Emersi da quel magma dai toni cupi e contorti che fu la no-wave, i Bush Tetras scattarono una fotografia nitida e realistica della New York sotterranea a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Città complicata da vivere, la Big Apple covava i semi di nuove eccitanti rivoluzioni musicali: se il funk – assieme alla disco - si era già impossessato dell’enorme cassa di risonanza dei dancefloor più frequentati, i futuri protagonisti della scena post-punk si stavano organizzando per invadere il mondo: in quel contesto i Bush Tetras fusero i due stili – solo apparentemente inconciliabili - unendo dissonanze e groove. Nonostante la rapida notorietà acquisita nel circuito alternativo, la loro parabola artistica non poté rivelarsi oltre la ristretta nicchia d’appartenenza: giusto il tempo di un paio di singoli e altrettanti Ep, diffusi fra il 1980 e l’anno successivo, e la storia era già finita, lasciando però sul terreno semi che sarebbero germogliati nei mesi successivi.
Le loro prime incisioni raggiunsero in tempo reale lo status di culto e persino le posizioni di rincalzo nelle chart di Billboard. Sempre focalizzati sul ritmo, con grande attenzione verso sfumature a loro modo “pop”, i Bush Tetras degli esordi dimostrano di aver mandato a memoria la lezione dei Talking Heads e lastricano la strada lungo la quale si cimenteranno – con risultati stupefacenti - i coevi Sonic Youth, ai quali sono facilmente accostabili per il modo in cui Cynthia Sley utilizza la voce: quando in “Too Many Creeps” pronuncia la frase “I Don’t Wanna” sta inconsapevolmente anticipando di oltre dieci anni la Kim Gordon di “Kool Thing”.
A completare la prima robustissima line-up ci sono le chitarre nervose di Pat Place, proveniente dal primo nucleo dei Contortions di James Chance, la batteria di Dee Pop, che finirà più tardi nei Gun Club, il basso pulsante di Laura Kennedy.
Per avere fra le mani un album dei Bush Tetras, “Beauty Lies”, occorrerà aspettare un’era geologica, il 1997, quando la band deciderà di riunirsi con la line-up originale al completo. Con tutta l’acqua che nel frattempo è passata sotto i ponti, ovvio che la narrazione muti registro: il suono del quartetto si attualizza, raccogliendo le influenze provenienti dalla scena post-grunge e alt-rock. Le primissime Hole (non a caso prodotte da Kim Gordon) in “Page 18”, le Breeders in “Color Green”, le Sleater-Kinney un po’ ovunque: questi alcuni degli accostamenti possibili.
I Bush Tetras non disegnano più scenari futuribili, ma drizzano le antenne e assimilano nella propria scrittura le buone vibrazioni che giungono dagli anni Novanta. Un secondo album, “Happy”, prodotto da Don Fleming, sarà completato l’anno successivo, ma distribuito soltanto nel 2012, ben quattordici anni più tardi. Nel mezzo, una nuova separazione.
Nella terza, più recente incarnazione, privati della bassista Laura Kennedy, nel frattempo scomparsa e sostituita da Val Opielski, i Bush Tetras mantengono un suono scuro e avventuroso, con le chitarre sempre in prima linea a disegnare scenari dissonanti e iper-scorticati e la voce della Sley che non cede un centimetro all’inesorabile trascorrere del tempo. In maniera discontinua, la band continuerà a esibirsi (ad esempio, in occasione del quarantennale) e a incidere nuovo materiale di ottima fattura fino ai nostri giorni. Non è un caso che il convincente Ep “Take The Fall” (2018) e il sontuoso sette pollici “There Is A Hum” (2019) siano stati inclusi quasi interamente in “Rhythm And Paranoia”, a ragione considerabile come il Best Of definitivo della formazione americana, peraltro compilato dai diretti protagonisti della storia.
Trentuno canzoni, che coprono l’intero percorso discografico del gruppo, raccolte in tre vinili (o due cd) in rigoroso ordine cronologico, più un booklet di 46 pagine con fotografie rarissime o inedite e contributi scritti – fra gli altri - da Thurston Moore, Topper Headon dei Clash (che produsse l’Ep “Rituals”), Nona Hendryx (che si occupò invece di “Beauty Lies”), Parquet Courts, Priests, Victoria Ruiz dei Downtown Boys e il giornalista Marc Masters. Oltre alla migliore selezione possibile del loro materiale registrato in studio, sono state incluse due cover eseguite dal vivo: “Cold Turkey” di John Lennon e “Run Run Run” dei Velvet Underground. Fra i tre inediti inseriti spicca la presenza di “Cutting Floor”, traccia all’epoca prodotta da Henry Rollins.
Molte immagini e memorabilia provengono dalla collezione di Dee Pop, il batterista venuto a mancare lo scorso ottobre, appena pochi giorni prima della distribuzione di questo prezioso cofanetto.
10/03/2022