Intro
La no wave nasce attorno a due quartieri di New York, l’East Village e il SoHo. E’ qui che Brian Eno trova una pratica applicazione della sua stessa proverbiale massima sui primi ammiratori di quel “Velvet Underground & Nico” (1967) prodotto da Andy Warhol in persona (“[…] ciascuno di quei 30.000 che l’hanno comprato ha fondato una band”), oltre che delle sue “Oblique Strategies” (1975) inerenti alla teoria del “non-musicista”. Il risultato della sua ricerca è una compilation, “No New York” (1979), che campiona alcuni tra i pochi ma mitici lasciti di una sotterranea ribalta di complessi squattrinati all’ombra della metropoli - Mars, Teenage Jesus & The Jerks, DNA e James Chance & The Contortions (come pure Gynecologists e Theoretical Girls, lasciati fuori dal novero) - e nondimeno destinata a rivestire una fondamentale importanza negli sviluppi successivi della musica rock.
Culla è dunque New York, ma da qui il movimento si espande via via nello spazio e nel tempo, trasformandosi, evolvendosi, ampliandosi, qua e là anche normalizzandosi, dimostrandosi comunque fenomeno di ben più ampia portata rispetto alla comune lettura che lo vorrebbe genere di nicchia o, peggio, effimera corrente presto implosa in sé stessa. E oltre ai meriti storiografici e artistici, va anche riscoperta la fascinazione estetica che da sempre al genere si accompagna, quella fitta al nero che pervade l’ascoltatore quando s’imbatte nella dicitura “no wave” (la prima definizione come tale si deve a Lydia Lunch), quel brivido indotto dall’immaginario di vuoto, di estremo confine al di là del conosciuto.
Anche se mai davvero esibita (e meno che mai in senso politico), la madornale negazione insita al genere è dunque l’idea che ne fa da fulcro, e investe tanto gli aspetti musicali quanto gli intenti di principio. Nonostante il terreno comune - la spinta riottosa giovanilistica e la denuncia di alienazione post-industriale - vengono negate sia la new wave, di colpo mutata a lacerto sconnesso senza più reale significato, che il punk, perentoriamente fatto implodere in cadenze incespicanti e urla repellenti, entrambi di colpo relegati all’alveo degli armamentari obsoleti, inefficaci. Vengono negati accordi e riff, sbrindellati in cacofonie lancinanti o minimizzati a schiaffo di puro rumore, viene negato il groove, ridotto a raccapricciante aritmia o - al contrario - esasperato e insistito fino al cattivo gusto, e via via a trebbiare tutto il resto, dalla melodia all’intero arrangiamento. Così forma e composizione, rinsecchite a schizzo substandard, e struttura, rimpicciolita a particella subatomica.
La prassi della no wave investe certamente la messa in scena, l’immagine che da sempre si accompagna alla musica rock. Lustrini, pose e scenografie esplose con il glam sono persino intombate in un contegno impersonale, quasi inespressivo, quasi luttuoso. Sparisce l’icona del musicista-divo fino ad allora sopravvissuta e sempre rinverdita, che dal punto di vista dei musicisti “no” sa di pagliaccesco e plateale, e ne compare un’altra, di segno opposto, desunta così come sta dalle spoglie e grigie camerette dei sobborghi metropolitani, maggiormente adatta a un’immersione profonda nel ventre inconscio della realtà. Così spogliata dagli ammennicoli esibizionisti, la musica - pur mantenendo il potere del corpo - perde il feticismo laddove acquista spessore mentale, come se ci si proponesse di esporre il lato più perverso di una collettiva seduta psicanalitica, esasperandone gli aspetti più selvaggiamente libidici, persino animaleschi. Semplificando, la no wave mira a coniugare disperazione e intrattenimento.
Attraverso la negazione di qualsiasi accademismo (i musicisti “no” sono anche straordinari antesignani del lo-fi a venire) poi si retrocede, scoprendolo come in una nuova prima volta, uno stadio primale del fare musica. I dischi e i live set durano una media di un quarto d’ora, i brani sono secchi, ipertesi, nevrotici, convulsi, concisi, sono cellule non dischiuse di terrificante frustrazione, il tipico nucleo che attende di essere detonato: la no wave fa per il noise-rock ciò che il blues fece per il rock tout-court. Il resto, ossia le implicazioni musicologiche e sociologiche, segue a ruota. Attraverso il fragore lancinante, sordido e insieme viscerale vengono erase, in un moto sempre più acuto dall’esterno all’interno, il cosmo della critica musicale, il pubblico, l’intera socialità, e infine la psiche, l’Io. In pochi altri generi sussiste questo inestricabile collegamento tra individuo, musicista, portato sociale, e arte, in pochi casi si ammira tanta autenticità nel documentare con accuratezza - insieme iperrealistica ed espressionistica - il profondo terrore psicosociale del “kid” nell’urbe mostruosa e pantagruelica, e insieme arida e sempre più indifferente.
Non ultima è la subitanea fertilità della scena, sia in senso multidisciplinare (dalla musica si espande all’arte performativa, alla fotografia, al cinema), sia in senso profeticamente temporale, un fermento creativo generato da una situazione di crisi destinato a riproporsi con agghiacciante tempestività a partire dai tardi anni 2000.
Il contesto e le fonti
La prima metà degli anni 70 per gli Stati Uniti è il periodo più cupo dai tempi del ‘29. Una sequela di eventi nefasti - crisi del dollaro (1971), crisi energetica (1973), caso Watergate (1974) e sconfitta politico-militare in Vietnam (1975) - contribuisce a fiaccare mortalmente congiuntura economica, qualità della vita, vitalità socio-culturale e immaginario collettivo dell’intera nazione. Non bastasse, il neoeletto Jimmy Carter, presidente democratico succeduto a Richard Nixon nel 1977, attuando una politica neo-wilsoniana di “autodeterminazione”, aggrava i rapporti tanto con l’Urss quanto pure con tutti quei regimi africani, mediorientali e latini ostili agli Usa. Il malessere nell’opinione pubblica dilaga. Soprattutto i giovani si ritrovano di colpo alienati dell’avvenire, costretti a fronteggiare un “no future” anni prima che Johnny Rotten lo strilli oltreoceano.
New York rimane sempre centro nevralgico dei sommovimenti intellettuali e culturali dell’intera nazione, ma la sua configurazione sta mutando irreversibilmente. Ormai terminata l’esperienza con la Factory di Andy Warhol e declinati ufficialmente controcultura e Movement, i giovani della “Grande Mela” iniziano a subire, sia pur indirettamente, l’influsso delle innovazioni informali dei nuovi compositori d’avanguardia. Prendono vita nuovi spazi come il loft di Yoko Ono, la “Dream House” di La Monte Young, la AG Gallery del “Fluxus” di George Maciunas e specialmente il Kitchen di Rhys Chatham, e si affermano Steve Reich, David Tudor, Gordon Mumma, Morton Feldman e Jon Appleton (oltre ai non meno operosi Paul Lansky e John Heiss), personalità fondamentali che già avevano appreso la grande lezione di John Cage e Merce Cunningham - al 1970 risale la prima del loro “Cheap Imitation” - e, ancor più diffusamente, assorbito le letture di William S. Burroughs e Lawrence Ferlinghetti, nonché la lezione della “dialettica negativa” dei filosofi della Scuola di Francoforte da tempo trasferiti nella City.
Allo stesso modo i nuovi giovani, embrioni dei musicisti “no” a venire o loro futuro pubblico, sono anche i primi a rilevare l’onda lunga del lascito dei Velvet Underground. Più che ai loro primi eredi che ancora imperversano a Max’s Kansas City e Cbgb’s (New York Dolls, Cramps, Television, Patti Smith Group, Voidoids), si fanno affascinare dalle nuove possibilità indicate dai rumorismi ritmico-elettronici di Silver Apples e Lothar & The Hand People, al pressapochismo scapigliato del giro Esp-Disk dei vari Godz, Fugs e Levitts, all’anti-blues dei nativi Insect Trust e della Magic Band di Captain Beefheart (che nella prima metà dei 70 era stata di certo ammirata nelle loro esibizioni live newyorkesi), alle sperimentazioni di Laurie Anderson, persino all’anti-folk del primo leggendario long-playing di Charles Manson, tutto un sommovimento creativo su cui si staglia, imponente e sinistra, la portata iconica, mitologica e carismatica dei Suicide. E sono anche i primi a sfrondare la “Metal Machine Music” (1975) del redivivo Lou Reed dalla banale sovrastruttura di provocazione costruita a scopi promozionali, i primi a considerarla un affare serio, un monolite per le musiche creative a venire.
Uno dei primi autentici prodromi è così l’esperienza dei Jack Ruby di Roddy Hall, che con la loro “Hit And Run” (1974) sembrano sulle prime ergersi a marci eredi degli Stooges, salvo poi svariare a metà pezzo al libero sfogo di un sostrato di distorsioni, scorie industriali e caos elettronico (con un grande ruolo giocato dal sintetizzatore di Randy Cohen).
