Registrato nel febbraio del 2005, “Clean Hands Go Foul” è il lost album dei Khanate, compagine scioltasi poco dopo la pubblicazione di “Capture & Release”.
Il canto del cigno di una delle più grandi band degli ultimi anni mostra un quartetto sempre intenzionato a non fare prigionieri, sempre alle prese con la trasfigurazione più allucinata e delirante che il doom-metal abbia mai subito. Tuttavia, pur presentando ancora momenti davvero entusiasmanti, è evidente quanto la formula iniziasse a mostrare dei limiti, tanto che, nel tentativo di crearsi una via di fuga, la band si dedicava, in “Every Good Damn Thing”, ad una sterminata operazione di rarefazione, muovendosi su due livelli: in primo luogo, la massa di simboli sonori che regge l’impalcatura dei primi tre brani viene fatta esplodere in un groviglio di segnali distanti, quasi indistinti; in secondo luogo, invece, il raggiungimento di una visione “ambientale” permetteva alla band di sperimentare nuove ipotesi di mutazione espressionista.
Tuttavia, trentadue minuti non si reggono facilmente, soprattutto quando il brano mostra un’evoluzione non del tutto avvincente, con punte massime di ermetismo in cui quasi si arriva a percepire un’inspiegabile Assenza. “Every Good Damn Thing” conserva, sotterraneamente, un turbamento agghiacciante. Un turbamento che è lasciato solo intendere, quasi per opposizione. Poteva tranquillamente rappresentare un momento di passaggio verso nuovi, futuri scenari, ma, purtroppo, dopo la fine della loro avventura, tutto quello che ci resta è solo il beneficio del dubbio.
Altrove, invece, ritroviamo le solite, magistrali catastrofi psichiche. Le urla allucinate del demone Dubin, gli schianti imponenti della batteria e le muraglie elettriche della chitarra fanno ancora il loro fottutissimo dovere (“Wings From Spine”, “In That Corner”), sigillando con “Clean My Heart” un altro momento fondamentale della loro carriera.
Aperta da folate ghiacciate e da richiami trascendentali, “Clean My Heart” è un mostruoso, magistrale psicodramma, in cui la tensione viene fatta lievitare lentamente, ponendo enfasi su ogni minima sfumatura, su ogni minimo brandello di suono. E’ una maledettissima zona infestata quella in cui questo parossismo dell’anima annichilita dal dolore si rende così diabolicamente esplicito.
Perché la musica dei Khanate è musica in cui la sofferenza, la disperazione, il dolore assumono un peso specifico spaventoso, diventando essi stessi suono-rumore. Insomma, la colonna perfetta per questi anni di meschinità e di degrado morale.
31/01/2009