Quella compiuta dai The Men è una parabola che abbiamo seguito sin dai primissimi passi, dagli istinti noise-hardcore di “Immaculada” (2010) e “Leave Home” (2011) e dal garage-alt-rock di “Open Your Heart”, il disco che l’anno successivo sembrava poterli slanciare verso una platea più ampia. Dopo aver transitato attraverso le impreviste ma riuscite derive southern-Americana in occasione di “New Moon” e “Tomorrow’s Hits”, la band newyorkese è poi rientrata nei ranghi post-hardcore con il possente “Devil Music". In tempi più recenti, “New York City” ha ridefinito un percorso stabile lungo i binari di un garage-rock asciutto e diretto, confermato lo scorso anno da “Manhattan Fire”, progetto a tiratura limitata distribuito esclusivamente in formato vinile in occasione del Record Store Day 2024.
“Buyer Beware” si presenta ancor più cattivo, sia nel sound che nell’atteggiamento complessivo, catturato direttamente su nastro dal producer e sound engineer Travis Harrison, in modo da non disperdere la grintosa carica live espressa dalla formazione americana durante le session di registrazione. L’approccio è devastante, sin dall’energico incipit dell’iniziale “Pony”, a delineare un attacco frontale che sa di proto-punk, di sporchissimo “Detroit sound”, quello di Stooges e Mc5, tanto per intenderci. Un tiro invidiabile che resta costante lungo tutta la durata delle tredici tracce, nelle quali la sana cattiveria non cede mai il passo a qualsiasi tipo di compromesso sonico. Una dopo l’altra sfilano una serie di canzoni rabbiose (“At The Movies“, “Nothing Wrong”, “Tombstone”) che in molti casi restano ben al di sotto dei tre minuti.
Tanti gli ingredienti incendiari: il sassofono che cerca di farsi spazio fra le chitarre della title track, il fuzz sparso un po’ ovunque, l’incandescente hardcore della doppietta “Fire Sermon”/“PO Box 96”, il nineties alt-rock di “Charm”, che potremmo immaginare nelle mani dei primi Dinosaur Jr., il rock’n’roll sporco e cattivo dei Rolling Stones più luridi in “Black Heart Blue”, il noise apparentemente fuori controllo di “Control” (ma guarda un po’).
Dopo l’intermezzo “Dry Cycle”, le ultime tre tracce si spingono persino verso orizzonti ”metal”, fra il passo doom sabbathiano di “The Path” e la strizzatina d’occhio ai Metallica nella conclusiva “Get My Soul”. Un’urgenza che fa scivolare via l’album con leggerezza, senza mai avere il tempo di annoiare l’ascoltatore.
08/03/2025