Nella formazione conscia o inconscia della nuova fucina underground non va di certo dimenticato l’imponente ruolo-chiave giocato dal jazz moderno, dapprima con gli album capitali di Ornette Coleman, primo fra tutti “Free Jazz” (1960), passando per le esibizioni del mitico quartetto di John Coltrane al Village Vanguard e al Village Gate, il New York Art Quartet di Milford Graves, l’unico disco di James Zitro, il periodo newyorkese di Sun Ra, il nuovo pianismo di Dave Burrell, il New York Contemporary Five di Don Cherry, il profetico “New York Eye And Ear Control” (1964) di Albert Ayler, a culminare con le pietre miliari jazz-rock del Miles Davis elettrico.
Ma diversi altri influssi al di fuori dei confini cittadini (oppure nazionali, o anche continentali) cementano la formazione del nuovo inconscio collettivo. Il debutto “No Record” (1968) da parte della canadese Nihilist Spasm Band è forse il primo disco a utilizzare la critica radicale, la negazione e il nichilismo come sfrontate bandiere stilistiche. Questa esperienza ha la sua importanza capitale. Se il formato è ancora quello del collettivo psichedelico e se il fine è ancora lo sballo di gruppo, il modo adottato - un free-form freak-out affine, se non proprio derivato, dai Familiar Ugly di Mayo Thompson - si pone invece come un inedito pandemonio psico-infernale in grado di far deragliare e collassare l’io, nonostante il proposito sia in primis politicizzato agli estremi. La loro formula prevede osceni proclami geopolitici distruttivi e autodistruttivi sbraitati, subito tradotti in lunghe tirate d’improvvisazioni rumoriste, clownesche, cartoonesche, o semplicemente analfabete, goliardiche sonate di stonature e brutture armoniche spesso senza direzione o proprio senza senso (se non quello della generica irrisione della guerra o dei patriottismi). Il loro è un urlo punk molto prima del punk (e prima dei Mc5 a Detroit), impiantato nel '68 ma proiettato oltre la “Summer Of Love” e ben al riparo dai fasti celebratori di Woodstock, persino vagamente imparentato agli esperimenti di Alvin Lucier in certi usi vocali.
Ancor più fondamentale è la non-lezione di analfabetismo radicale delle Shaggs del New Hampshire nel loro unico “Philosophy Of The World” (1969), qui anzi asciugata a un classico trio, per nulla politicizzata e anzi arricciata in una produzione più che mai ruspante, casalinga, oltre che straordinaria anticipatrice delle band “no” al femminile.
Persino al di là dell’oceano era già trapelata molto chiaramente la visione negativa, con i Monks di “Black Monk Time” (1969), e ancor di più in uno dei capolavori della grande stagione del rock teutonico, la “Negativland” (1971) dei Neu. Attività fondamentale è poi quella del chitarrista inglese Derek Bailey, certamente come innovativo improvvisatore, ma forse ancor più come divulgatore: di sua iniziativa l’etichetta Incus (1970), la rivista “Musics” (1975) e il collettivo Company (1976) con cui raccoglie talenti del nuovo jazz-rock antiaccademico tra due continenti. Non meno influente Evan Parker, spostatosi a improvvisare proprio nella City verso la fine dei 70. Su tutto, naturalmente, le “strategie oblique” di Eno, foriere di “non-musicisti”.
In madrepatria intanto assumono crescente rilevanza alcune scuole nazionali di illustri predecessori no wave, dalla prima incarnazione dei michiganiani Destroy All Monsters, un mix estemporaneo di noise ante-litteram, improvvisazione collettiva e cultura trash, alla prima produzione dei californiani Residents, culminante in un altro grande baluardo della negazione, “Not Available” (1978), oltre all’approssimazione scalcagnata dei Electric Eels (Cleveland), poi avanzati negli altrettanto significativi Styrenes, alle prime devastazioni chitarristiche dei Chrome (San Francisco), alle turbolente improvvisazioni dei Oho (Baltimore), all’urticante “de-evoluzione” dei Devo (Akron), al proto-punk inacidito dei Debris (Chickasha), alle follie lo-fi degli Half Japanese (Uniontown).
Per quanto riguarda gli influssi dance e kitsch insiti nelle più tarde emanazioni del movimento “no”, più che il clamoroso boom dei popolarissimi concittadini Chic e Village People, vale senz’altro la pena ricordare la sigla aperta Love Of Life Orchestra di Peter Gordon, altro peculiare catalizzatore di personalità gravitanti nell’orbita del Kitchen, formidabile lezione di warholiano sfondamento di barriere tra intrattenimento e arte aulica, di fusione tra segni del quotidiano e tecniche d’avanguardia, di elevazione del consumismo, finanche di orgoglioso antiaccademismo, un’esperienza che fa capo peraltro all’allora florida Lovely Music, etichetta dichiaratamente improntata alle tecniche d’avanguardia applicate alla musica di lega leggera, da ballo e d’intrattenimento.
I quattro cavalieri della non-Apocalisse: Mars
I Mars sono il primo e probabilmente più importante complesso di no wave. Durano solo tre anni, suonano dal vivo una ventina di volte spartendosi quasi sempre tra Max’s Kansas City e Cbgb’s, ed entrano in studio di registrazione una sola volta, ma la loro impronta rimarrà la più lungimirante, fertile e duratura. Quella di Sumner Crane, alla voce o meglio ai conati (l’anti-Lou Reed), Mark Cunningham, deus ex machina a chitarra e tromba (l’anti-John Cale), Constance “Lucy Hamilton” Burg, seconda chitarra e seconda non-voce (l’anti-Nico), e Nancy Arlen, batteria (l’anti-Moe Tucker), non è una concezione anti-musicale (come quella dei punk) ma autentica non-concezione, autentica non-musica elargita scientemente. Nelle loro frastornanti, ributtanti canzoni-ansiti vengono devastate le regole armoniche secondo una piena applicazione dei dettami dell’avanguardia, dall’alea di Cage ai cubicoli di rumore di Mumma, ma paradossalmente vengono anche catapultate, e con la massima schiettezza possibile, in scenari che la stessa avanguardia non si è mai azzardata a esplorare: terre di nessuno di rituali inconsci condotti dalla cacofonia più lacerante, paesaggi soffocati da truci dissonanze, selve di pulsazioni barbare, suburre popolate solo da straziate urla enigmatiche. I loro componimenti istintivi e quasi casuali esauriscono nel più breve tempo possibile riserve atomiche di distorsione chitarristica, detonano nello spazio di un pattern ritmico orrendamente mutilato, vomitano rapidi schizzi canori di automi agonizzanti nel collasso della civiltà tecnologica.
Trasferitisi a New York nel 1974, si formano alla fine del 1975 come China (forse un riferimento alla notoria visita di Nixon in Cina) con un pugno di componimenti ancora nel segno di predecessori e contemporanei, un misto lascivo di Velvet Underground, Devo, Stooges e Voidoids: “Cry”, “Big Bird” e “Red” le migliori, “No Idea” la più significativa nel titolo. Vero anello di congiunzione con la seconda vita a nome Mars e cellula germinale dello stile prossimo a dirompere è però “3-E”, un rockabilly sbandato in cui già tutto - ritmo, armonia e voce - tende a fondersi, a implodere, a negare le rispettive identità. Gli seguono il suo lato B, una “11,000 Volts” dal passo stentoreo, le schitarrate scordate fuori linea, e di nuovo una sorta di “euresi”, una continua modifica organica dei propri elementi portanti, e una “Helen Forsdale”, post-punk di percussività forsennata su un acquitrino concreto di corde torturate e voce rantolante.
Il complesso si spinge oltre con una sorta di concerto-recitativo, “Hairwaves”, per scordature, impennate di percussioni e un canto in mezza-voce di trance sinistra anti-zen, e ancor meglio con “Tunnel”, sonata di pure cacofonie, suoni ammassati su pulsazioni cieche, e una recitazione sfatta, ormai prossima al delirio puro e semplice, una tempesta subconscia in preda alle dissonanze, ringhiante come una bestia apocalittica e vorticante come una turbina. Il minuto secco di frustate di batteria e invocazione a due strepitata su una graticola di “Puerto Rican Ghost” prelude invece al primo pinnacolo stilistico e ideologico della banda, “N.N.End”, orrenda improvvisazione traviata dalla tromba, sbattuta su un ammasso ferroviario e sferzata da versi lascivi. Vi si adegua alla perfezione la valanga d’impulsi malvagi di “Outside Africa”, mentre il capolavoro canoro di Burg sta in “Scorn”, un canto tutto vocalizzato e sibilato, persino proteso a sfondare la barriera del suono, mentre guida una carovana di brandelli sonici fuori controllo.
