L’avventura The Men prende il via a Brooklyn nel 2008, con le prime caotiche pubblicazioni che assumono le sembianze di un paio di cassette e di un Ep autoprodotto, We Are The Men, utili a far circolare il nome soprattutto nella zona di residenza. Il nucleo iniziale si forma attorno ai due cantanti/chitarristi Mark Perro e Nick Chiericozzi, accompagnati dal bassista Chris Hansell, che nel 2011 sarà sostituito da Ben Greenberg. Successivamente la line up verrà allargata al batterista Rich Samis ed alla lap steel di Kevin Faulkner.
Scorrendo i titoli del fulminante esordio, Immaculada (2010), sembra di essere al cospetto di un apocrifo concept noise sul Nuovo Testamento, viste le ripetute citazioni evangeliche. Lo strumentale marcatamente lo-fi “Stranger Song” funge da introduzione a “Problems / Burning Up”, che dopo due minuti di ambientamento ci fa scoprire per la prima volta l’approccio al cantato dei Men, in un frullatore che tritura Minor Threat e Jesus Lizard come in pochi erano riusciti a fare prima. In un colpo solo l’estetica delle storiche label Dischord e Touch & Go viene brillantemente fusa assieme. La successiva “Grave Desecration” è una coltre di noise nebbioso e angosciante che si dirime soltanto negli ultimi trenta secondi, adagiandosi su un dolce arpeggio di chitarra.
La momentanea tregua prosegue negli oltre sette minuti di “Madonna: The Star Of the Sea”, una pioggia acida che conduce verso “Lazarus”, un garage-beat ricoperto di distorsioni, ma sotto la dura scorza si scorgono richiami marcatamente sixties. “Praise The Lord And Pass The Ammunition” è intrisa di hard psichedelia, mentre “Oh Yoko” e “Immaculada” rappresentano i bombardamenti nucleari che concludono un esordio davvero eccitante. Impossibile non accorgersi di un disco così particolare, seppur fortemente derivativo. E infatti i ragazzi si guadagneranno un certo rispetto nel circuito underground e di lì a poco saranno messi sotto contratto dalla Sacred Bones.
Un solo anno più tardi una lunga e atmosferica introduzione fa da preludio a una fibrillazione innodica, avvolta da una nube di rumorismi insistenti. È "If You Leave...", il primo brano di Leave Home, secondo lavoro della formazione newyorkese, ancor più estremo e devastante nei suoni rispetto al precedente. La band spinge decisa sul pedale dell’abrasività puntando tutto su impatto viscerale e amplificatori sparati al massimo, battagliando fino all'ultimo respiro e finendo per creare un wall of sound a tratti impenetrabile e ostile. Dopo il siluro punk di "Lotus" e il noise-rock istrionico di "Think", la situazione si fa sempre più incandescente, fino al collasso esistenziale di "L.A.D.O.C.H." (i Khanate cresciuti a pane e Jesus Lizard?), il brano decisivo del disco.
Sul vinile, il secondo lato si apre con un'altra variante punk-noise, "()", mentre "Shittin' With The Shah", almeno per tre quarti della sua durata, è uno strumentale dai toni idilliaci che serve a riprendere il fiato prima della conclusiva "Night Landing", la quale evidenzia un evidente retaggio post-punk, incrociato genialmente con il noise-hardcore ascoltato sinora. Pur non sfondando nelle classifiche che contano, Leave Home diventa rapidamente un cult, e il nome The Men circola sempre più insistentemente nei circuiti alt-rock sotterranei.
Ma il disco della svolta arriva l'anno successivo, e siamo nel 2012. La band ama mettersi alla prova e decide di ampliare ulteriormente il ventaglio delle soluzioni stilistiche proposte. Open Your Heart sarà da più parti riconosciuto come uno dei migliori lavori di alt-rock indipendente dell’anno. Se l'iniziale siluro Stooges di "Turn It Around" e la feroce gloria rock-a-rolla di "Animal" sembrano ancora trattenerci dalle parti del lavoro precedente, se non altro per la virulenza brada che anima il tutto (e che ritroveremo più avanti nell'assalto al limite dell'hardcore di "Cube"), più avanti le cose iniziano a prendere un'altra direzione. E la band ce lo sbatte in faccia fin dal titolo: "Country Song", come a dire: "Attenzione, adesso si cambia registro, cercate di seguirci...".
