Può il tempo, ancor più che lo spazio, influire sulla resa di un'esibizione? Può il naturale ripetersi del giorno e della notte riflettersi sulla resa emozionale di un concerto? Sono domande retoriche naturalmente, il contesto non è mai neutro ai fini di una qualsiasi attività, eppure si rivelano domande tutt'altro che di poco peso, se rapportate nell'ambito di una cornice privilegiata come quella del Chiostro della Basilica di S. Croce a Firenze. Vi è infatti un evento veramente speciale a chiusura della sesta edizione di una rassegna meritoria quale è Genius Loci, tesa a valorizzare il patrimonio millenario dell'intero corpo monumentale della basilica attraverso un fitto ciclo di conferenze, incontri, concerti. Al posto della consueta esibizione in prima serata, il festival sposta di diverse ore il finale e decide di proporlo all'alba, al chiudersi di una luminosissima notte di luna piena, col passaggio ai primi bagliori del giorno a rappresentare l'ideale completamento dell'intero ciclo. In giro da qualche giorno in Europa per presentare il suo ricco catalogo, Nika Roza Danilova è l'artista scelta per chiudere questo sesto corso, la voce chiamata a dare testimonianza del nascere di un nuovo giorno. Anche a essere coscienti dell'eccezionalità di luogo e orario, ben poco poteva far presagire quanta potenza l'insieme avrebbe saputo generare.
Voce e pianoforte: a Zola Jesus non serve nient'altro per raccontarsi, affrontare i brani dell'ultimo album e percorrere a ritroso i progetti più vecchi, quasi in una sorta di breve greatest-hits di un'intera carriera. Lontanissimi sembrano i tempi delle manipolazioni electro di “Conatus”, ancora di più le coltri rumoriste di “The Spoils”. A dimostrazione del fatto che sotto le varie trasformazioni sonore ha sempre pulsato una solida veste autoriale, le canzoni di Danilova si mostrano nella loro pura essenzialità, traggono vantaggio dall'assenza di interventi terzi per ridestare una forza emotiva spesso troppo contenuta. È una forza che naturalmente il contesto del chiostro aiuta ad amplificare, e che rapisce immediatamente l'artista, sin dal momento in cui, con una voluminosa stola per far fronte ai primi rigori notturni, calca il palco posto sul lato settentrionale. Avrà modo di ribadirlo nei vari momenti di interazione con il pubblico (sempre rispettoso e coinvolto), di quanto sia sfidante il contesto, e allo stesso tempo di quanto l'occasione concessale sia semplicemente magica, unica in un percorso che eppure non ha mancato di portarla in luoghi eccezionali (il live in Cappadocia pubblicato lo scorso anno è l'esempio principe). Nell'ora di esibizione, la magia si fa totalmente tangibile.
Col fido tablet a fare le veci dei vecchi spartiti, l'artista si siede e attacca immediatamente con la sua scaletta, esibendo sin dall'incipit la forza di un lirismo che la voce esprime in totale pienezza. Cover di un pezzo della tradizione popolare armena, “Krunk” è forza e delicatezza, la migliore dedica possibile a un popolo nuovamente minacciato dal conflitto con l'Azerbaigian. È un inizio imponente, la dimostrazione di un talento interpretativo che non ha dimenticato gli studi classici della gioventù, li sa anzi sfruttare, affidando loro messaggi di rilievo. Senza stacco alcuno, “Soak” e “Sea Talk” completano il trittico iniziale in rapida successione, comprovando la felicità di una scrittura che l'essenzialità del pianoforte riesce a esaltare, non facendo mai provare la nostalgia del ricco armamentario sintetico di partenza.
Piccola pausa per i meritati applausi e le prime parole col pubblico (tra cui pure un “buongiorno” con tanto di gesto italiano) e la serrata ballad “Lick The Palm Of The Burning Handshake” apre il secondo segmento, stemperando il suo impeto marziale con una punta di sofferto romanticismo. “Into The Wild” prosegue sullo stesso paradigma, giocando su un insistito arpeggiare che si apre in un ritornello commosso e liberatorio. La vera sorpresa arriva però immediatamente dopo: da poco tempo parte del suo repertorio dal vivo, e forse ancora non sufficientemente rodata nell'esecuzione pianistica, “Dido's Lament” di Henry Purcell è un'immersione barocca che Danilova affronta con assoluta credibilità, la disperazione di Didone ad adattarsi alla perfezione ai primi chiarori del giorno, pira che si accende e che il chiostro sembra riflettere con grande senso di partecipazione.
Nuovi ringraziamenti, e “Wiseblood” inaugura la seconda metà dell'esibizione, regalando la melodia che il pubblico sembra conoscere e apprezzare maggiormente, per un momento che in un altro contesto avrebbe sicuramente portato a un coinvolto sing-along. Sempre dall'apprezzato “Okovi” seguono in rapida successione “Siphon” (riadattata in un gioco pianistico che la avvicina a una cantata romantica) e “Witness”, leggermente accelerata rispetto alla versione in studio, ma capace di mantenere intatto l'incantesimo anche senza l'ausilio degli archi, con la puntualità di accenti espressivi che attraversano l'aria del chiostro come punte di ghiaccio. Piccola pausa per spillare la stola cadente, spendere ridendo qualche altra bella parola per l'Italia, e “Skin” chiude il segmento con nuova emotività, un deep-cut da “Conatus” il cui messaggio liberatorio adesso rivela affascinanti pieghe soul.
È oramai mattina, il campanile della basilica si staglia chiaro sul cielo e anche gli accompagnamenti luminosi che circondano Zola Jesus si fanno più discreti. Non per questo il finale cala in intensità. Con una “Night” che già dal testo si adatta alla perfezione con l'arrivo dell'alba, il passaggio di testimone con “Desire” dà un nuovo assaggio del carattere vocale dell'artista, della cura immessa in un'interpretazione che si fa più bruciante del desiderio stesso.
Poteva finire qui e nessuno avrebbe avuto molto da ridire, d'altronde non erano mai stato promesso un bis. Quasi a far da specchio all'apertura, “Plyve kacha”, folk-song diventata patrimonio culturale condiviso in Ucraina, chiude l'ora di concerto in un importante tributo alle vittime e ai profughi ucraini causati dall'invasione. Nella storia del paperotto che attraversa il fiume, nella simbologia di guerra e morte sottesa a tale attraversamento, Nika Roza Danilova si fa testimone delle sue ascendenze slave, condivide la sofferenza di un popolo intero, conclude in maniera esemplare un'esperienza che i duecento astanti non riusciranno a dimenticare. Come è venuta, così se ne va, grata e allo stesso tempo sfuggente. La magia condivisa, quella però non fugge proprio...