Sempre più distanti dal punk e sempre più implosi nella loro aura intellettuale, i quattro pervengono a una “Monopoly” che è un rarefatto espressionismo situazionista a due voci, le rasoiate di lei e delirio lascivo maniacale di lui, per di più torturate dai nastri (tagliuzzate, deformate, rallentate e velocizzate), una prassi elettronica che dà un apporto ancor più allucinante di echi e rimbombi artificiali e astratti. Così “The Immediate Stages Of Erotic” si fa duello tra cortocircuiti elettrici, urla sub-umane e un nuovo entusiasmante trambusto, forse il loro più tribale in assoluto, un disperato richiamo al nuovo stadio animale della vita inconscia metropolitana. La brevissima carriera dei Mars si chiude in un congresso carnale di violenza catartica, anche se il capolavoro postumo lo danno nella versione di 15 minuti di “N.N. End” con un talento aggiunto, un terzo chitarrista appassionato di free-jazz, Rudolph Grey, comparso in un bootleg d’archivio, “Live At Irving Plaza” (2014).
Il progetto successivo, John Gavanti, nasce da un’idea di Crane (a voce, piano e chitarra acustica a tre corde) e vede ancora insieme Cunnigham e Burg (fiati) e la partecipazione dei DNA, Arto Lindsay, il fratello Duncan e Ikue Mori (percussioni e archi). Ciò che risulta dalle sessioni di registrazione, l’omonimo “John Gavanti” (1980), viene di fatto presentato come prima - e finora unica - “no wave operetta”, una libera storpiatura del mozartiano “Don Giovanni”, con un “libretto” giocato su una serie di eventi bizzarri, raccontato secondo una sorta di monologo surrealista, ambientato non più nell’originaria Siviglia ma in un giro di navigazione di luoghi e città che passa anche per la casa madre New York (ma anche Venezia), e arruffato di riferimenti a Kierkegaard, Lautreamont, Roussel.
Privo delle distorsioni lancinanti dei Mars, ma sempre forte della medesima prassi sub-improvvisativa, il combo si prodiga in ammassi tumultuosi di rimbombi, fanfare disintegrate (una “Overture” di free-jazz involgarito e sinfonismo spartano), accompagnamenti fuori cadenza (il crescendo di stecche ostinate su tempo di ballo di “Gavanti Samba”, gli squilli disordinati e le valanghe pianistiche di “Africa”), cluster di archi caotici (la cabaletta “Locus Solus”) e deformazioni tonali (la rincorsa grottesca tra corde e fiati in “Higher And Higher”). Lo stesso avviene per la voce, la cui primigenia spinta d’urlo-conato si ritraduce in recitazione sardonica, roca e tragicomica d’ascendenza di shouter del Delta (“I Awake” e “Gavanti’s Lament”, con cui peraltro sintetizza misticismo raga e dissonanze cameristiche). Anche Burg, nella sua breve comparsa come cantante, ha la sua trasformazione (si senta ora la sua maestria come ninfa glaciale in “Mirror Mirror”). Un passo oltre l’espressionismo di Weimar, la nuova ricetta dei Mars viene qui impiegata per un nuovo modo di rappresentazione della pièce, un sovrappiù di assurdismo, una tragicomicità “totale”.
Dall’esperienza Burg distacca a sua volta una propria idea, Don King, dapprima solo Cunnigham e Duncan Lindsay, messa in piedi inizialmente in via estemporanea per accontentare un giovanissimo Thurston Moore alle prese con l’organizzazione del suo Noise Fest (1981), poi espanso a quartetto con Arto Lindsay e Toni Noguiera, e infine ritrasformato con una nuova sezione ritmica (Toni Maimone dei Pere Ubu e Bill Perry alla batteria). A parte chiare derivazioni dei John Gavanti, come in “Marco Polo” e in “Revelry” (polifonia da banda di paese e percussionismo di dimostranti), Burg quasi abolisce le cacofonie per dominare algida e svanita, nel funk fiatistico di “Never Decide” e nel dub puntinistico di “Flesh”, fino a prove ormai basate su frasi melodiche e un canto lirico e decadente (“Street Of Dreams”).
Del periodo fa parte anche l’album a due “The Drowning Of Lucy Hamilton” (1985) con l’amica e fan Lydia Lunch, ma vieppiù le ambizioni artistiche di Burg volgono ad altri ambiti (come pure gli ex-compagni Crane e Arlen). Invece Cunnigham, influenzato dal tour europeo dei Don King - documentato nella cassetta “On The Mediterranean” (1987) - si trasferisce in Spagna e rimane costantemente attivo in campo musicale, continuamente proteso alla sperimentazione della sua tromba. Dapprima si unisce alla Bel Canto Orchestra, quindi fonda i Raeo con Gat Castaño, Anton Ignorant e Pepe Sarto (e un’occasione per far partecipare l’ex-compagna Burg in cameo strumentali), e poi avvia la collaborazione con la chitarrista Silvia Mestres per il suo primo solista “Blood River Dusk” (1997) e i Convolution. Oltre al trio dei Bestia Ferida per l’unico “Wounded” (2009), Cunnigham improvvisa anche per “Chalkboard” (2010), installazione interattiva di Christian Marclay. Ultimi progetti sono l’unione con il trio dei Murnau B, battezzata Blood Quartet, per quattro album di doom-jazz, “Dark Energy” (2015), “Deep Red” (2016), “Until My Darkness Goes” (2018) e “Root 7” (2022), e, sul fronte della ricerca solistica, la collezione di dieci “Odd Songs” (2020) e i 9 minuti di “Night Train Dream” (2023), in uno split con Thymme Jones, la sua soundscape più misteriosa.
I quattro cavalieri della non-Apocalisse: Teenage Jesus And The Jerks
I Teenage Jesus And The Jerks si formano per iniziativa di una giovanissima fan dei China/Mars, Lydia Lunch (al secolo Lydia Kohl), ragazzina fatta da sé e sbattuta senza complimenti nei gangli della metropoli, che imbraccia la chitarra e canta, o meglio si lamenta e strilla, in quelle soffitte underground newyorkesi battute anche da uno scapestrato, irrequieto sassofonista espulso dalle accademie del “free”, James Chance. Con la prima, provvisoria sezione ritmica di Kawashima “Reck” Akiyoshi al basso e Bradley Field alla batteria, incidono i primi pezzi del 1977, la prima versione di “The Closet” e delle “Less Of Me” e “My Eyes” ancor più maniacalmente scorciate.
I Teenage fanno una versione irregimentata, più stilizzata e spiccia, anche se non meno psicotica, del magma orripilante dei maestri Mars. Da quella primale brada libertà i Teenage cavano qualcosa che punterebbe persino al cosmo della forma-canzone, anche se certamente quello maggiormente scalcagnato, approssimativo, brutalmente abbozzato, freddamente sottoarrangiato, armonicamente desaturato, e che quindi in realtà ottiene poco più di puri fracassi e schiamazzi.
La sigla ha croce e delizia soprattutto nella leader e non-ideologa Lunch, prima, vera e in molti sensi unica diva del movimento, primordiale e autentica icona sessuale anche al di fuori di quei circoli, e despota di un sound secco e ribattuto, ossessivo e ossessionante. La chitarra si muove come in un plasma vischioso con pochi gesti minimi, elementari, ma proprio per questo ancor più inquietanti, il suo grido risuona incerto, accartocciato su sé stesso, distante e atavico eppure sprizzante cieco terrore panico, la sezione ritmica si limita a puntellare in un battere da ossessi inanimati, spesso ricalcando facili marcette scipite. Lunch proclama la venuta dell’anti-autrice, l’anti-Patti Smith. Laddove Smith è sacerdotessa che mira alla coscienza dettagliando e drammatizzando lunghi monologhi, Lunch è una strega-spirito che si annida negli strati più reconditi del subconscio secondo brevi e perverse stilettate, pochi motti volti a scuoterlo, farlo sobbalzare, scioccarlo, declinati con fare via via sì lamentoso ma al contempo svuotato, inespressivo, sì terrorizzato ma al contempo meccanico, sordido, spesso chiuso da piccoli gemiti d’orgasmo. Lunch imposta, altrettanto inconsciamente, un nuovo standard.
Fuoriuscito Chance e scoperti da un Robert Quine in veste di produttore, sciorinano “Orphans”, un funk cadenzato primitivo e morboso (al basso arriva Gordon Stevenson), ripieno di fitte chitarristiche che intervallano una filastrocca sciroccata, al limite dell’urletto fine a sé stesso, “Baby Doll”, dal tempo lentissimo che sconfina nell’allucinazione, sotto le sferzate di una Lunch in solenne catalessi, accelerato in incubi tribali, grazie anche al ruolo del nuovo bassista Jim Sclavunos, già co-fondatore di “No Magazine” e già nei Gynecologists di Rhys Chatham e nei Red Transistor del futuro Von Lmo, e una “Burning Rubber” con cui completa un ideale polittico di manifesti per una sorta d’ideale, primitivo teatro grandguignolesco.
