Sneers

For humanity to rest

intervista di Ossydiana Speri

Tosco-trentino di origine, romano di passaggio e berlinese di adozione, il duo composto da Maria Greta Blaankart e Leonardo O. Stefenelli sta portando avanti da anni un intrigante discorso di sabotaggio dall'interno di generi come noise, No wave e gothic rock. Li raggiungo telefonicamente per parlare del loro terzo album "Heaven Will Rescue Us, We're The Scum, We're In The Sun" e fare un po' il punto della loro raminga carriera.

Inizierei ricostruendo questo vostro percorso geograficamente tortuoso…
MG: Gli Sneers nascono a Berlino alla fine del 2012. Dopo un anno e mezzo ci siamo trasferiti a Roma, per motivi lavorativi e personali. Siamo rimasti lì per un po' ma non l’abbiamo mai considerata la nostra città, nessuno di noi due è romano (io sono di Pistoia, Leonardo di Trento) e in quel periodo siamo comunque tornati spesso a Berlino, per lavoro e per svago.

Vi conoscevate già prima di trasferirvi a Berlino?
L: Sì, tramite amici in comune, suonando tutte e due in progetti diversi. Ora stiamo per tornare lì in pianta stabile anche se fatichiamo a star fermi, forse dobbiamo ancora trovare la nostra collocazione…

Concentriamoci sul vostro itinerario artistico: una cosa che mi affascinò di "For Our Soul, Uplifting Lights To Shine As Fires" è l'idea di prendere generi tipicamente "urbani" come la No wave e il noise per decontestualizzarli, trasformandoli in qualcosa di trascendentale, di mistico quasi, rimuovendo la patina metropolitana e "terrena" che li caratterizza. E' stata un'operazione cosciente o è una mia interpretazione troppo fantasiosa?
MG: Non è stata una scelta cosciente, quindi potrebbe essere una tua interpretazione ma basata su qualcosa di reale. Il nostro percorso è abbastanza casuale, seguiamo l'istinto…
L: I due generi che hai citato sono sicuramente presenti e, come dici tu, sono in qualche modo connessi all'idea della metropoli. La dimensione mistica di cui parli credo dipenda soprattutto dai testi…

Chi li scrive?
MG: Io. E' una scrittura molto immediata e diretta, non c'è mai il processo classico per cui partendo dal testo si arriva a una melodia. Di solito inizio da una frase che mi si insinua nella testa. Prendi ad esempio "Heaven Will Rescue Us, We're The Scum, We're In The Sun": da quel verso è nato prima il brano, poi tutto il disco. La frase diventa mantra, il mantra melodia, e dalla melodia viene fuori il pezzo, che alla fine viene arrangiato.

Rispetto agli esordi, ho l'impressione che stiate diventando sempre più gotici, sia sul piano musicale che lirico. Già tra il primo e il secondo disco ho riscontrato una forte enfasi sulla componente dark, magari presente sin dall’inizio ma confinata per lo più nei testi, mentre da "With Flames Like Hope To Mortals Given" in poi è diventata preponderante anche nel sound...
L: Sì, "For Our Soul, Uplifting Lights To Shine As Fires" fu un lavoro più d'impulso, era il nostro primo album insieme e stavamo ancora cercando una direzione che mano a mano si è definita. Adesso la costruzione musicale dei brani è molto più consapevole. Non saprei se definirla gotica, anche se alcune sonorità e atmosfere di sicuro vengono da lì, soprattutto nel secondo disco. Gli ultimi due lavori sono più ragionati e complessi, e quindi può essere più facile collocarli musicalmente rispetto al primo, che era più confusionario e meno atmosferico. Ma anche qui è stato un percorso spontaneo, non ci siamo mai detti di prendere una strada piuttosto che un'altra.
MG: Io in realtà trovo che negli ultimi due dischi ci siano diversi momenti di apertura e che il primo sia molto più scuro, ma è una mia visione credo abbastanza controcorrente.
L: L'oscurità di fondo c’è sempre stata, con gli ultimi lavori è solo più riconoscibile, essendo in generale più definiti.