Ed ecco schiudersi un panorama tremolante poggiato sul twang chitarristico, una sorta di frontiera spirituale che improvvisamente prende vita, confluendo naturalmente nell'epica traversata space-rock in salsa krauta (non lontanissima dai Neu!) di "Oscillation", dove l'interplay delle due chitarre rinnova fasti californiani di "stelle nere" lanciate oltre il muro dell'eternità. La band è animata da una sincera passione onnicomprensiva, tale da condurla anche dalle parti di vertigini psych-pop-punk ("Please Don't Go Away") o ad accarezzare nella title track la chioma scapigliata dei Replacements.
Open Your Heart è un piccolo bignami di generi e stili, un ottovolante delizioso che riparte dal country (via Meat Puppets con tracce di Gram Parsons) di "Candy", sfiora le camicie sdrucite di un grunge desertico in "Presence" e confluisce nei Sonic Youth meno radicali di "Ex-Dreams".
Il loro personale capolavoro sembrerebbe essere sempre più vicino, ma quando tutti si aspettano un tripudio noise infernale, ecco che la band decide di spostarsi ancora. Se Open Your Heart lasciava trasparire certi ammorbidimenti, il sound restava per lo più tagliente, in un disco che rappresentava un miracoloso equilibrio fra quello che i Men erano stati sinora e quello che diventeranno in seguito.
Il successivo New Moon mostra una band inaspettatamente camaleontica. Dopo aver digerito noise-rock, post-hardcore, psichedelia, garage e punk, i Men approdano in pieno territorio classic- rock, senza disdegnare puntate verso country e cow-punk. Se l’inizio lascia un po’ perplessi, con quei coretti da summer-of-love annoiata e un andazzo complessivamente sornione (“Open The Door”), già con il brano numero due, “Half Angel Half Light”, le cose si mettono a posto, presentandoci una sorta di Neil Young ruspante, epoca “Mirror Ball” (quando si faceva accompagnare dai nipotini allora terribili Pearl Jam) con tanto di chitarre in wah-wah circolare sullo sfondo. Quello di New Moon è il sound di una band in perfetta sintonia con la tradizione rock della propria terra, un sound fatto di sudore e polvere, che l’armonica della torrida “Without A Face” sembra voler mimare nelle sue forme più acute.
Attorno al nucleo base formato dal chitarrista Nick Chiericozzi e dal bassista Mark Perro, con il batterista Rich Samis nelle retrovie, si sono raccolti i nuovi arrivati Kevin Faulkner (alla lap steel guitar) e Ben Greenberg, che qui, oltre a suonare alcune parti di basso, si è occupato della produzione. Un gruppo di amici che, senza molti grilli per la testa, mette in piazza le proprie passioni per le buone, vecchie ballate (“The Seeds”, “Bird Song”), per le ragnatele elettriche attorcigliate intorno al santino di Neil Young & The Crazy Horse, a mostrare finanche barlumi di un romanticismo di frontiera (“I Saw Her Face”), un romanticismo che nel bozzetto in punta di piedi di “High And Lonesome” trova l’espressione più diretta e sdolcinata, cui fanno da contraltare le inquiete filigrane della lunga “Supermoon”. L’impatto rumoroso e garagista del passato rivive, invece, nelle trame assordanti e oltranziste di “The Brass”, nel power-pop di “I See No One” e in quello, lanciato a folle velocità sulle highway, di “Electric”. E ci sono anche i Dinosaur Jr. che in “Freaky” contribuiscono a comporre un mosaico accattivante e sincero.
I risultati delle loro schitarrate attorno al falò vengono raccolti ad ottobre 2013 nell’Ep Campfire Songs, che riprende versioni acustiche registrate live durante le session di New Moon.
Il 3 marzo 2014 esce Tomorrow’s Hits, che prosegue e perfeziona la visione del lavoro precedente, confermando uno smussamento delle asprezze che lascia risaltare il lato mano estremo dei Men. E’ la sublimazione del processo di “normalizzazione” del materiale musicale proposto. Ma trattasi di una normalizzazione che continua a premiare: anche se fiati spumeggianti e arrangiamenti molto ricchi prendono il posto degli spigolosi chitarroni degli esordi, anche se il cantato si fa meno ruvido e l’atmosfera generale diviene più rassicurante, l’energia che fuoriesce dalle loro composizioni resta immutata. Viene semplicemente resa in una forma-canzone che assume sembianze diverse rispetto al passato, ma la qualità del risultato finale resta elevata.