Anche gli aforismi solo strumentali, nella loro sfuggente scrittura automatica, si rivelano significativi, persino lungimiranti, da “Race Mixing”, un getto di dissonanze metalliche sempre funestate dalle vergate delle percussioni, a una “Freud In Flop” che anticipa di netto il noise-rock degli 80.
Verso la fine della loro esperienza (tardo 1978) registrano nuovamente “The Closet” per farne la loro più lunga, dilatata fino alle porte della percezione, fino a frequenze talmente evanescenti da scomparire dallo spettro, in un nugolo di nichilismo e psicosi irreversibili, e quasi agli antipodi “I Woke Up Dreaming” che invece si trascina verso un ritornello sillabato su una spartanissima cadenza, il risultato più prossimo al modello della “canzone”.
Lunch avvia la sua carriera di sacerdotessa della tetraggine metropolitana, del personale calvario di apatia, autoflagellazioni e alienazioni, e, insieme, di nuova autrice e performer radicalmente fondata sul kitsch postmodernista, un cupo burlesque di suburra industriale. Attraverso i suoi capolavori solisti, da “Queen Of Siam” (1980) a “The Agony Is The Ecstasy” (1982) - col suo miglior urlo-manifesto “No!” -, a “In Limbo” (1984), fino all’estremo tentacolo noir di “Smoke In The Shadows” (2004), le sue collaborazioni in cui ritrova Burg dei Mars per “The Drowning Of Lucy Hamilton” (1985), Howard dei Birthday Party per “Honeymoon In Red” (1987) e “Shotgun Wedding” (1991), Gordon dei Sonic Youth per “Naked In Garden Hills” (1990) a nome Harry Crews, e Jim Thirwell per “Stinkfist” (1988), “Don’t Fear The Reaper” (1991) e “York” (1997), e i suoi lavori di recitazione spoken, si fa evidente una contraddizione in fieri: da una parte la strega dello schifo morale che di quello schifo si nutre quasi per inerzia, dall’altra una nuova figura attiva e creativa, a tratti perversamente elitaria, quasi contrapposta alla degenerata “negazione” dei suoi esordi.
A compensare questa sorta di dissidio, ma anche per riuscire a mantenere una sorta di perverso equilibrio artistico, Lunch continua a portare avanti negli anni la sua voglia di leader di complessi “no”. Chiusa la brevissima avventura con i Teenage, fonda così i Beirut Slump con il basso di Liz Swope e l’organo di Vivienne Dick, in cui Sclavunos passa alla batteria. Lunch e Sclavunos proseguono negli 8 Eyed Spy col nuovo chitarrista Michael Paumgardhen, il sax di Pat Irwin e il basso di George Scott (fuoriuscito dai Contortions e poco dopo scomparso), e brevemente a nome Devil Dogs, mentre la sola Lunch nei 13.13 si fa spalleggiare dai Weirdos (Dix Denney, chitarra, Greg Williams, basso, e Cliff Martinez, batteria). Formazioni degli anni più recenti sono i Big Sexy Noise, ossia Lunch più i Gallon Drunk, e Retrovirus, con la cricca di Weasel Walter, di cui gli 8 minuti di “War Pigs” (2023) rappresentano l’estremo esempio.
Sclavunos diventa primo batterista dei Sonic Youth per poi entrare nell’orbita di Nick Cave, dalla seconda incarnazione dei Bad Seeds fino ai Grinderman, ma fonda anche un proprio complesso, i Vanity Set, e allestisce uno show multimediale, “Faustian Pact” (2012), in collaborazione con Micki Pellerano (Cult Of Youth) e Peter Mavrogeorgis.
Nel cosmo di Lunch orbita anche la dimensione cinematografica del movimento, che ovviamente si nutre di mezzi amatoriali e attori improvvisati. La sua Dick dei Beirut Slump diventa regista e raduna un po’ tutti i compagni d’avventura in “Beauty Becomes The Beast” (1979), e il suo Stevenson dei Teenage dirige “Ecstatic Stigmatic” (1980). Chance, Field e la stessa Lunch compaiono in “Alien Portrait” (1979) di Michael McClard, mentre Lunch diventa protagonista nel noir “Vortex” (1982) di Scott & Beth B. Altri culti underground sono “Red Italy” (1979) di Eric Mitchell, “They Eat Scum” (1979) di Nick Zedd e “Permanent Vacation” (1982) di Jim Jarmusch. Da non dimenticare cineasti oscuri e talentuosi come Amos Poe, Diego Cortez e Richard Kern. Paradigma di questa generazione è “New York Eye And Ear Control” (1964) di Michael Snow, musicato con un’improvvisazione free di un sestetto di eccellenze guidato da Ayler.
I quattro cavalieri della non-Apocalisse: DNA
Lo studente d’arte dell’East Village Arthur Morgan “Arto” Lindsay è aiutante di palco dei Mars quando incontra Robin Crutchfield, appassionato di Body Art (i conterranei Vito Acconci e Chris Burden). La scintilla tra i due scatta proprio a partire dalla comune passione per la performance, che come DNA filtreranno alla luce della nuova barbarie intellettuale “no”.
Lindsay si pone subito alla testa del nuovo progetto andando oltre una possibile versione al maschile di Lunch, ossia concependo l’accoppiata voce-chitarra (canto no-punk e schitarrate no-funk) come un commentario in cui i due elementi competono uno con l’altro, secondo per secondo, a chi suona più sconnesso, tonitruante, virulento, delirante. Crutchfield sperimenta la tastiera ricalcando con sfrontato analfabetismo i suoi idoli coevi - Martin Rev, Nico e Yoko Ono - implicitamente dichiarando i DNA come i primi a importare nel suono “no” l’elettronica spicciola proveniente dalle camerette dei nerd appassionati delle nuove tastiere, ripetendo formule aliene e bambinesche, codici cifrati, alchimie soniche senza esito. In luogo di batterista i due reclutano poi una ragazza giapponese che la batteria non l’ha mai nemmeno sfiorata ma che, nondimeno, si dimostra in grado di rollarla con schizoide veemenza, Ikue Mori. Nei loro simposi spasmodici, atonali e inebetiti si cela l’invito a un compiacimento di natura anti-estetica.
Cellula della band è il singolo “You & You” (1978), di nuovo prodotto da Quine, una pulsazione elettronica monotona e impassibile (girandole di tastiera elementari ma ripetute così velocemente e così fuori fase da divenire tortura astratta), condita dai brutali controtempi di Mori e la schizofrenia ultranevrotica di Lindsay. Del tutto analogo il suo lato B, “Little Ants”, una frasucola delle tastiere, minimamente melodica punteggiatura in simbiosi con i tamburi, mentre Lindsay si produce in rincorse mozzafiato per chitarra scorticata (riproduce l’alternanza dei ritmi di Lunch). Le altre registrazioni ne ampliano perversamente lo spettro, dagli episodi più posati, come “Egomaniac’s Kiss”, un rhythm’n’blues in cui rivoltano fino a involgarirlo John Lee Hooker, a strumentali come “Lionel”, una centrifuga in cui si schiude il frinire industriale di Hatchfield, da una “Not Moving”, probabilmente il loro gioiello, in cui aumenta ancora il ruolo della tastiera - fraseggio di pattern di scale luminescenti e impulsi brutali - mentre Mori batte rapida incalzando con i suoi algoritmi cervellotici e Lindsay impersona un Byrne inebetito, a una “Size”, danza moderna informe, marciante e slabbrata.
Questo crescendo d’importanza di Hatchfield nel suono della band viene improvvisamente troncato con la sua fuoriuscita dalla band. Anziché emularlo, Lindsay e Mori svoltano optando per Tim Wright, bassista dei primi Pere Ubu, con cui confezionano un Ep, “A Taste Of DNA” (1981), paradossalmente ancora più avventuroso, sbrigliato, incontrollato e concentrato: “New Fast”, “5:30” “32123”. Il suono, ormai orientato al basso, apre inevitabilmente al dopo-punk più cingolato, e riesce persino a scodellare la hit della no wave, il galoppo sinistro di “Blonde Red Head”. Gli ultimi capolavori tendono alla dissoluzione, da “New New”, rantolo e improvvisazione collettiva, via via verso il trip rarefatto di “Lying On The Sofa Of Life”.
