Fatoumata Diawara fa il suo ingresso nel prestigioso palco della Sala Santa Cecilia nell’Auditorium del Parco della Musica abbigliata con uno splendido abito tradizionale maliano. Il concerto è l’atto conclusivo della lunga rassegna “Roma Europa Festival” iniziata a settembre che ha visto esibirsi in diversi teatri capitolini artisti da tutto il mondo.
Nel corso della serata la cantante maliana presenta il suo ultimo lavoro “London Ko”, album co-prodotto da Damon Albarn che ha l’ambizione di mescolare le sonorità afro-pop con il dub e l’elettronica inglese. Rispetto alla versione in studio, i brani vengono riadattati in omaggio alla location e ai musicisti che accompagnano l’artista. Intriso di un'essenza funky jazz, ogni pezzo sboccia con ampio spazio per l'improvvisazione, evolvendosi in vetrine dinamiche accentuate da estesi assoli. Particolarmente affascinanti sono quelli alla chitarra di Diawara, dove la sua abilità come solista risplende brillantemente.
Il primo segmento del concerto prosegue in maniera lineare, a parte un temporaneo problema tecnico che l’artista gestisce egregiamente intrattenendo il pubblico raccontando qualcosa di sé e salutando la sua famiglia presente in platea (a fine concerto ci sarà tempo anche per un tenero abbraccio con suo figlio).
Come sempre, l’artista africana non si è limitata a cantare ma ha riservato anche del tempo per veicolare i suoi messaggi positivi di fraternità e amore. In “Mogokan”, non è presente il rapper ghanese M.anifest a supportarla e per questo il brano viene introdotto da un monologo in cui se ne spiega il significato. Ripulita dalle influenze hip-hop originali, la traccia esalta la performance della cantante, che nella sua ieratica posa, con il suo elegante abbigliamento, tocca le corde della chitarra a una velocità sostenuta senza apparentemente fare alcun movimento, offrendo un momento di magnifica presenza scenica.
Fra i temi sociali trattati, non può mancare un cenno alla sua sentitissima battaglia contro la mutilazione genitale femminile, affrontata in “Sete”. “Dio ci crea perfetti quando nasciamo e non ha bisogno di persone che, in sua vece, completano il lavoro”, denuncia con veemenza. Il brano si innesta nella seconda parte del concerto nella quale Diawara, liberatasi dalla chitarra, si muove con più libertà sul palco. Abbandonando il suo precedente atteggiamento sobrio, attraversa il palco, innesta frequentemente un dialogo con la band e con il pubblico e si abbandona a frenetiche danze africane.
Prima di eseguire “Nsera” chiede a tutto il pubblico di alzarsi in piedi. Da quel momento la platea si trasforma in un’arena che fra battiti di mano, sventolii di bandiere maliane e applausi a scena aperta accompagna la band in un vorticoso finale con la travolgente “Massa Den” e la stupenda “Blues” dilatate ed espanse in modo da consentire a tutti i musicisti di mettere in mostra le loro abilità tecniche.
C’è tempo ancora per un altro brano, “Anisou”, uno dei pochi a non essere stato estratto da “London Ko”, con il quale Diawara intreccia musica, danza e teatro. Emerge sul palco adornata con una sorprendente maschera tribale e attraverso vocalizzazioni e danze sfrenate mette in scena uno dei momenti a più alto impatto emotivo. Il culmine si raggiunge quando, levandosi la maschera, lancia un grido lancinante di liberazione. Per un attimo nella platea cala il silenzio; solo un attimo prima che il pubblico tributi una meritatissima standing ovation a un’artista capace di offrire uno spettacolo impeccabile dal punto di vista tecnico e scenografico e nello stesso tempo di gettare una luce su tematiche sociali che non riguardano solo l’Africa. Riguardano tutti.