Verso minimalismo e musica ambientale ho un approccio decisamente poco intellettuale e parecchio viscerale. Mi piacciono, molto, ma non saprei giustificare questa passione a un interlocutore, come avviene per altri miei pallini. A volte, quando torno a casa dal lavoro, spengo l’autoradio e tutto quello che percepisco attorno mi pare musica. Questo, e, ovviamente, il piacere di collassare sul divano la sera con un libro in mano, ascoltando Giusto Pio, Tony Conrad, Sarah Davachi o qualcos’altro che chieda solo di insinuarsi senza la pretesa di essere capito.
Non sapevo che effetto mi avrebbe fatto passare dall’ascolto domestico a un intero concerto per manipolazioni elettroniche e tromba, ma l’occasione era di quelle ghiotte: Jim O’Rourke è un gigante che ha attraversato, dalla fine degli anni 90, il post-rock, l’indie e la no wave e da qualche anno è passato alla sperimentazione pura, sia da solo, che con il progetto “Kafka’s Ibiki”, di base in Giappone, dove il musicista ormai abita da tempo.
Delle due serate organizzate in collaborazione con il centro d’Arte dell’Università di Padova, quella di venerdì all’Auditorium Pollini (pieno per l’occasione e anche la data di sabato 8 al Liviano ha registrato il sold-out) è la più intima. Durante tutta la prima parte della performance (“Shutting Down Here”), O’Rourke è rimasto solo davanti all’imponente organo della sala a trafficare su laptop e mixer, mentre il pubblico veniva immerso in un liquido amniotico composto da sciabordii, glitch, lievi note d’arco sconnesse e tonfi sordi. L’effetto era avvolgente, anche per l’ottima acustica di questo splendido auditorium incastonato tra i portici del centro storico di Padova. Alla fine, l’impressione di diventare parte dello spazio in cui ci si trovava era palpabile.
Decisamente mento ambientale e più astratta, l’esecuzione di “Most, But Potentially All”, assieme, questa volta, al trombettista Flavio Zanuttini. Un gioco di vuoti e pieni, in cui all’elettronica straniante si accompagna l’uso quasi “improprio” della tromba (che, giocoforza, regala anche sentori di jazz), dalla quale non uscivano solo note, ma anche soffi, sibili, fino al gesto quasi blasfemo, nel finale, di percuoterla come una sorta di maracas.
Non sono mancati, durante entrambi i brani, crescendo che sfociavano in esplosioni sonore, quasi a ricordare il background post-rock dell’autore.
Alla fine, è stato strano uscire nella confusione del venerdì sera di una città universitaria. Tornando alla macchina, i miei passi sui ciottoli, il vociare degli studenti e il rumore delle biciclette che mi passavano a fianco parevano l’encore del concerto.
(Foto di Serena Pea)