Tutte e tre le carriere a seguire sono rilevanti. Lindsay dapprima riparte da una breve collaborazione con Seth Tillet, quindi amplia collaborazioni e conoscenze: ritrova i Mars per “John Gavanti” (1979), si unisce agli estemporanei Pill Factory di Chance, incontra i Golden Palominos di Anton Fier, avvia i Lounge Lizards di John Lurie. Quindi si espande - confermando la sua statura di non-intellettuale del giro - a nome Ambitious Lovers grazie a un insieme rotante di personalità: di nuovo Fier, Mark Miller, Claudio e Jorge Silva, il fratello Duncan, David Moss, Reinaldo Fernandes, e soprattutto il programmatore Peter Scherer. Quella di “Envy” (1984), “Greed” (1988), “Lust” (1991) e, nel mezzo, “Pretty Ugly” (1990) col solo Scherer, è una fusion insieme cervellotica e anticonformistica con cui riscopre le radici brasiliane e le riproietta, deformi, al pubblico delle nascenti discoteche. Dopo un proprio Trio (1995) si riconferma in opere come “Mundo Civilizado” (1996), “Prize” (1999) e “Invoke” (2002). Recenti progetti collaborativi sono Anarchist Republic Of Bzzz, in quartetto con Marc Ribot, e Town, in duo con Sam Hillmer. “Charivari” (2022) è un album d’improvvisazioni per sola chitarra.
Mori, conscia del suo subitaneo status di matrigna della nuova avanguardia newyorkese, mette da parte la batteria (che riconsidera tutt'al più come drum-machine) per divenire improvvisatrice e sperimentatrice elettronica a tutto campo, in una serie sterminata di progetti e collaborazioni con nomi tutelari del giro (Zorn, Hideki, Frith, Gordon e Moore, Parkins, Douglas, Morris, Vandermark, Patton, Ibarra, Rasmussen etc), come in dischi solisti di rilievo: “Hex Kitchen” (1995), “Garden” (1996), “Labyrinth” (2001), “Myrninerest” (2005), “Class Insecta” (2009), “In The Light Of Shadows” (2015), “Obelisk” (2017), “Tracing The Magic” (2022).
Crutchfield, inventandosi la sigla Dark Day, dà invece luogo alla carriera più sorvolata, reclutando dal nulla un gruppo di talenti ancor più oscuri, da Phil Kline a Nina Canal (già nel giro di Chatham e futura Ut), ma anche la sempre valida Arlen dei Mars (poi sostituita da Barry Friar), anche se più avanti riducendosi a duo con Bill Sack, e poi a progetto solista. A parte un singolo fin troppo stentato, “Hands In The Dark/Invisible Man” (1979), il combo si fa notare per la lunga ruminazione marziale-sinfonica Residents-iana del successivo “Trapped” (1981), il loro capolavoro, peraltro forte anche dei sei bozzetti elettronici surrealisti del lato B (“Exterminations”). I primi album “Exterminating Angel” (1980) e “Window” (1982) guardano ormai insistentemente ai sommovimenti wave europei, in balli decadenti come “No Nothing Never” e “Arp’s Carpet” e danze elettro-teutoniche come “Window” e “Sleep”. Conclusa questa prima tranche, Crutchfield si trasforma in compositore di folk da camera per “Obsession” (1984), “Beyond The Pale” (1986) e “Darkest Before Dawn” (1989), con i soli apporti della chitarra di Sack e il cello di Steven Cheslik-DeMeyer. Le opere del ritorno, “Strange Clockwork” (1999), l’Ep “Loon” (2000) e “Strange Remains” (2014), sono invece raccolte di modesti esperimenti alle tastiere. A proprio nome ha anche fatto uscire una serie di dischi acustici per lira, arpa e tanpura.
I quattro cavalieri della non-Apocalisse: James Chance & The Contortions
I Contortions di James Chance sono una sorta di unicum. Se per DNA, Mars e Teenage Jesus la summa “No New York” rappresenta l’attestazione finale, per i Contortions fa da cellula germinale, non un consuntivo di una carriera oscura e gloriosa ma un’anticipazione di quanto di lì a poco diverrà l’unico vero album della scena storica. Più che annullare, implodere e decostruire, i Contortions mirano a ricostruire, riedificare un suono all’ombra di un leader carismatico.
Il complesso incarna anche l’ala kitsch del movimento. Mentre i colleghi incattiviscono e confondono di volta in volta lo stesso disorientante spunto, Chance lo rimette al centro attuffandosi nella musichetta pseudo-commerciale, nel ballo fisico e disinibito delle neonate discoteche, nella scuola funky degli ancheggiamenti erotici. Mentre lo sguardo degli altri penetra gelidamente il subconscio sessuale, quello di Chance si dà scopertamente e scompostamente alle profferte più lascive: quand’anche lo spirito rimanga lo stesso (il non-punk), Chance lo piega a personale, esplicito mezzo di provocazione.
Altra differenza con i colleghi sta nella nettezza gerarchica della band, colta in un cristallino assurdismo degno della Magic Band. Il vertice, James Chance (al secolo James Siegfried, ndr), è un jazzista fallito, un mancato Ayler ex-allievo di David Murray e innamorato dell’altro James, il mitico James Brown, “sex machine” per eccellenza, e istintivamente proteso a una versione discinta di Elvis Presley. Dopo essersi trasferito a New York, aver provato un primo complesso (Flaming Youth), essersi accostato per breve tempo ai progetti di Lunch, gli balena l’idea capitale di fusion dissonante centrata su canto e sax, radunando a sé George Scott, basso (poi sostituito da David Hofstra), Don Christensen, batteria, Jody Harris, chitarra, Pat Place, slide, e Adele Bertei, organo.
Nella compilation compaiono le prime bozze dei loro non-concerti. “Dish It Out” si trascina contorta e psicotica sul ritmo convulso di batteria, i balbettii funk del basso, le stecche irriducibili della chitarra, i non-contrappunti storditi dell’organo, e su tutto la doppietta brutalmente insolente di sax e canto. “Flip Your Face” ha un passo robusto e insieme mortificato da continui inceppamenti (le prime vere “contorsioni” del non-ensemble) e una jam per timbri vertiginosamente deformati, lanciati dalle scordature della chitarra di Place. In “Jaded”, invece, il suono si dirada e la cadenza assume la forma di una tortura sadica, quasi di cerimoniale, gli spazi vengono riempiti dai gregari in maniera quantomai allucinatoria e le parole perverse di Chance li perforano.
Sembra lo stadio terminale, l’ultimo spasmo, invece è il loro trampolino di lancio. “Buy” (1979), unico vero album del sestetto, unico lavoro a deflagrare realmente per i club della New York “no”, aumenta la dose di funk, il battito da ballare, e mostra ancor più determinazione nella spasmodica indeterminatezza del loro suono. Il pezzo-cardine, “Contort Yourself”, è una danza moderna all’insegna dei Pere Ubu, un balletto ossuto di sincopi velenose, scariche chitarristiche, urla furibonde, un autentico paradigma della no-dance-punk e un intimidente proclama di spettacolari ordini a contorcersi una, due, tre, quattro e cinque volte.
Ma ancor più rappresentativa di questo nuovo corso è “Design To Kill”, stentorea, persino ordinata nella sua depravazione tutta strumentale. Nonostante quasi accenni a cementare un’innovativa forma-canzone, nel disco Chance dà anche adito a una sua personale fluidità tra canto e passaggi improvvisati, e coglie l’occasione per rinnegare definitivamente il jazz, facendolo anzi regredire a baraonda maniacale di puro accompagnamento, anche se “Roving Eye”, spartita tra soul e acid-rock, detona uno dei suoi assoli di sax più iconici.
Soprattutto “My Infatuation” si fa fulgido esempio di questa rovente identificazione tra pulsioni personali e invenzioni di gruppo, secondo una sconnessione tra registri di marcetta e di filastrocca votata, sempre comunque, alla vicendevole contorsione. “Bedroom Athlete” si dà a tremori funk, frasi gestuali, ritmi spezzati, accelerati e subito decelerati, aumentando il senso della nevrastenia che precede l’atto sessuale più lascivo, incorniciato da due sonate free-jazz di sax. In “I Don’t Want To Be Happy” la sua autoanalisi istintiva si fa scatto ritmico che cela una ballabilità quasi automatica, immediatamente riempita di scorie (anti-)armoniche, mentre in “Throw Me Away” si fa antitesi del ritornello enfatico della canzone soul, per sottolineare la più catartica delle insofferenze verso sé stesso. Chance allo stesso tempo fa e disfa, costruisce e decostruisce, si regge su un suono di gruppo e al contempo vende anima e corpo per renderlo conflittuale e individualista. Sorta di Mick Jagger colto in un flusso di coscienza oltremodo viscerale, diventa spesso la versione esposta e vitalista del freudiano perturbante di Lunch.
Dopo aver registrato la colonna sonora del film underground di Diego Cortez, nemmeno mai pubblicato, “Grutzi Elvis” (1979) con Lindsay, Field e Scott (ribattezzati Pill Factory), che contiene anche l’arbusto di sole percussioni “Schleyer’s Tires”, Chance rinomina sé stesso in James White e ribattezza la sua compagine Blacks, concentrandosi appunto sulla contrapposizione tra ritmo bianco (da discoteca) e pathos nero (jazz e rhythm’n’blues) in “Off White” (1979), perdendo Bertei ma riacciuffando Lunch in un cameo e in uno dei suoi capolavori anti-chitarristici (“White Devil”). Il “Live Au Bain Douches” (1980) chiude, e suggella, la stagione d’oro di James Chance-White.
