A Brooklyn le cose sembrano accadere ancora oggi con una velocità e una frequenza sconosciute ad altri posti nel mondo: da lì provengono alcuni dei nomi più interessanti degli ultimi tempi, basti pensare alle affermazioni di progetti quali San Fermin, Big Ups, Hospitality o The Men. I Parquet Courts, texani trapiantati nella Grande Mela, ne sono per certo uno degli esempi più brillanti.
La loro storia prende il via nel 2011, e già entro lo stesso anno i risultati delle prime prove vengono fissati su una cassetta autoprodotta a tiratura limitata, American Specialties, che diventerà un vero oggetto di culto per i fan presenti e futuri. Oltre a suonare una bella mistura di garage-rock e post-punk, i quattro si divertono ad assemblare dei mix-tape che divulgano attraverso il proprio blog. Uno di questi, intitolato “By Who Power?”, aveva l’intento di fissare lo spettro delle influenze del gruppo: un gran caos con dentro Fall e GG Allin, Pavement e Guided By Voices, Neil Young e Beat Happening.
Ma si inizia a parlare in maniera più diffusa del materiale originale della band, quando i Parquet Courts pubblicano Light Up Gold, originariamente edito in sole cinquecento copie (subito esaurite) nell’agosto del 2012 dalla piccola label di casa, la Dull Tools, e successivamente ristampato dall’etichetta newyorkese What’s Your Rupture? nel gennaio dell’anno seguente.
Light Up Gold è legato a doppio filo sia alla New York nervosa e dissonante dei Velvet Underground, sia a quella del primo punk e dei Sonic Youth. Ma molto altro vibra nelle corde dei due singer-songwriter della band, Andrew Savage (voce, chitarra e già metà dei Fergus & Geronimo) e Austin Brown (voce, chitarra), a partire da un riffing geometrico e angoloso di scuola post-punk e reiterazioni di accordi con impresso il marchio Modern Lovers, senza disdegnare rumorismi che rimandano a Neil Young. La solida sezione ritmica composta da Sean Yeaton (basso) e Max Savage (batteria, fratello del leader) suona lineare al confronto del vulcanico incontro/ scontro fra le sei-corde, perfettamente funzionale a tenere la barra dritta in canzoni che sembrano poter collassare da un momento all’altro e invece rivelano incastri precisissimi. Solo un altro dei contrasti dei Parquet Courts, gente che scrive musica in cui la melodia pare arrivare per caso, quasi investita dall’intensità dell’esecuzione, e che, nonostante tutto, non dimentica mai la cantabilità.
Basti pensare agli strepitosi anthem in miniatura firmati da Savage, schegge di massimo due minuti come “Borrowed Time”, “Donuts Only”, “Light Up Gold”, “Disney P.T.” o “Yonder Is Closer To The Heart”, figlie della mirabile concisione dei Wire di "Pink Flag" e del jamming econo di Mike Watt, che qui troviamo riproposto in schemi che sanno ricordare i fIREHOSE depurati del lato jazz-funk della faccenda. Dal canto suo, Austin apre l’album con “Master Of My Craft”, altro highlight della collezione, con ritmi da Feelies, chitarre a precipizio e predicare invasato. Ulteriore pregio di Light Up Gold è la capacità di avventurarsi in territori altri senza perdere in omogeneità e mantenendo anzi forti connotati personali, pur esplicitando i propri riferimenti: “Yr No Stoner”, “Careers In Combat” e “No Ideas” sono puro distillato Pavement circa "Slanted & Enchanted", eppure la filosofia hard-working della band non potrebbe essere più distante da quell’etica slacker. Analogamente, “Caster Of Worthless Spells” e il bruciare lento di “Picture Of Health” sarebbero meritevoli aggiunte all’ampio catalogo Guided By Voices. Nel mezzo di queste rapide fiammate, poi, si erge la cavalcata “Stoned And Starving”, nella quale la ritmica kraut lascia le chitarre libere d’intrecciarsi, sfumando appena oltre il limite dei cinque minuti, con un Savage preso a raccontare, con il gusto dello sberleffo punk, una ricerca di cibo notturna (“swedish fish, roasted peanuts or licorice”).
Dopo essersi guadagnati recensioni favorevolissime e aver portato a termine il canonico giro di concerti, i quattro rientrano in studio per lavorare ai brani che dovranno proiettare la band ancora più in alto. L’urgenza di dar vita a un nuovo lavoro fa velocemente fissare cinque nuove composizioni nell’Ep Tally All The Things That You Broke. E’ il ponte ideale fra quello che la band era stata sinora e quello che sarà in futuro, all’interno del quale brani brevi e concisi si alternano (e questa è la vera novità) a digressioni più strutturate e free form, che sfociano negli oltre sette minuti di inaspettato noise-funk della conclusiva “He’s Seeing Paths”.