Sono due tipi differenti di cupezza: il primo è opprimente e monocromatico, gli altri due più ariosi e atmosferici. Credo dipenda anche dal fatto che si stiano sempre più insinuando elementi folk e psichedelici, soprattutto nell'ultimo. Nella recensione traccio un parallelo con il cosiddetto "folk satanico", quella sottocorrente del progressive che tra fine anni 60 e inizio 70 flirtava esplicitamente con tematiche esoteriche e occulte: Comus, Black Widow, Coven, Cromagnon, Paul Giovanni e via discorrendo...
L: La componente folk è assolutamente presente, soprattutto a livello di strumentazione. C'è meno chitarra elettrica.
MG: Anche nella scrittura: i brani sono stati tutti composti con la chitarra acustica, e credo si senta. Del folk c'è sicuramente quell'elemento di mantra ripetitivo che evocavo prima.
L: Comunque mi piace molto la definizione "folk satanico"! Magari piacerà meno alle mamme…

Non deve piacere alle mamme! (ridiamo) Una novità di "Heaven Will Rescue Us, We're The Scum, We're In The Sun" è l'uso della voce: nel primo era un cantato un po' alla Lydia Lunch, adesso è una smorfia da strega, o da posseduta… Non trasmette più una semplice angoscia esistenziale, ma qualcosa di più inquietante…
MG: Questa cosa dipende da due fattori: in primis il modo in cui è stata registrata la voce, incisa dall'inizio alla fine in un'unica take, senza tagli o aggiunte. Tenendo la prima versione di una voce si conservano tutta una serie di sfumature che riprovandola andrebbero inevitabilmente perdute, perché anche solo nella prima mezz'ora di vita di un brano chi lo canta inizia ad adagiarsi su ciò che dà ormai per assodato. Anche gli errori di intonazione o la metrica sballata hanno una funzione nell'arricchire l'esecuzione. Questo si riallaccia al secondo aspetto: ogni brano racconta una storia, che come tale deve essere interpretata. Sicuramente ho fatto più attenzione a questo, che contribuisce molto a differenziare un pezzo dall’altro.

Infatti ogni canzone è ricca di modulazioni, e sembra quasi cantata da una persona differente… Le singole voci sono state trattate in maniera differente, a livello di effetti intendo, o è solo un discorso di interpretazione?
MG: No assolutamente, al massimo c'è un po’ di riverbero. E' tutto al livello dell'esecuzione.

Parliamo dei testi. Anche qui ci sono degli elementi nuovi: innanzitutto, un immaginario letterario che potremmo definire southern gothic, quasi faulkneriano, con un gusto morboso nell'insistere sul dettaglio macabro e scene raccapriccianti descritte in maniera dinamica, da murder ballad. Riconoscete questo tipo di suggestione?
MG: Certamente. Hai in mente un pezzo in particolare o ti riferisci a tutto il disco?

Mi è parso un aspetto ricorrente. Nella recensione in particolare parlo di "Fevers For Believers" e "Evil Does That Thing"…
MG: Esatto, io avevo in mente proprio "Evil Does That Thing", ma anche "Rossella In Badlands". Alcune sono storie vere, seppur romanzate. Ad esempio, il primo brano che ti ho citato lo è interamente, mentre il secondo è ispirato all'esperienza di una persona che abbiamo conosciuto.
L: Sono immaginari molto crudi, ma è il mondo a essere davvero cattivo, non noi…

Assolutamente, infatti non c'è cinismo in quello che fate, mi sembra la fotografia di un Male ben tangibile. Questo si ricollega con il secondo elemento che ho individuato: una religiosità sempre delirante e sopra le righe, anche qui vagamente Cave-iana…
MG: Senz'altro. In realtà non si è radicalizzata, è sempre stata presente. Tutti i brani narrano una storia, e l'elemento religioso entra in gioco ogni volta che il protagonista chiede qualcosa. E' una religiosità egoistica, opportunista.

Sì, come se si richiedesse un intervento soprannaturale per togliersi d'impaccio, e da personaggi mai davvero innocenti: è un disco popolato di peccatori…
MG: Assolutamente sì, sono tutte storie di peccatori. Forse l'unico spiraglio di luce c’è in "For Humanity To Rest", altro brano in cui è fortissima la componente religiosa, dove l'elemento negativo è rappresentato dalla morte.