La continuità di line-up s’interrompe con “Sax Maniac” (1982), rivoluzionata fino a un assetto allargato forte di ospiti agli ottoni (in cui l’illustre Joseph Bowie gioca un ruolo privilegiato), anche se lo stile di White insiste ancora, con rinnovato spirito barbarico, a scardinare sincopi funk e linee ribattute discomusic. L’attitudine “no” infine si affievolisce con la parentesi dei “Flaming Demonics” (1983) e con l’ultimo dei Blacks “Melt Yourself Down” (1986), fino a rimanere una cartolina con la ricostituzione della sigla Contortions per “Soul Exorcism” (1991), “Molotov Cocktail Lounge” (1996), “White Cannibal” (2000), “Incorrigible” (2012) e “The Flesh Is Weak” (2016). Nel 2009 persino si riappacifica col verbo jazz eseguendo standard in modo regolare. Si spegne nel 2024.
Il seguito dei primi leggendari Contortions è proficuo. Pat Place forma i fondamentali Bush Tetras, strepitosi pionieri del punk-funk a venire, laddove Harris, Christensen e Scott formano i portentosi Raybeats di revival surf-rock. Bertei forma le dignitose Bloods, dà un ottimo contributo alla colonna sonora del noir “Vortex” (1982) di Scott & Beth B, e incide singoli, “Build Me A Bridge” (1983) e “When It’s Over” (1985), e un album di tardo synth-pop, “Little Lives” (1988), fino a tentare l’house in “Zami Girl” (1994).
Dalla parte di Branca
Meno clamorosa (ma solo perché sfuggita alla chiamata di Eno) ma forse anche più influente è la sub-scena “no” sorta nel quartiere di SoHo, a un paio di miglia dal centro nevralgico dell’East Village. E’ qui che Rhys Chatham, già scapigliato allievo di La Monte Young e Morton Subtonick, compositore e fondatore del Kitchen Center, nel 1976 - folgorato dai Ramones - estende e ritraduce le proprie ricerche sul minimalismo a complessi pseudo-punk di non-musicisti che mai vedranno lo studio di registrazione, quali Robert Appleton, Nina Canal e Daile Kaplan, ossia i Gynecologists, poi portati avanti anche come Tone Death, forte dell’amicizia con Peter Gordon, e soprattutto entra nell’orbita dei progetti a capo dell’altra personalità emergente del circondario, Glenn Branca.
Provetto chitarrista proveniente dalla Pennsylvania, Branca si trasferisce nel 1976 a New York dopo aver maturato la convinzione, già nel suo operato in quel di Boston, che la sua specialità sia la sperimentazione di suono per accompagnamenti dal vivo in pièce teatrali di ricerca (la compagnia dei Bastard Theater, da lui stesso fondata). A contatto con il clima newyorkese realizza che quella sperimentazione di corredo è invece il suo centro, la scorpora dal teatro e ne fa la propria missione. In particolare, a contatto con la N. Dodo Band di Jeffrey Lohn, emerge l’idea di un proprio gruppo che, di nuovo, potesse apparire in pubblico fondendo la propria sperimentazione con l’approccio istintivo e barbarico del punk, i Theoretical Girls, insieme con Wharton Tiers e Margaret DeWys. Rispetto ai Gynecologists di Chatham, i Theoretical di Branca riescono quantomeno ad autoprodursi un singolo: “U.S. Millie/You Got Me” (1978). “U.S. Millie” (di Lohn) è una gragnuola di frasi minimaliste in rapida successione, laddove “You Got Me” (di Branca), incastona tra frustate di metalli e mitragliate di basso e tastiera una stupefacente storpiatura alienata e spastica della “You Really Got Me” dei Kinks.
L’esperienza è, al solito, cortissima e fertilissima al contempo. Branca forma i Daily Life con la batterista Barbara Ess, il secondo chitarrista Paul McMahon e la tastierista Christine Hahn. Branca, Ess e Hahn continuano come Static con un altro Ep dal titolo emblematico, “Theoretical Record” (1979), contenente “Don’t Let Me Stop You”, monodramma ossessionante prima quasi-corale e poi rumorista, e “My Relationship”, altra formidabile incursione nella più sferragliante post-psichedelia.
Un Branca ormai compositore infine inventa il minimalismo di derivazione “no”, moltiplicando le intuizioni dei suoi primordiali complessi a un sinfonismo chitarristico orientato alla cacofonia. Grazie alla conoscenza di Ned Sublette raduna un nugolo di chitarristi, tra cui Thurston Moore e Lee Ranaldo (ma anche Michael Gross e David Rosenbloom), dapprima in formato ancora corto, l’Ep “Lesson No. 1” (1980), e poi avanzando verso i primi capolavori del genere, “Ascension” (1981) e “Indeterminate Activity Of Resultant Masses” (2007), fino a diventare sinfonista a tutti gli effetti, con la “Symphony No. 1” (1983), soprannominata “Tonal Plexus”, e la “Symphony No. 3” (1983), soprannominata “Gloria” (in cui si prefigge di coprire l’intera serie enarmonica), non dimenticando peraltro le sue radici teatrali nel balletto “The World Upside Down” (1992).
Hahn forma le CKM con Miranda Stanton e una giovanissima Kim Gordon, quindi emigra a Berlino unendosi ai Luxus dell’irregolare Martin Kippenberger, per l’unico oscuro singolo “New York - Auschwitz” (1979), e poi fondando le Malaria, contribuendo così alla fondazione della gloriosa scena wave mitteleuropea. Ess si fa iniziatrice di progetti tutti femminili, il complesso di performer femministe Disband (sole voci e percussioni trovate) e il trio delle Y Pants. Lohn registra un proprio “Music From Paradise” (1984), colonna sonora di un balletto sperimentale dedicato a Biko, un disco d’ensemble violentemente free-form, primo scapestrato figlioccio dei padrini Branca e Chatham, mentre DeWys ricomparirà decenni dopo con una lunga improvvisazione vocale, “I Oh” (2001). McMahon e Tiers si ritrovano insieme negli A Band, ma Tiers si fa sentire anche con un proprio “Brighter Than Life” (1996), estrema propaggine delle sinfonie di Branca collegata all’era del post-rock, e poi con raccolte di pezzi per solo pianoforte, “Mayan Nocturnes” (2013) e “Political Sonatas” (2016).
Chatham avvierà a pieno titolo una propria fertile attività di compositore chitarristico, con lavori come “Guitar Ring” (1982) e “The Out Of Tune Guitar” (1982), fino ad arrivare a “Waterloo No. 2” (1986), ma anche i suoi ex-Gynecologists rimangono attivi nella scena attorno al Kitchen: Appleton forma i Morales e poi i Tenant con un trio di talenti oscuri (i chitarristi Ursula Kinzel e Raphael Rubinstein e il batterista Terry Berne), anche se il loro singolo “Manifestation Of Your Sickness” (1979) mostra segni di adeguamento al post-punk. Più lungimirante Canal con le sue Ut dei primi Ep, “Ut” (1984) e “Confidential” (1985), e il primo album, “Conviction” (1985).
Classici minori della stagione d’oro newyorkese sono gli oscuri Fakir del singolo “The Only Dance There Is” (1981), i Noise R Us, i Mofungo di Elliott Sharp e Robert Sietsema, le tredici Pulsallama, gli Ike Yard, e gli ESG delle sorelle Scroogins, autentici codificatori del no-funk anti-ballabile di “Come Away” (1983). Al di fuori di New York vengono alla ribalta, sia pure per pochissimo, i losangelini Monitor di “Beak” (1979) e i Nervous Gender di “Music From Hell” (1981). Merita poi qualche menzione la Cleveland art-punk di discendenza Pere Ubu, con i i Death Of Samantha di Doug Gillard, i Pagans di Mike Hudson e Hi Sheriffs Of Blue dello stesso Sharp in compagnia di Mark Dagley, poi tramutatisi in Girls e recentemente rinvenuti nel buon album perduto “Punk-Dada Pulchritude” (2015), come pure la Boston dei Maps di James Clements e Judy Grunwald, dei Vitamin di Chris Gill e Jason Shapiro e dei Kilslug di Larry “Lifeless” Coyle, e il New Jersey dei Gut Bank.
Frattanto anche oltreoceano, in Uk, si muove una propria fertile scena no wave cementata dalla Y Records di Richard O’Dell, dai Maximum Joy ai Essential Logic, dai Fatal Microbes alle Poison Girls - vicine all’anarco-punk dei Crass - dalle Kleenex ai Shriekback, dai Furious Pig alle Raincoats, fino alla breve esperienza “shock” dei Raped.