I Parquet Courts confermano di essere maestri nel frullate assieme Fall, Wire e Minutemen, riuscendo a fondere la New York proto punk dei Velvet Underground con quella alt-noise dei primi Sonic Youth, una magistrale sintesi che continua a bruciare inesausta nelle prime due tracce, “You’ve Got Me Wonderin’ Now” e ”Descend (The Way)”, le favorite dei fan della prima ora.
La medesima miscela infiammabile, perfettamente bilanciata tra squarci di bellezza e schizzi biliosi, ritorna nel lavoro successivo, Sunbathing Animal, pubblicato il 3 giugno 2014. Registrato nell’arco di otto mesi in tre session che hanno fruttato anche l’Ep Tally All The Things That You Broke, il nuovo album prende comunque le distanze dall’ottimo predecessore. Laddove tutto sembrava reggersi sulla formidabile energia cinetica sprigionata dalla band in anthem in miniatura dal formato primi Wire, qui la formula si amplia e mostra quanto possano essere estesi gli orizzonti del quartetto. Tanta New York, di nuovo, e di quella storica: le reiterazioni d’accordi dei Velvet Underground, il groove psicotico dei Talking Heads di More Songs About Buildings And Food, il rock‘n’roll retrattile dei Voidoids. E poi influenze decisive di Minutemen, Wire (sempre loro) e Modern Lovers, mentori per forma e sostanza, mentre in alcuni frangenti sembrano prendere corpo persino gli spiritelli stonati dei Kirkwood di “Up On The Sun”.
Molti nomi e influenze, eppure il risultato è solo e soltanto Parquet Courts, a partire dalla mastodontica title track, uno sferragliante proto-hardcore da quattro minuti suonato con la foga paonazza di un D. Boon e giocato su un unico accordo, così come accade nella martellante “Ducking And Dodging”; efficacissime entrambe, poiché, dice il leader, “quando si mantengono le cose così ben definite e ridotte, hai la possibilità di fare un sacco di cose in più con voce e chitarra”.
La distanza da Light Up Gold è marcata sin dalla ritmica indolente dell’opener “Bodies Made Of”, in cui è splendido il contrasto tra l’interpretazione vocale e l’intreccio dissonante delle elettriche, e del caracollare Malkmus di “Dear Ramona”. Altrove, invece, ci si accosta al percorso del recente passato, come accade in “Black And White”, nell’irrefrenabile “Always Back In Town”, nel minuto scarso di “Vienna II” (singolarmente dedicata alla Seconda Scuola di Vienna fondata da Arnold Schoenberg) e nel groove nevrotico di “What Color Is Blood”, qualcosa di cui il giovane Byrne sarebbe andato fiero. Le vere sorprese di Sunbathing Animal, però, risiedono nelle dilatazioni di “She’s Rolling” e “Instant Disassembly”, lente peregrinazioni che da sole coprono quasi quattordici minuti di durata: la prima è una jam in cui pare di sentire i Crazy Horse alle prese con un qualche traditional abbandonato e improvvisamente trafitta dall’armonica impazzita di Lea Cho dei Blues Control; la seconda, altro highlight del disco, è una lenta pseudo-ballad che brucia sotto un sole cocente, costruita sulla ripetizione di un solo irresistibile riff.
Quando si pensa che il disco abbia già offerto abbastanza, ci s’imbatte nel rauco blues “Raw Milk” che sfuma nel finale di “Into The Garden”, due minuti di sfregamenti elettrici e una melodia storta e dolce per voce, chitarra e accordi di pianoforte. Solo un accenno, come a non volersi mostrare troppo vulnerabili, ma intanto il cuore è scoperto. Con le tredici tracce di Sunbathing Animal, i Parquet Courts si confermano definitivamente come realtà di primissimo piano e in costante evoluzione, disposti a perdere l’equilibrio pur di seguire un’ispirazione bruciante, distillata in un disco fra i migliori in assoluto del 2014.
Ma l'anno non termina qui, perchè i ragazzi non mollano la presa, continuando a cavalcare l’onda dell’improvvisa notorietà nel circuito underground mondiale. A fine 2014 esce un lavoro a firma Parkay Quarts, l'ottimo Content Nausea, ma di fatto son sempre loro con soltanto il nome modificato. Nel frattempo disseminano live set serrati e devastanti, transitando anche per la nostra penisola.
