sull'universo intero, proprio mentre il sole sta tramontando al di là delle vetrate.

Una lunga interruzione: sarà finito? Impossibile capirlo, e il protagonista si diverte come un pazzo a tenerci sulle spine, ghignando al pensiero dei viaggi mentali che stiamo elucubrando per giustificare quel silenzio così verosimilmente carico di significato. Sì, è finito, e noi tanto per cambiare siamo dei poveri fessi. Applausi a grandine tanto per sentirci un filo meno stupidi. Sorridente come il nonno che non ho mai avuto e mai vorrei avere, si offre con inattesa disponibilità ai tanti obiettivi pronti a immortalarlo: è davvero questo "l'artista più pericoloso del secolo"? Mi passa vicino: ha un odore stranissimo, non saprei dire se sgradevole o accattivante, ma in qualche maniera coerente col personaggio e la situazione. Oppure la mia testa è andata definitivamente in pappa.

E' ora di cena, ma digiunerò: le budella sono ancora sottosopra per quegli affondi così turbinosi e penetranti. Mi fa male un po' dappertutto. Credo che me ne andrò a letto, ma sforzandomi di rimanere sveglio: dopo un concerto simile, arrischiarsi a sognare è l'ultima cosa auspicabile.