Oltre a James Ulmer che decide di tributare i fasti del movimento intitolando “No Wave” (1980) l’album della sua Music Revelation Ensemble, un’importante deviazione prende abbrivio dal giro di James Chance. Da una parte il trombonista Joseph Bowie distacca i propri Defunkt con due album di jazz-funk pesantemente orientato al groove, l’omonimo “Defunkt” (1980) e “Thermonuclear Sweat” (1982), dall’altro l’ancor più radicale Robert Aaron, anch’egli nella schiera dei Blacks, mette a punto le proprie improvvisazioni post-free-jazz di “Datura” (1981).
Queste esperienze aprono le cateratte, lanciano la liaison con le contaminazioni progressive dei fuoriusciti di Canterbury e trasmigrati in Usa, da Fred Frith in poi, così come aveva peraltro già messo in atto l’ultima fase della grande stagione del Davis elettrico, contaminato e contaminatore per eccellenza. In altre parole, alcuni musicisti già afferenti alla generazione di prog avanzato si fanno contagiare dalla generazione “no” per far sopravvivere, e poi far evolvere, proprio quel verbo che aveva sì ottenuto caratura transcontinentale ma che stava pure volgendo lentamente al dimenticatoio e al disuso: Bill Laswell - notevoli specialmente i suoi Massacre di “Killing Time” (1981) - John Lurie, Muffins (i Soft Machine americani), Happy The Man, Anton Fier e Alan Licht. Questo piccolo stuolo di straordinari talenti porterà alla collegata generazione dei John Zorn, delle Diamanda Galas e dei Borbetomagus, per aprire le porte alla nuova stagione dell’avanguardia newyorkese degli anni 80.
Invece, il pertugio di uscita dell’intero movimento “no” lo scopriranno istrioni leggendari come Klaus Nomi, ormai proiettati alla rifinitura dell’immagine (sofisticatissima, dandy-decadente) e alla rinascenza tecnologica (l’alba del synth-pop), ma anche intellettuali di sinistra come Lizzy Mercier Descloux e sperimentatori obliqui come Walter Steding.
All’eredità di Branca si deve, soprattutto, la grande traversata dal “no” al più conosciuto e lodato noise-rock. Anzitutto si affermano i Sonic Youth degli allievi Moore e Ranaldo, oltre a una Gordon reclutata dall’esperienza con Hahn. Attraverso il primo omonimo Ep “Sonic Youth” (1982) e il primo lungo “Confusion Is Sex” (1983), proprio editi dalla Neutral di Branca fresca di fondazione, ma anche con il singolo con Lunch “Death Valley ‘69” (1985) e quel fondamentale “Bad Moon Rising” (1985) che lo include, le idee scomposte di Mars e DNA tramutano in stilismo, in grammatica di gruppo, in perfetta eloquenza dell’alienazione metropolitana, il primale e primitivo spirito inconscio e ribollente muta in cosciente, glaciale anatema di perversione e dissoluzione.
Nello stesso periodo si impongono poi gli Swans di Mike Gira dei primi brutali, distorti, foschi e deliranti “Filth” (1983) e “Cop” (1984), di nuovo prodotti dalla Neutral Records, dischi del tutto protesi a raggrumare le intuizioni appena accennate dei Theoretical, a sovramplificarle a calvario tonitruante, sempre più grandguignolesco, ultra-espressionistico.
Minori ma non meno significativi sono i Live Skull di “Bringing Home The Bait” (1985), i Phantom Tollbooth del primo Robert Pollard e gli Antietam (provenienti dal Kentucky). Con dischi come “From Mars” (1984) e “Love American Style” (1985), ma in parte anche il terzo “Let It Breed” (1986), gli Honeymoon Killers si affermano come i nuovi demoni del Cbgb’s, poco prima del ritorno di fiamma del punk sotto l’intransigente forma dell’hardcore. Inizialmente in quel di Washington, i Pussy Galore di Jon Spencer e Neil Hagerty infine sguinzagliano per la City le rispettive discendenze creative, in particolar modo quei Royal Trux che, una volta di più, mostrano l’efficacia e la fertilità del modo “no” nel plasmare il nuovo genere nascente, come dimostrano i loro capolavori di deviato analfabetismo anti-blues, il debutto “Royal Trux” (1987), il perduto “Hand Of Glory” (2002) e il monumentale “Twin Infinitives” (1990).
Tra tutti i figliocci del no-noise dispersi negli States vanno senz’altro citati i texani Butthole Surfers di Gibby Haynes e Paul Leary, anch’essi al nadir della più infuocata e dissacrante ispirazione nei primi lavori, “Butthole Surfers” (1983) e “Psychic Powerless” (1985), i Siege dal Massachusetts del gioiello “Grim Reaper” dal loro unico “Drop Dead” (1984) e i conterranei Moving Targets, ma forse ancor più autentica è l’avventura dei No Trend dal Maryland dei vari “Too Many Humans” (1984) e “A Dozen Dead Roses” (1985), fino a un Ep che ospita Lunch, “Heart Of Darkness” (1985).
Lo sguardo si può estendere fino alla terra australiana, anche se con complessi quasi subito immedesimatisi nel clima continentale. Non solamente putativo è il collegamento tra la forza selvaggia e la naturale propensione al gotico cacofonico dei Birthday Party di Nick Cave e Mick Harvey, australiani di nazionalità ma cosmopoliti d’indole, e il suono e l’estetica del movimento “no”, peraltro attestato anche da un fondamentale split di nuovo con Lunch, “Drunk On Pope’s Blood/The Agony Is The Ecstasy” (1982). Analoga, anche se spostata sul versante dell’istrionismo virtuosistico, la pur breve epopea dei Laughing Clowns di Ed Kuepper e Bob Farrell.
Il risveglio e gli anni recenti
Nel decennio 90, mentre i grandi eredi optano per svolte stilistiche, o degenerazioni pop, o omologazioni modaiole, o deviazioni autoriali, alcuni nuovi rampanti mostrano i primi vagiti di autentico risveglio del verbo “no”. Anzitutto vengono i Dial, fondati dalla reduce Ham (anche con Dom Weeks dei Furious Pig) e dunque diretti discendenti delle Ut, con una serie di album gloriosi che culminano con la colossale “Noise Opera” (2016), ispirata a Ornette Coleman, possibile canto del cigno di un’intera generazione di musicisti noise. A fare da grimaldello per le nuove generazioni sono invece gruppi che incorporano elementi d’improvvisazione rumorista-avanguardista, come le Scissor Girls di Azita Youssefi, a Chicago, e le Meltdown di Amy Heneveld, a Washington. Come la no wave storica nasce in opposizione al punk, la nuova no wave di metà anni 90, tutta al femminile, nasce in opposizione alle riot grrrl. Di nuovo una sordida, psicotica reazione a un moto rivoluzionario più ostentato che concreto, dunque ritenuto esteriore e semplicistico.
Frattanto nell’epicentro New York la scena underground vivacchia al riparo dell’esplosione di grunge, hip-hop e delle tendenze imitative del britpop d’oltreoceano, limitandosi a piccoli focolai debitori dei Sonic Youth facenti capo proprio a Steve Shelley e al giro Smells Like Records, come Mosquito, Double Dynamite, Sammy, e non ultimi i Blonde Redhead (debitori dei DNA quasi solo nel nome, dunque più che altro un falso allarme di risveglio). Novità più interessanti provengono semmai sempre da Chicago, con gli Us Maple e i Flying Luttenbachers, poi Providence, con gli Arab On Radar, quindi Miami, con gli Harry Pussy, e San Francisco, con i Deerhoof.
La storia si ripete a inizio millennio, ma stavolta, anziché una nenia di diffuso malessere socioculturale, la “Grande mela” si risveglia con uno dei più terribili shock della storia: l’attentato al World Trade Center dell’11 Settembre 2001. La scena musicale newyorkese riesplode attorno alla tendenza, peraltro già pubblicizzatissima, del revival wave, dark e punk-funk di Strokes, Rapture Interpol, Lcd Soundsystem, e del giro Dfa Records. L’Eno del caso - fatalità un altro Brian - Brian Long, produttore, speaker e fondatore della Yes Know, coglie la palla al balzo per produrre (con Chris White) una compilation riepilogativa, ironicamente intitolata “Yes New York” (2003) sia per pubblicizzare tra le righe il suo Management, sia come sprone di speranza dopo la catastrofe, sia, e soprattutto, per ironica contrapposizione alla prima mitica compilation. In realtà l’operazione di Long, a più di due decadi da “No New York”, equivale a una pesca a strascico per cementare un nuovo possibile mainstream finalmente fondato sul rock alternativo, non certo a una sonda manovrata nelle oscurità sotterranee.