Verso la fine del 2015, ecco un nuovo disco (chissà per quale motivo presentato in via ufficiale nelle vesti di Ep) quasi interamente strumentale, che mette in rilievo il loro lato più experimental noise. In queste tracce i ragazzi travasano il risultato di session nelle quali si son lasciati prendere la mano dall’urgenza di suonare senza canovacci prefissati, a briglie sciolte, con chitarre ed elettronica che si rincorrono a disegnare inestricabili muri di suoni, ed il piglio di chi da un lato vuole osare, e dall’altro prendere bonariamente per i fondelli l’ascoltatore.
Monastic Living esce per Rough Trade, un esordio che avremmo immaginato diverso nei contenuti, ma i Parquet Courts approfittano della chance per spiazzare tutti, quindi totale assenza di “canzoni”, sostituite da una studiata alternanza fra brevi staffilate noise da un minuto o poco più (“Elegy Of Colonial Suffering” e “Frog Pond Plod” sono figlie dei Sonic Youth primi anni 80) e lunghe digressioni giocate sulla ripetitività (“Vow Of Silence” arriva a coniugare kraut e shoegaze). Feedback innestati su loop senza fine, rumorismi assortiti, libertà espressiva a tutto spiano, e una chicca piazzata in apertura, la sana follia della concisa ed efficace “No, No, No!”, l’unico sprazzo pseudo cantato. Poi ulteriori 33 minuti di intransigenza che hanno giusto il rischio di tediare i fan poco avvezzi alle forme di rock più avanguardistico.
Monastic Living è un lavoro coraggioso, che ci lascia curiosi di percepire le prossime mosse della band newyorchese, di scoprire quali mondi deciderà di esplorare: se concentrarsi sulla scrittura di un nuovo “Sunbathing Animal” o andare a parare altrove, lì dove nessuno si sarebbe aspettato.
La risposta giunge a inizio aprile 2016, con la pubblicazione di Human Performance, il quale mostra una band indirizzata sì verso una maggior fruibilità, forte di un formato canzone che si fa un pochino più furbetto, ma sempre ultra efficace e dissonante, sin dall’iniziale “Dust”. I Parquet Courts confermano di possedere rare doti di rilettura e fusione delle diverse epoche musicali che caratterizzarono la propria città, New York. Centrifugano la psichedelia sixties dei Velvet Undergound (“Steady On My Mind”, la lunga coda di “Ona Man, No City”) e l’attitudine nineties noise dei Sonic Youth (“I Was Just Here”), aggiungendo sprazzi di indie Strokes style (“Outside”) contaminato dal post-hardcore dei Fugazi (“Paraphrased”), dal college-rock obliquo dei Pavement (la geniale “Keep It Even”, dove la chitarra dell'ospite Jeff Tweedy si scorge inequivocabile) e persino da un divertente e ritmato tex-mex (“Berlin Got Blurry”). Tutto è sintetizzato per mezzo di una personalità che al momento non ha uguali nel circuito alternativo mondiale, racchiuso in una scrittura che disco dopo disco mantiene intatte le proprie peculiarità pur spingendosi verso i lidi di una lieve maggiore conformità.
Il 2017 sancisce la realizzazione di un progetto condiviso con Daniele Luppi, Milano, un omaggio agli anni 80 del capoluogo lombardo che vede la partecipazione in quattro tracce di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs. Un’opera priva delle caratteristiche da soundtrack di “Rome” (il precedente lavoro di Luppi) e fortemente incentrata sul ruolo delle chitarre, su modalità così tipicamente Parquet Courts da rendere quasi impercettibile la presenza del compositore italiano, eccezion fatta per la conclusiva strumentale jazz-jam “Café Flesh” e per il finale iper cool di "Mount Napoleon”, arricchito da un sax in odore di “Walk On The Wild Side”. Dentro Milano torna a emergere la perfetta sintesi fra Velvet Undergorund e Sonic Youth nell’iniziale “Soul And Cigarette”, con quei campanellini che fanno tanto “Sunday Morning”, e i mirabili incroci basso-chitarra che nobilitano “Flush”, sublimati dalla bella chiusura che porta in dotazione una lieve deriva noise.
Quasi in contemporanea Andrew Savage pubblica il proprio esordio solista, Thawing Dawn, dal taglio decisamente più cantautorale.