L’album conferma l’avvicinamento di Perro e compagnia alla tradizione dei grandi spazi americani: echi southern sono un po’ ovunque, a partire dalle prime note di “Dark Waltz”, dove i i Creedence Clearwater Revival si fondono con Neil Young (ascoltate un po’ il solo di chitarra…). “Another Night”, con il piano e i rigogliosi fiati in grande evidenza, sembra un inno springsteeniano, così come figlia di Springsteen è “Different Days”, una di quelle canzoni d’assalto che il Boss da anni non riesce più a scrivere. “Sleepless” e “Settle Me Down” sono due mid-tempo intrise di slide che sanno molto di “Americana”, mentre “Get What You Give” paga dazio alla penna del primo Tom Petty. Ma il brano che fa sobbalzare tutti dalla sedia è il micidiale rock’n’roll “Pearly Gates”, una pazzesca esplosione d’energia cantata con l’indolenza del miglior Dylan. Applausi a scena aperta anche per la liberatoria cavalcata elettrica “Going Down”, che chiude il disco chiamando in causa i Pearl Jam più elettricamente anthemici, quelli di “State Of Love And Trust” tanto per intenderci.
The Men, guardandosi alle spalle e riflettendo su 50 anni di storia del rock americano, scrivono quelli che ironicamente definiscono “gli hit di domani”, perché spesso il segreto del successo risiede nell’attenta osservazione e rielaborazione degli stilemi del passato. Una dichiarazione molto reynoldsiana per un disco che da un lato ha un vago sapore di conversione e pentimento, e dall’altro dimostra una duttilità con pochi uguali. A questo punto della propria parabola artistica, la band riesce a eccellere anche cambiando radicalmente registro, questa è la loro reale grandezza. Rinforzata dal fatto che oggi è molto più difficile sorprendere il pubblico suonando classic-rock invece che hardcore-punk.
A novembre 2016 è la volta di Devil Music, marchiato dalla neonata etichetta di proprietà We Are The Men Records, con il quale Perro e Chiericozzi ritornano sugli impervi e molto meno rassicuranti sentieri post-hardcore degli esordi, un lavoro che arde come se fosse stato prodotto da un gruppo di ventenni. Le prime quattro tracce sprigionano insanabile rabbia ed inaspettata nuova elettricità, un fuoco di fila sensazionale che trova provvisoria calma soltanto con la più arrotondata “Patterns” (per l’appunto la quinta traccia del programma) e con il minuto e spicci dell’intermezzo acustico che dà il nome all’intera raccolta.
Solo a leggere la tracklist si intuisce quanto questo contenitore musicale sia una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro: “Crime” (un minuto e cinquantasei secondi che arrivano direttamente dai gironi infernali), “Violate”, “Gun” e “Fire” non possono certo essere scambiati per titoli da educande. I suoni sono sempre potentissimi, un magma incandescente che raggiunge le temperature più alte in corrispondenza delle iper distorte “Lion’s Den” e “Hit The Ground” diaboliche soluzioni finali nelle quali quasi si fatica a distinguere le chitarre dal sax. Devil Music è materiale che torna ad essere altamente infiammabile, musica non certo adatta a chi si trovi alla ricerca di tranquillanti per prendere sonno, una nuova sferzata di sana energia.
A marzo 2018 arriva Drift, settimo lavoro dei newyorchesi, a suggellare il decimo anno di attività, per una band che stupisce non soltanto per prolificità, ma ancor più per l’innata capacità di cambiar pelle e stile. La nervosa andatura garage di “Maybe I’m Crazy”, l’avvolgente eleganza – a tratti pinkfloydiana - di “When I Held You In My Arms”, il sax driven psych-rock di “Secret Light”, che sembra la cronaca di un inseguimento notturno per la vie di Manhattan, il trip in odore di Spaceman 3 / Spiritualized “Final Prayer”, sono tante sfaccettature di un prisma che cattura colori e li assembla in nuove combinazioni.
Anche se quel che ascoltiamo nei solchi di Drift è il veloce compendio trans-stilistico di strade già battute finora dalla band americana, ivi compreso il ripasso delle radici country-folk, che stavolta caratterizzano la sezione centrale (“Rose On Top Of The World”, “So High”) e conclusiva (Come To Me”) dell’album. Le derive post-hardcore resistono nella portentosa “Killed Someone” - costruita sulla potenza di chitarroni mai domi - che, assieme al successivo bozzetto acustico “Sleep”, forma l’eloquente concretizzazione delle due facce del suono firmato The Men, intersecate ad arte per concepire soluzioni che possano risultare tanto omogenee quanto trasversali.