Di nuovo, quindi, si sente fremere una nuova, autentica scena “no”, e ancora in opposizione all’hype della risorta new wave (ribattezzata dalla critica per l’occasione “nu wave”). Nuovi prodromi, profetici come lo furono i Suicide, mostrano la via dell’estrema modellazione elettronica dell’hardcore-punk per coadiuvare la rifondazione del verbo “no”: Black Dice, Flux Information Sciences, Animal Collective e Gang Gang Dance. Iniziatori duri e puri si hanno così negli Ex Models di Shahin Motia, nei Sightings di Mark Morgan, e nei Seconds di Jeannie Kwon, mentre altri due act muovono quell’insegnamento verso il groove delle discoteche off e dei rave, ossia gli Yeah Yeah Yeahs di Karen O (con Brian Chase dei Seconds) e i Liars di Angus Andrew. Rispettivamente due i singoli di sfondamento, “Mr Your On Fire Mr” (2001) e l’omonimo Ep “Yeah Yeah Yeahs” (2001) - con l’anthem “Bang” - che cercano di creare un ponte a dire il vero già compromissorio tra la nuova avanguardia e il revival di Gang Of Four e Fall. Dai loro lavori si erge però anche qualcosa di più intransigente, dotato di una forza sperimentale d’immediatezza autentica, del più genuino carisma generazionale. Gli Yeahs improvvisano una “Art Star” giocata sull’alternanza tra motivetto gaio e crollo psicotico, laddove i Liars inventano una vasta “This Dust Makes That Mud” di perenne rombo di basso, canto schizoide, rumori e campionamenti sfregianti.
Ancora la California e Washington si confermano centri propulsori dell’avanguardia e raffinatori di quanto iniziato da Liars e Yeahs. Dalla California proviene una successione spettacolosa di complessi: le Erase Errata (già California Lightening), i Numbers, gli Health, gli Hella, i No Age e le Sister Fucker; da Washington arrivano i Black Eyes, poi evoluti in Mi Ami. In disparte, ma presto messi in luce per la loro talentuosa caparbietà, sono anche i Ponytail, dal Maryland, e i Wolf Eyes, dal Michigan.
Il giusto sprint lo dà un’altra ecatombe - stavolta di natura economico-finanziaria - che, di nuovo, dalla “Grande Mela” spande la sua onda d’urto all’intero globo, ossia la “Great Recession” di fine anni 2000 conseguente al fallimento della Lehman Brothers con sede centrale nella City, simbolico colpo di grazia al “Global Village” e inizio del nuovo precariato. Il rinascimento “no” newyorkese, così drammaticamente rinverdito, trova sferza e suggello in un sol colpo in un casuale inno delle Vivian Girls incluso nel primo Ep (2007), più che emblematicamente intitolato “No”, cantato in tono allegro e sarcastico, timidamente dolceamaro, come se la primale fantasia sillabica dei Ramones fosse stata fatta implodere alla sola particella di negazione, canticchiata ad libitum come folle ma definitivo segno di resa.
Specialità della nuova fioritura è comunque il duo maschile-femminile nello stile dei maestri Royal Trux, ad esempio incarnato dagli High Places (poi R.R. Barbadas), gli Sleigh Bells, gli Ora Iso e ancor più i Leya, progetto successivo ai potenti Dreebs di Adam Markiewicz, Jordan Bernstein e Shannon Sigley, una sincera rivitalizzazione delle migliori ricerche underground dell’era, ma anche di nuovo totalmente al femminile, come le Talk Normal della batterista Andrya Ambro e della chitarrista Sarah Register, decise a scardinare una volta per tutte il noise-rock vecchia scuola per riportarlo ad affare avanguardista, soprattutto nel loro primo “Sugarland” (2009). Water From Your Eyes impersonano quasi per intero il versante dance, e i Gorgeous quello noise-pop, mentre i Wetware (Matt Morandi e Roxy Farman) convogliano stile post-industriale, elettroacustica povera, cadenze anti-tribali e imprendibili vocalismi gotici in “Flail” (2020).
Tra i complessi allargati, a parte qualcosa di notevole nei primi Parquet Courts, spiccano maggiormente i Sediment Club e ancor di più il combo no-dance, no-funk e no-punk dei Guerilla Toss - all’inizio un quintetto - dei due medley contenuti nel primo “Jeffrey Johnson” (2012), dichiaratamente improntati a fagocitare quanti più stimoli provenienti dalla scena storica (le scordature dei Contortions, le abrasioni dei Mars, gli scalpiccii dei Teenage Jesus), ma anche le Palberta dei loro lunghi prontuari d’invenzioncine anti-armoniche a più voci. Interessante intersezione tra membri di Guerilla Toss e Palberta sono gli Shimmer.
I Kill Alters della prima cassetta omonima (2015) e del concept “Armed To The Teeth L.M.O.M.M.” (2022), voluti inizialmente dal batterista Hisham Baroocha fuoriuscito dai Black Dice, ma soprattutto spadroneggiati dalla vocalist terrorista-rumorista Bonnie Baxter, hanno anche il merito di aprire al cosmo - tutto newyorkese - dei nuovi digital hardcore e breakcore, con act come Machine Girl, Deli Girls e Murderpact.
Un’altra strepitosa cantante, Veronica Torres, guida i Pill del magistrale “Convenience” (2016). Significativo anzitutto nel nome è poi il primo Ep dei Model Actriz, “No” (2017), ma si distinguono anche i quattro Palm di “Trading Basics” (2015). Estrema e al contempo fertilissima propaggine viene dal trio ultranoise dei Piss Sink, ma i più originali al trapasso tra decenni sono forse i Lip Critic: oltre a rispolverare la proverbiale concisione del verbo “no” nei loro “Kill Lip Critic” (2019) e “Lip Critic II” (2020), il quartetto vanta la spettacolare conformazione di due batterie, un vocalist particolarmente delirante e dissennato, e un producer elettronico.
Significativi appaiono anche gli atti solisti, come la rediviva Gordon che finalmente approda all’album a proprio nome e pure con un titolo che ambirebbe a chiudere simbolicamente il cerchio, “No Home Record” (2019), Zane Morris, già con i Never Healed, che tramite il nomignolo TINT s’invia in quegli esperimenti elettronici che furono di Jon Appleton ai primordi della scena, Margaret Chardiet col nome di battaglia Pharmakon, esimia seguace degli psicodrammi elettronoise di Galas, e Luwayne “dreamcruscher” Glass, altro padrino di nuova arte negativa fondata sulla modificazione rumorista del collage di campioni e suoni trovati.
Altri nuovi talenti emergono al di fuori della City. Dall’infaticabile fucina di Providence viene un potente ruggito di donne, le Whore Paint, definitesi “pre-post-feminist rage-fueled dystopia”, oltre all’harsh-noise e agli strilli spaccatimpani di Stephanie “Gyna Bootleg” Neves, tra cui i suoi Vomitatrix con Walter alla batteria nella devastante maratona no-grind “Sloppy Seconds Saviour” (2022), e di Pippi Zornoza col grandioso recital-sabba di “Fruit Of The Ash” (2018).
Ancora dalla California provengono i Naked Lights di “On Nature” (2016), le No Babies, attive fino “Someone To Watch Over Me” (2018), e la punkette elettronoise Evicshen. Dal New Mexico si hanno i due Endlings, John Dieterich dei Deerhoof e l'improvvisatore Raven Chacon, già noti come Summer Assassins. In Ohio notevoli sono Stella Research Committee. A Chicago si ricordano i Ganser di “Odd Talk” (2018) e “Just Look At That Sky” (2020). Nel New Jersey operano, cioè devastano, i Computer Crimes (da cui Mach Turtle distaccherà una non meno devastante carriera solista). A Denton, Texas, si sviluppa una piccola sub-scena attorno al festival Dentonpalooza: Problem Dogg, Bukkake Moms, Gay Cum Daddies, Reece McLean, Wrangler Cargo Pantler Trio, etc.
Oltreoceano, a Melbourne, al riparo dagli eccessi del revival post-punk, sono gli Exek di Albert Wolski, mentre uno sguardo all’Europa degli ultimi anni porta in luce gli Aspirin (Svizzera), i Kurws (Polonia), i Timüt (Francia), i Guttersnipe e gli Omnibael (Inghilterra), giungendo a un abnorme monolite nel supergruppo degli Ab’bhau (Spagna) delle “Devastaciones Bajo El Fulgor Del Vacìo” (2022). In Italia lungimiranti padrini sono stati i Plasticost, peraltro unici al mondo a dare un allestimento alla leggendaria no-operetta “John Gavanti” di Mars/DNA, ma massime rappresentanti sono le Allun culminanti nella sonata per voce, chitarra, campionatore e giocattoli di “On.it.sed” (2005), oltre alla sigla Alos per la sola ritualistica Stefania Pedretti, quindi i primi Sneers, i Piumolesto di “Esoisterico” (2020) e in parte i Leatherette. Buon compendio di meteore della scena nostrana sta poi nella compilation “Italia No!” (2013). Da ricordare anche l'album collaborativo “Wrong Ninna Nanna” (2020) a nome Franco Berardi-Marco Bertoni con la partecipazione di Lunch in persona.