Ricondotti alla fervida scena del free-noise statunitense, i Sightings amano, invero, definirsi una band di trashy-artsy-fartsy-punk, chiamando in causa, quali numi tutelari, Yoko Ono, i Fushitsusha, i Cabaret Voltaire, il kraut-rock, i Led Zeppelin, la prima fase dell'industrial e via di questo passo. Un suono, il loro, che sa amalgamare, spappolandoli, sintassi musicali anche esteticamente molto distanti tra loro.
I Sightings nascono a Brooklyn, New York, nel 1999, come terzetto - Mark Morgan, Richard Hoffman e Jon Lockie, rispettivamente voce e chitarra, basso e batteria - inseguendo l’idea di musica propria della no wave della Grande Mela. Come insegna il concetto di composizione dei maestri Glenn Branca, Arto Linsday, Contorsions e compagnia bella, sono cacofonie e feedback a creare la melodia. La peculiarità del suono-Sightings, però, sembra essere il magma indistinto di rumore che si erge prepotentemente senza lasciare traccia di strumenti. Un sound splatter spacca-cervelli. Da un certo punto di vista il grind-core noise più estremo ottiene un simile risultato, ma Naked City o John Zorn hanno poco a che vedere con i Sightings. Forse sarebbe più logico accostarli alle estreme produzioni di Branca, in cui manca il sinfonismo e prevale il muro bestiale di schegge dissonanti in una furiosa corsa post-hardcore.
Il sound del trio di Brooklyn è privo delle ritmiche, dei cambi di sonorità e di certo "tecnicismo" di gruppi noise come Boredoms, Fushitsusha o dei più recenti Lightning Bolt o Flying Luttenbachers; la loro atmosfera è una violenta coltre grigia, una cupa e fredda schizofrenia omicida, che percuote fino alla morte con cieca rabbia hardcore. L’"analfabetismo" dei Dna è qui citato a modello, spogliato di ogni pretesa intellettuale. E’ grana grossa, materia primordiale, crudo cannibalismo: urgenza compulsiva, sfogo di pulsioni perverse. Più in linea con la claustrofobia estremista di Big Black, Mars, Merzbow, con la musica dark-industrial europea e con l’estetica brutale dei primi Atari Teenage Riot: la musica di Sightings è hardcore, precisamente techno-hardcore strumentale. Il trio reinventa i tradizionali strumenti del rock per sfoggiare un nuovo rumore da ballare, ed è per questo che si preferiscono i momenti ritmici e i pezzi più dinamici.
Già nel primo album, l'omonimo Sightings, le contorsioni e le urla demenziali sconvolgono l’ascoltatore, catapultandolo in un inferno. Rombi di timpani e chitarre triturate, lo sferragliante punk-noise di "45 On The Back", il noise’n’roll di "Cuckoo", l’apocalittica cavalcata doom-techno "I Feel Like A Porche". "Hate Take Hate", fra le urla-schegge delle chitarre, vede un invasato fare il verso a David You dei Jesus Lizard.
Nel complesso, i pezzi meno ritmici sono anche meno entusiasmanti. "Pitch Of My Voice" è resa vivace da tribalismi noise al limite dell’industrial. Anche "Wax Doors" è trascinata da una sezione ritmica mastodontica e cacofonica. Il basso è a metà fra la tromba di una nave e il barrito di un mammuth. Sembra uno sberleffo hip-hop, ma è industrial-noise da ballo. "Leather Pants Couple" è mad-punk e "Waiting At The Steakhouse" sbraita lurida techno-hardcore.
Un disco marcio e una feroce affermazione. A differenza dei Wolf Eyes, i quali si servono dell'elettronica per creare una destabilizzazione violenta della materia che vanno a ri-modellare - riuscendo il più delle volte solo a lambirne un'apparenza fumigante - i Sightings si muovono verso di essa con quella che è la triade per eccellenza del rock: basso, chitarra & batteria - martoriati, strapazzati, violentati fino a restituire un simulacro elettrico che sembra sconfinare in un mondo parallelo, altro… Un suono che è un campo magnetico di rifiuti "sonici", spolpati fino al midollo, fino a trasmettere l'idea di un'indecifrabile meccanizzazione robotica.
Il lato più violento e cacofonico della band sembra prevalere nel secondo album, Michigan Haters, che arriva lo stesso anno del suo predecessore. Un pezzo compresso e tenebroso che sul primo non toccava i tre minuti (il dark atmosferico di "I Feel Like A Porche"), qui diventa un delirio martellante per voce e chitarra di ben otto minuti, perdendo gran parte del fascino originale. L’old-school-hardcore di "Ich/ic" e "Cargo Embargo" prevarrà sul resto del disco. Pezzi sparati e brevi di un indistinto magma sonico-infernale, basso e batteria picchiano sotto l’epidermide, le chitarre triturano come lame impazzite. La psichedelia di "Chili Dog" torna ad abitare il noise più atmosferico e ritmico dei Sightings e ci regala otto minuti da ballare a occhi chiusi. In "Guilty Of Wrecking" la ritmica morse che incede zoppicando cattura l’attenzione su dinamiche differenti.
Proprio le dinamiche muteranno notevolmente nel disco successivo, Absolutes. Qui pare che la band voglia cercare la varietà che mancava nei primi due lavori, soprattutto nelle evoluzioni all’interno dei pezzi.
Già l’iniziale "White Keys" muta due volte, e ripete in loop una rullata mentre Mark si ingoia il microfono ripetendo sempre la stessa frase nella lingua di un babbuino. Le sonorità cambiano spesso, pare di intravedere delle note ("Anna Mae Wong"); c’è il beat palpabile di "Bishops", e al rumore bianco si affianca l’incedere trotterellante di una carrozza industrial ("Infinity Of Stops"). C’è più variazione, diversi stati d’animo nei pezzi e una drum machine utilizzata per lo più come chitarra noise.