Puntualissimi come orologi svizzeri, Mark Pierro e Nick Chiericozzi il 14 febbraio 2020 approdano al disco numero otto, Mercy, nuovamente edito da Sacred Bones. Sempre difficilmente incasellabili, confermano di aver trovato finalmente una una certa stabilità nella line up, grazie alla presenza degli affidabili Rich Samis e Kevin Faulkner. Registrato in presa diretta, senza alcuna sovraincisione, Mercy è un vero e proprio bignamino che frulla cinquant’anni di musica con una naturalezza ammirevole. In ordine di apparizione scorrono i midwest landscape alt-country di “Cool Water”, la jam a briglie sciolte “Wading In Dirty Water”, fusione fra le cavalcate acide di Neil Young e i keyboards lisergici dei Doors, la ballad dolente per sola chitarra “Fallin’ Thru”, il “rocckettone” riverberato smaccatamente anni 80 “Children All Over The World”.
E poi ancora il Dylan sotto anfetamina di “Call The Dr.”, il rock’n’roll garage calligraficamente Rolling Stones di “Breeze” e il caldo abbraccio finale di “Mercy”. Una varietà che poche band al mondo sono in grado di proporre, scenari che mutano continuamente, senza alcun timore di misurarsi con riferimenti che potrebbero risultare scomodi per chiunque. Dischi come Drift e Mercy si pongono in maniera sofisticata e pulita, confermando un eclettismo raro, e un’abilità nel mutare registro, persino all’interno di uno stesso album, attitudine che non inficia mai l’unitarietà formale.
A inizio 2020 la pandemia coglie Chiericozzi e Perro mentre sono in procinto di abbozzare il materiale per un nuovo album. Costretti in casa dal lockdown, con l'ausilio di una drum machine incanalano tutto il disagio di quel periodo in canzoni grezze e immediate, in grado di riportare la band verso le asperità degli esordi. Non appena si rende possibile tornare a incontrarsi in uno studio di registrazione, la batteria di Rich Samis e il basso di Kevin Faulkner prendono posto a sostegno di voci e chitarre, rigorosamente elettriche, per completare il disco garage-rock dei Men, il primo pubblicato per Fuzz Club Records dopo anni di militanza in Sacred Bones. Pubblicato il 3 febbraio 2023, New York City è dedicato in maniera espressa alla loro città d’origine e a luoghi come il CBGB e il Max’s Kansas City, dove il movimento punk a stelle e strisce trovò ospitalità e crebbe rigoglioso per qualche stagione, lasciando in eredità musicisti e album tuttora oggetto di adorazione.
Ispirata dai suoni duri e puri di Stooges ed MC5, la prima parte di New York City fila via marchiata a fuoco dal proto-punk più incendiario, pura essenza garage concretizzata in brani nervosi e incontenibili come “Hard Livin’”, “Peace Of Mind”, “Echo” e “God Bless The USA”, sequenza solidissima e priva di compromessi, Nella seconda metà i ritmi rallentano un po’, ma l’atmosfera resta sempre melmosa, influenzata anche dal blues più lurido, quello filtrato attraverso le lenti di John Spencer e dei BRMC. Gli unici elementi di discontinuità arrivano nel finale, in corrispondenza di una “Anyway I Find You” che si sporge verso territori alt-country iper saturi, a metà strada fra Crazy Horse e Wilco, e di una “River Flows” sbilanciata verso un formato “classic-rock”, con tanto di epico assolo di chitarra. Tutto figlio dell’incontenibile necessità di liberare energia positiva.
In occasione del Record Store Day 2024, la band newyorchese pubblica, esclusivamente nel formato in vinile Manhattan Fire, contenente una manciata di inediti e otto versioni preliminari di tracce inserite in “New York City”. I brani sono registrati in mono e suonati esclusivamente da Mark Perro e Nick Chiericozzi nel dicembre 2020, mentre era in corso lo stop dell’attività live imposto come misura per contrastare la pandemia di Covid-19. Una sola traccia viene diffusa sulle piattaforme in streaming, “I See The Fire”, un lurido rock’n’roll alla loro maniera, stilisticamente in linea con i contenuti dell’album precedente.
Contributi di Francesco Nunziata ("Leave Home", "Open Your Heart", "New Moon")
We Are The Men(Ep,Self Released, 2009) | 6 | |
Immaculada(Self Released, 2010) | 7 | |
Leave Home(Sacred Bones, 2011) | 7,5 | |
Open Your Heart(Sacred Bones, 2012) | 8,5 | |
New Moon(Sacred Bones, 2013) | 7 | |
Campfire Songs(Ep, Sacred Bones, 2013) | 6 | |
Tomorrow's Hits(Sacred Bones, 2014) | 7 | |
Devil Music (We Are The Men, 2016) | 7 | |
Drift (Sacred Bones, 2018) | 7 | |
Mercy (Sacred Bones, 2020) | 7 | |
New York City (Fuzz Club, 2023) | 7 | |
Manhattan Fire (Fuzz Club, 2024) | 6,5 |
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