Il 18 maggio 2018, con Danger Mouse in cabina di regia, esce Wide Awake!, che li conferma in gran salute e sempre più trasversalmente onnivori: se l’iniziale “Total Football” si esprime in un linguaggio tendenzialmente punk oriented, ricollegandosi ai precedenti lavori, più avanti le sorprese e i cambi di registro non mancano. In particolare i Parquet Courts confermano di saper coniugare il ritmo del funk metropolitano (la cattiveria impressa in “Violence”) con l’urgenza espressiva del garage rock, vedi la mirabile “Almost Had To Start A Fight / In And Out Of Patience”, in pratica due brani in uno, ripresi parzialmente live. Resistono sia l’Americana obliqua di matrice Pavement - in “Mardi Gras Beads” e “Freebird II” - che i guizzi post-hardcore in grado di fondere Fugazi e Husker Du – ma filtrati attraverso la capacità di sintesi che fu dei Minutemen – arditamente concretizzati prima in “Normalization” e poco oltre nella doppietta “NYC Observation” / “Extinction”, che conferisce una bella scossa alla parte finale del lavoro. Ma in aggiunta questa volta troviamo anche le festaiole derive disco-funk introdotte dal singolo anticipatore, il quale non a caso dà il titolo all’intero album.
Sempre nel 2018, Austin Brown si occupa di produrre una delle nuove band newyorchesi più interessanti, i Bodega, giovane quintetto che attinge in maniera inequivocabile dalle medesime radici sonore dei Parquet Couirts. Brown mette così il proprio sigillo su uno dei milgiori esordi alt-rock dell'anno, Endless Scroll.
Bloccati dalla pandemia, che ha messo in seria difficoltà l'intero comparto musicale, nel 2021 i Parquet Courts festeggiano il traguardo dei dieci anni di carriera confezionando un piccolo regalo per i propri fan: la ristampa della prima cassettina autoprodotta, American Specialties, diffusa in maniera carbonara a inizio carriera. Uno sguardo nostalgico verso quei primi passi, ma subito dopo eccone uno nuovo compiuto con decisione in avanti, per dare finalmente un seguito, dopo oltre tre anni, a “Wide Awake!”.
L’ambizione – dichiarata dalla stessa band – è quella di lasciarsi “contaminare” dal dancefloor e produrre un disco da party: il perfezionamento del lavoro intrapreso proprio con “Wide Awake!”, il quale mostrava però incertezze sulla strada da percorrere, lasciando appena intravedere la volontà da parte del gruppo di allargare i propri orizzonti e dirigersi verso un formato canzone “ballabile”.
Sintesi di lunghe improvvisazioni in studio, Sympathy For Life, pubblicato il 15 ottobre 2021, si dimostra il lavoro più eterogeneo e accessibile sin qui realizzato dalla band, una fucina dal quale attingere più di una traccia per movimentare qualsiasi dj set “alternative”, quasi un piccolo “Screamadelica” dei nostri giorni. Gli arrangiamenti scelti conferiscono enfasi alle parti elettroniche, e guardano con forza all’esperienza dei Talking Heads di “Remain In Light”, il termine di paragone più azzeccato per codificare composizioni come “Marathon Of Anger”, nella quale persino le linee del cantato sono architettate per approssimarsi allo stile di David Byrne, oppure “Plant Life”, con quelle percussioni afrobeat, il basso portante e una trascinante coda strumentale, che in pratica la rende un megamix di sé stessa.
L’evoluzione stilistica del quartetto newyorchese è evidenziata anche dal minimalismo digitale dal sapore teutonico (qualcuno ha detto kraut?) innestato sui movimenti del basso in “Application Apparatus”, nelle marcate linee melodie di “Just Shadows” e nell’elegante modalità dance-funk della title track. Ma Sympathy For Life è un disco che guarda al groove senza mai dimenticare le radici del gruppo. L’attenzione alla tradizione è assicurata dall’approccio chitarristico molto Stooges / Stones di “Homo Sapien”, dall’impetuosa elettricità espressa nell’efficace opener “Walking At A Downtown Pace” e dal garage-punk appena edulcorato di “Black Widow Spider”. Peccato il calo nel finale, che comunque non danneggia l’intenzione di traghettare il sound della band verso nuovi lidi.
Nel 2023, con la collaborazione di John Parish e Cate Le Bon, A.Savage pubblica un secondo album solista decisamente più ambizioso dello scarno esordio, Several Songs About Fire, un disco che convince solo a metà sia il pubblico che la critica.
Apprezzati nel circuito alternativo per l’innata capacità di fondere assieme due importanti New York del passato, quella proto-punk dei Velvet Underground con quella alt-noise dei Sonic Youth, i Parquet Courts son giunti, disco dopo disco, a sviluppare una propria distinta personalità, spingendosi con Wide Awake! e Sympathy For Life verso nuovi territori, senza mai dimenticare l’importanza di restare accessibili. Rinnovando, e consolidando, il proprio meritato posizionamento nella ristretta cerchia delle band di riferimento del circuito alt-rock americano degli anni 10.