E' un disco in cui c’è molto spirito e molta carne, tutti e due sanguinolenti. Penso sia questo che vi riscatta dalla perdita di credibilità che affligge chi, negli ultimi tempi, si ostina a maneggiare un certo tipo di materiale. Intendo dire, è sotto gli occhi di tutti quanto l'universo gotico sia in crisi: un immaginario che dovrebbe risultare conturbante ormai si basa solo sulla riproposizione asfittica di modelli stereotipati, creando una musica che è tutto fuorché cupa, e guarda caso quasi sempre prodotta da persone di una mediocrità e di un conformismo allucinanti. Per carità, il discorso legato al costume c'è sempre stato, ma mi sembra che i nuovi dark siano interessati solo alla moda e ad andare a ballare, che tra parentesi non mi paiono attività granché "oscure"… La vostra invece è una musica rituale, che evoca davvero forze spettrali, laddove la maggior parte dei vostri colleghi si limita a evocare i propri idoli…
L: Certo, e forse dipende dal fatto che siamo sul serio due persone disturbate (ride). A parte ciò, noi non veniamo da quella scena lì, pur avendo molti ascolti simili. Sia come musicisti sia come ascoltatori non apparteniamo a quell'immaginario, non ci siamo mai vestiti in un certo modo e non siamo mai andati a certe serate, non è la nostra scena di riferimento, anche se in qualche modo ne abbiamo assimilato qualcosa. In quello che facciamo ci sono molte influenze, ma a livello di canoni non ci identifichiamo in nessuna di esse. Quello che dici tu di noi, che anche secondo me è molto positivo, penso derivi da questo.
MG: Non basta vestirsi di nero e usare molto riverbero per fare della musica alternativa, anzi, atteggiamenti del genere danneggiano gli ascoltatori, soprattutto quelli di primo pelo, che si abituano a considerare come alternative cose che non lo sono affatto.
L: In fondo è il solito discorso sull’attitudine, come un punk non lo riconosci dalla cresta e dagli anfibi. Identificare alcuni generi con stereotipi che hanno poco a che fare con la musica serve solo a creare modelli, mentre ciò che si vuole dire va ricercato innanzitutto dentro di sé.
MG: L'importante è essere onesti, non essere dark…
L: Esatto. E' molto più oscuro lo sguardo di uno come Michael Gira, che non si è mai truccato né ha indossato pelle e borchie, rispetto a un gruppo che si definisce dark ma magari è solo patinato.

Visto che hai citato gli Swans, parliamo dell'ospite prestigioso che appare nell'ultimo album (Kristof Hahn, ndr)… Com'è stato lavorare con lui, e che tipo di contributo ha dato?
MG: A dire il vero, è stata una scelta dell'ultimo secondo. Eravamo già quasi alla fine delle registrazioni quando abbiamo incontrato Kristof, abbiamo iniziato a parlare del disco e, su due piedi, ci è venuto in mente di chiedergli di suonare delle parti di lap steel, con tutto il candore del mondo…

Ma come ci siete entrati in contatto?
L: L'avevamo già conosciuto tramite alcuni amici perché a Berlino frequenta un locale chiamato Cuore di Vetro, dove gravitano diverse persone della scena musicale storica della città. L'abbiamo rincontrato durante le incisioni e chiacchierando gli abbiamo proposto di suonare nel disco. Ne abbiamo parlato anche con il nostro produttore, Craig Dyer degli Underground Youth, convenendo che fosse un'ottima cosa, anche perché è uno strumentista validissimo. Credo abbia aggiunto qualcosa al disco.

Direi di sì, soprattutto su alcune canzoni. Tornando al discorso di prima, forse anche il fatto di essere un duo contribuisce a differenziarvi, rende più scarna la vostra proposta, in una fase in cui i più puntano sulla sovrapproduzione per mascherare la sottoispirazione…
MG: Sì, siamo molto attenti a non sovraccaricare, anche in studio dove avremmo la possibilità di farlo. Cerchiamo sempre di registrare qualcosa che sia facilmente riproponibile dal vivo.
L: Inoltre essere sempre noi due da soli, sia nella fase di costruzione che di esecuzione, ci obbliga a essere molto connessi l'uno con l'altra, senza dover aggiungere cose che non servirebbero e renderebbero i pezzi meno riconoscibili e più banali.
MG: Ci piace fare le cose in due perché ci dà il totale controllo su ciò che produciamo. Siamo molto DIY da questo punto di vista, e non solo nella musica: Leonardo si occupa anche delle copertine e dei video.
L: A volte in realtà sentiamo il bisogno di coinvolgere qualcun altro, ma l'essere in due ci aiuta a essere focalizzati su quello che possiamo e vogliamo fare senza perderci. In studio poi vengono sempre idee per arricchire il suono, ma cerchiamo di non andare mai troppo oltre per rimanere ancorati alla dimensione che ci è più congeniale. Se anche tu hai avuto questa impressione, evidentemente questo metodo funziona.

Anche perché non so fino a che punto il livello di complicità e affiatamento che si è creato tra voi sia trasmissibile a dei membri aggiunti. Prima avete evocato Berlino: che tipo di città è adesso?
L: E' una città che indubbiamente è cambiata, soprattutto negli ultimi anni, rispetto a quando siamo arrivati. Però credo sia ancora un posto che può dare molto, a misura d'uomo e d'artista. Ci sono molte cose interessanti, a livello musicale ci sono vari festival: ad esempio, l'anno scorso abbiamo suonato all'Interkosmos, organizzato dal nostro booking El Borracho, che per il tipo di musica che facciamo è uno dei migliori. La scena underground, sia presente che passata, è ancora forte, sta resistendo all'impatto dei nuovi nomi più globalizzati. Insomma, penso rimanga una città valida.
MG: Per dirti, è una città in cui puoi andarti a prendere un caffè alle tre del pomeriggio e incontrare Bob Rutman che inizia a raccontarti aneddoti sui tempi che furono…
L: L'importante è non farsi spaventare dal cambiamento, non rimanere troppo ancorati alla Berlino anni 80 di Nick Cave e di Wim Wenders… Se si sa cercare bene, ci si accorge che non c'è solo clubbing e techno, per fortuna.

