Questo pomeriggio ci saranno le prove di Steve con la band RanestRane e… beh, non possiamo dirvelo!
Ripensiamo a questa frase diffusa da
Davide Costa di
The Web Italy - il
fan club dei
Marillion e, come diretta conseguenza, del loro
frontman – quando vediamo
Steve "H" Hogarth risalire sul palco per iniziare il secondo atto. E' scortato dai suoi collaboratori d’eccezione – la talentuosa
prog-band romana
RanestRane – e scorgiamo la piccola folla di giovani in abito da scena liberarsi dallo stretto spazio laterale dal quale osservavano con dedizione lo svolgersi della serata, raggiungendo svelti le postazioni sul palco misteriosamente rimaste libere fino a quel punto. Qualcuno in sala ha già capito e inizia bramoso a sfregarsi le mani.
E dire che nel primo atto avevamo già potuto apprezzare diverse scelte inaspettate: il cantante di Kendall, voce e piano come nel più classico dei suoi “H Natural”, iniziava con un insolito accenno a “Thank You Whoever You Are”, un brano in verità dei meno memorabili dei Marillion ma dal testo autoesplicativo, probabile omaggio ai presenti e a chi ha reso possibile questo evento così particolare e unico; del resto, “A Naturally Peculiar Evening” era la dicitura che svettava nelle locandine promozionali, proprio a rafforzare la natura intima e allo stesso tempo inedita dell’avvenimento.
Con “White Paper” arrivava la prima chicca a rimorchio di uno dei pochissimi classiconi della serata, “Afraid Of Sunlight”, mentre la proverbiale venerazione di "H" per
Leonard Cohen veniva tradita da una sentita e notturna “Famous Blue Raincoat”, presto spazzata via dalle note pop-rock di “Cover My Eyes” e dall’auto-ironico inserto di “All You Need Is Love” nella sfacciatamente
beatlesianissima “Three Minute Boy”, cantata da tutta la Sala Sinopoli al completo. Già perché stavolta, otto anni dopo l’unico altro precedente di Steve Hogarth in siffatto connubio con i
cine-progster romani, non eravamo più nella piccola Petrassi del Parco Della Musica Ennio Morricone di Roma, bensì nella sorella maggiore dalla capienza doppia; segno inequivocabile di come la band di Aylesbury e soci stia vivendo una nuova epoca d’oro da un’abbondante decina di anni.
Rispetto all’altro show del 2015, immortalato nel Dvd ufficiale “
Steve Hogarth – Friends, Romans”, stavolta i RanestRane anticipavano di molto il loro ingresso, sempre in occasione del suggestivo cambio di ritmo di “The Deep Water”. Scelta felice perché un piccolo difetto di quello spettacolo fu un primo atto volutamente monocorde ma che andava a creare un dualismo forse troppo esasperato tra i due atti. Stavolta sarebbe stato diverso, come confermava Hogarth in una delle pause: “Di solito i miei spettacoli solisti, gli H Natural, sono figli dell’improvvisazione e di una direzione non ben definita, che andiamo a decidere un po’ insieme a voi; stanotte ho però un po’ il fiato al collo e devo essere disciplinato perché c’è un bel po’ di roba in arrivo… e un sacco di gente da non deludere!”.
Fatto sta che anche stavolta le “rane” erano riuscite a innescare un'accelerazione allo show: i fratelli Pomo, chitarra e batteria, caricavano il
wall of sound di “Sounds That Can’t Be Made”, mentre il basso di Meo e l’arpa del polistrumentista Romano buttavano benzina sulla commozione dei presenti durante “Estonia”, chiusura del primo atto dedicata a un grande fan degli artisti di stasera, il recentemente scomparso Norbert Stefani.
E ora? Osserviamo i ragazzi/e saliti sul palco: svettano alle spalle di Steve avvolti in un intrigante mix di
streetwear, casual e tacchi alti mentre se la ridono sotto i colpi delle affettuose battute sarcastiche del sempre spiritoso inglese. Scopriamo di aver di fronte a noi il progetto corale Flowing Chords diretto dal Maestro Margherita Flore ed è inevitabile che esploda una suggestione in testa: “The Crow And The Nightingale”, gemma dell’ultima fatica “
An Hour Before It’s Dark” diventata
instant-classic tra i seguaci della band sin dalla sua pubblicazione. Chiaramente il sospetto si rivela fondato e lo spettacolo prende da quel punto in poi una dimensione superiore. Le otto voci, tanto e più di quanto già accada nella versione da disco, sostengono tutto il brano e lo portano nella stratosfera nel finale sotto il tripudio dei presenti.
Degli ipotetici scommettitori avrebbero riversato tutte le loro
fiches in questo brano come possibile zenith della serata; ma si sarebbero mangiati le mani ben presto, perché “Nothing To Declare” ruba la scena a tutti e si conferma come il capolavoro personale della carriera solista di Hogarth. Le splendide liriche della traccia di “Ice Cream Genius” - una struggente metafora di aerei in partenza e cuori che si allontanano forse per sempre - colpiscono nel vivo gli ascoltatori grazie ai Flowing Chords che si dividono su più
pattern vocali per riempire il suono e allo stesso tempo rinforzare la dinamica dell’ennesimo muro di suono che ci sovrasta, mentre i soprani accompagnano con discrezione la voce del
vocalist albionico nel potente special del brano:
A hundred thousand hearts a day
Come gliding down but they can’t explain
An empty seat on a sold out flight
A year ago on an empty night
I watched you down but you never came
Through 'Nothing to Declare' like a sign hangin' on my name
Non che il buon Steve dia l’impressione di aver bisogno di alcun aiuto, considerando come le sue corde vocali sembrino nuovamente dimenticare i 67 anni abbondanti sul groppone (come finalmente ammette anche nella nostra intervista, dopo anni di piacione creste per difetto). Il suo timbro ruvido e ricchissimo non mostra cedimenti neanche quando va a ripescare preziosità del passato più che remoto, una “Acid Rain” proveniente nientemeno che dal raro “Recurring Dreams”degli Europeans, band new wave nella quale “H” militava ben 40 anni fa.
Il finale è dedicato a una doppietta di composizioni in crescendo: “Go!” - la road-song marillica per eccellenza, con il suo refrain finale cantato a voce di popolo anche ben oltre il termine del brano – e a “Man Of A Thousand Faces”, dall’esplosivo finale a tinte tribali. Ma è quello che nelle scorse decadi fu il brano telefonato per eccellenza a stupire inaspettatamente: “Easter”, uno degli inni pacifisti della band, colora la Sinopoli di verdi paesaggi irlandesi fino a un'azzeccatissima intuizione dei RanestRane che sostituiscono il memorabile guitar-solo dell’assente Steve Rothery con un harmonium preso tra il vasto arsenale di Riccardo Romano; è il tocco folk perfetto che dona un sapore insolito al più classico dei classici.
Hogarth ci confidava pochi giorni fa la sua definizione di “musica in progressione piuttosto che musica progressive”: a fine serata crediamo di aver ben compreso il concetto.
(Contributi fotografici di Roberto Maestrini e Stefan Schulz su gentile concessione di The Web Italy)
Flowing Chords:
Flaminia Lobianco
Lisa Fiorani
Elisa Benedetti
Elisa Tronti
Alessandra Formica
Francesco Sacchini
Frank Polucci
Brian Riente
Margherita Flore