08/03/2023

Horse Lords + Julia Reidy

Spazio Teatro 89, Milano


L'ultimo album mi era parso un po' indigesto. L'assalto strumentale, le reiterazioni incessanti, la dinamica sempre caricata mi avevano lasciato più frastornato che incuriosito. Un po' mi ero fatto l'idea che i giorni migliori degli Horse Lords fossero finiti con "The Common Task".
Mi sono dunque avviato verso la data milanese del quartetto di Baltimora, organizzata da Volume Dischi e Libri presso lo Spazio Teatro 89 di Via Fratelli Zoia, senza troppe aspettative. Situazione ottimale per restare sorpresi: e così è stato.

 

Il terreno è preparato dalla (a me) sconosciuta chitarrista statunitense Julia Reidy, che imbraccia uno strumento i cui tasti appaiono sparsi lungo il manico come in un anagramma. Una chitarra microtonale, i cui suoni astrusi sono valorizzati da una moltitudine di pedali, disposti ordinatamente sopra a un tavolo. Loop e riverberi, corde vuote e armonici naturali sono gli ingredienti del suo set, ammaliante e un poco alieno. Forse su disco la troverei monotona, ma dal vivo incuriosisce.
L'arrivo, dopo una breve pausa, degli Horse Lords fa percepire lo stacco. Doppia batteria, chitarra, basso, qualcosa più che occasionalmente anche sasssofono: se la musica di Reidy era un pigro fluire, quella della band americana è un fiotto a piena potenza. Anche qui reiterazioni e armonie non convenzionali la fanno da padrone: sia il chitarrista Owen Gardner che il bassista Max Eilbacher utilizzano strumenti modificati, con tastiere ora fitte ora diradate per cogliere il potenziale della "just intonation". Antico schema di suddivisione delle note dal nome forse oscuro, ma con effetti uditivi più che palesi: gli intervalli che si susseguono suonano perennemente "sbagliati", perché sottilmente differenti da quelli a cui secoli di temperamento equabile ci hanno abituati, eppure perfetti.

E poi c'è la questione del volume e degli sviluppi temporali. Combinando la veemenza del noise-rock e la circolarità dell minimalismo, il pienissimo "massimalista" dei quattro del Maryland è una continua scarica di cambiamenti e ripetizioni. Prese da sé, le parti di ciascuno strumento sono micidialmente essenziali e ripetitive. Lo stesso terzetto di note di chitarra può proseguire, invariato, per interi minuti. Nell'insieme, tuttavia, la mutazione è costante. Le frasi ritmiche si sovrappongono su tempi diiversi, generando a ogni battuta nuove e disorientanti configurazioni. E un attimo prima che ci si possa dire "ok, ho capito" uno dei musicisti sostituisce la sua frase. Quando a farlo è la chitarra o il sax, la transizione è vistosa ma leggera; quando invece tocca alla batteria, è come se nel bel mezzo di un primo piano cambiasse la scenografia. La nuova atmofera si impone prima che la mutazione si faccia notare a livello consapevole. Per un attimo,è come se il tappeto mancasse sotto i piedi.

 

Astratto e martellante, il suono degli Horse Lords è il math-rock al suo stato più puro. Tempi dispari e poliritmi, accordature inusuali e proteiformi innesti elettronici, il gorgo che propongono pare alimentato più dalla geometria che dall'intelligenza espressiva. Può sembrare un insulto e forse in un differente contesto lo avrei visto così anche io. Ma per un'ora e qualcosa, dalla galleria dello Spazio Teatro, mi è parso il massimo della vita.

 

Foto di Chiara Ciriello ©