Il tour in cui state per imbarcarvi è il più esteso che abbiate mai fatto…
MG: Sì, abbiamo date in Francia, in Belgio, in Gran Bretagna e soprattutto in Spagna e Portogallo, paesi dove non abbiamo mai suonato. Sarà parecchio intenso, non abbiamo praticamente day off, ma sarà una bella soddisfazione. Per la data londinese saremo alla Rough Trade, ti lascio immaginare come ci siamo sentiti quando ce l'hanno comunicato… Per me è un sogno che si avvera.

Beh, immagino. C'è stato anche un cambio di etichetta, è la vostra prima volta con una label non italiana. Pensate che questo possa mutare il vostro raggio d'azione e, indirettamente, la vostra musica?
MG: A livello di raggio d'azione sicuramente permette di raggiungere obiettivi meno a portata di mano, essendo un'etichetta di Manchester. Ad esempio, la data alla Rough Trade è stata resa possibile dallo loro intermediazione. 
L: Prossimamente suoneremo alla radio della Bbc nel programma di Stuart Maconie, "Freak Zone". Anche questo è stato possibile grazie a loro, come pure avere una recensione su "The Wire". Avere alle spalle un'etichetta inglese ti permette di allargare il bacino di utenza e di avere contatti diretti con molte belle situazioni.
MG: In generale in Gran Bretagna la scena è molto stimolante, a livello di locali hai parecchie possibilità, la musica dal vivo è parte integrante della vita di tutti i giorni.
L: Poi essendo inglese è un'etichetta che ha prodotto diversi artisti che ci piacciono. In generale, ci aiuta a uscire dai nostri confini.

Qual è invece il vostro rapporto con l'Italia?
L: E' buono, non siamo esterofili. Però a livello di influenza culturale ci sentiamo più vicini ad altri contesti. Ciò non toglie che in Italia ci siano situazioni musicali più che interessanti.
MG: Abbiamo sempre suonato più all'estero che in Italia, cosa abbastanza strana, ma non è stata una scelta, non abbiamo mai snobbato il nostro paese. Penso dipenda solo dal fatto che in Italia abbiamo un bacino di ascoltatori più ristretto rispetto, che so, alla Francia, dove non eravamo mai stati prima di andarci a suonare, eppure da subito abbiamo trovato più seguito. Potrebbe anche essere solo un caso.
L: Noi non ci siamo mai preclusi nulla, forse semplicemente la nostra musica ha più appeal all'estero, sarà perché le nostre influenze vengono da lì.

Strada facendo vi è capitato di creare un legame particolare con qualche collega?
MG: Un buon legame è quello con Craig Dyer, che abbiamo conosciuto a un festival in cui suonava con gli Underground Youth, e con cui si è creata questa intesa che è poi sfociata nel disco. A parte questa occasione, non ci sono state altre collaborazioni da segnalare.
L: Anche perché essendo stati sempre abbastanza mobili, non siamo mai riusciti a legarci troppo a un contesto in particolare.

Non avevate inciso uno split con i Silent Carnival?
L: E' vero, ma lì non si trattò di una vera e propria collaborazione, essendosi svolta a distanza: loro erano in Sicilia, noi in giro per l'Europa. Purtroppo non siamo mai riusciti a incontrarli di persona, fu l'etichetta ad assemblare il disco. In ogni caso, venne fuori un buon prodotto, e ci ha fatto piacere esserne parte.

In generale, c’è qualcuno che sentite affine alla vostra sensibilità musicale?
L: Uno che ultimamente ascoltiamo e stimiamo moltissimo è Paolo Spaccamonti, abbiamo apprezzato soprattutto il suo album insieme a Jochen Arbeit. A livello di narrazione, però, non mi viene in mente un nome che sento vicino a noi, proprio perché non abbiamo mai fatto parte di una scena specifica.

Che ne sarà di questi eterni nomadi chiamati Sneers?
MG: Durante i prossimi mesi saremo impegnati nel tour, costantemente fino a ottobre e in maniera più occasionale fino a gennaio. Dopodiché partiremo con un altro tour che toccherà posti in cui non siamo mai stati (Austria, Polonia, Croazia, in generale l'Est Europa). Poi registreremo di sicuro un nuovo disco che abbiamo già scritto, dovremmo iniziare a lavorarci intorno a marzo, alla fine del tour. Il resto lo vedremo passo dopo passo…