Fanno eccezione l’h/c di "E.E", della sconnessa "Right Side Of The Hall" e quello cadenzato di "Canadian Money". La robotica "Reduction" chiude un disco vario, che promette un futuro diverso.
Registrato dal "guru" Samara Lubelsky (Sonora Pine), che nell'album suona anche il violino, Arrived In Gold soddisfa le aspettative e ci regala un gruppo più maturo e ben disposto a tirar fuori un'anima. Pur trattandosi di aritmetica spicciola, finalmente qui è possibile contemplare i Sightings dediti a calcoli sonori. E’ un altro mondo rispetto ai dischi d’esordio. Si distingue ogni fruscio, ogni fischio, ogni colpo di batteria o i tichettii delle bacchette di legno su metallo.
L’approccio angolare d’assalto e la velocità abrasiva non sono cambiati, ma siamo a un altro livello di definizione del suono e c’è un uso più dinamico della strumentazione. Il caos controllato e la ferocia spaccatimpani regnano in un sound molto più scarno, ma definito. Non si tratta più di un unico tappeto di chiodi in cui è impossibile riconoscere gli strumenti. Oltre all’urgenza espressiva caratteristica della band, le composizioni aquistano uno spessore per la ricerca comunicativa e l’inaspettata perizia impiegata nel dipingere gli stati d’animo. Crescono le sfumature noise-industrial à-la Throbbing Gristle/This Heat che avvicinano il lavoro a quelli di Wolf Eyes o Black Dice, ma la claustrofobia ricorda ancora Big Black. L’affiancamento dell’elettronica alla strumentazione del trio serve a filtrare e trasfigurare il sound tanto da non consentire quasi di distinguere gli strumenti.
"One Out Of Ten" apre il disco con una sobrietà prima sconosciuta, una pulsante aritmia, e si chiude con un suggestivo pianoforte strozzato; "Sugar Sediment" è un basso ipnotico che sale e scende e una chitarra che macina asfalto. La batteria entra soffice; sembrano quasi i June Of '44 che non sanno suonare. Si comincia a mettere a fuoco inizio e fine di ogni pezzo. Per quanto non vi sia traccia di minimalismo, il sound è limpido nella sua sporcizia. Massiccie influenze industriali europee: "Odds On" è Einsturzende Neubauten; "Internal Compass" tekno-samba-industrial con voce automatizzata. Si percepisce un doppio cantato prima dello schizofrenico assolo finale; "Dudes", in un crescendo di spasmi vocali (alla Jesus Lizard) e chitarra-wha, si attorciglia e si solleva in catarsi rumorista. "The Last Seed" è dilatata e riprende fiato prima di "Arrived In Gold, Arrived In Smoke", che è un altro martellante industrial.
Il disco, dunque, denota maturità accompagnata da un’ispirazione che può solo far attendere con ansia la prova successiva.
Prendete qualche quintale di rottami ferrosi e rovesciateli sul tetto della vostra auto. Questo è End Times (2006): una cascata di detriti metallici su una lamiera, con un risultato per l'udito, molto simile a quello del tetto della succitata automobile. Fracassato.
Il disco è un'altra rischiosissima intersezione di massimalismo noise, approccio punk e ritmiche industriali. I Sightings abbandonano ogni barlume di melodia e ritornano alla ferocia dell’omonimo debutto, riprendendo quel sound claustrofobico e angosciante che li contraddistingueva e riportando il volume a picchi da denuncia. Sotto questo aspetto "The Brains You Were Born With" è il loro trionfo: amplificatori che collassano su se stessi, ritmica forsennata e una voce scartavetrata che urla distante nel tentativo di farsi udire.
Ma End Times non è solo un ritorno alle origini, i passi avanti fatti con Arrived In Gold non sono stati affatto dimenticati: capita così di intravedere i Dead C di "Tusk" nel lavoro percussivo della conclusiva "Slow Boat" o di rendersi conto di tenere il tempo con il piede durante "Only Below", lasciandosi trasportare dal suo ipnotico crescendo. "Carry On" è una lamento di voce e feedback su una ritmica circolare, "All The Scams" dimostra che la lezione Harry Pussy è stata ben studiata e "My Due Potion" non si distanzia molto dal tribalismo di certe cose freak-folk.
Prodotto da Andrew W.K. (già in cabina di regia per Wolf Eyes), Through The Panama (2007) spinge ancora oltre l’evoluzione musicale della band, ripulendo il sound e toccando vertici di orecchiabilità, ma mostrando anche una determinazione artistica notevole, che lascia sperare in un roseo futuro. "A Rest" ha ritmica hip-hop, un groove irresistibile, più inquietante di Tricky. "Debt Depths" si avvicina a Trent Reznor con voce malata poi ingurgitata dagli strumenti. "Cloven Hoof" recita singhiozzi di tribalismo sconnesso. La cover di "The Electrician" di Scott Walker è una macabra danza futurista che per la prima volta sente "cantare" Mark, lascivo e perverso.
La band si abbandona alla teatralità più nera. "This Most Real Of Hells" recita poesia e ansima a denti stretti: ormai Morgan si sente un poeta: "Non più intenzionato a distruggere la musica rock, ma intento a mettere a fuoco la polvere e i detriti che si è lasciata alle spalle"(Adam Strohm, "Fakejazz"). "Certificate Of No Effect" riassaggia la tekno degli esordi. "Degraded Hours" intona una preghiera-cantilena folk. "Black Peter" scalda i muscoli per ripartire al galoppo, dando libero sfogo all’energia trattenuta a forza nelle nuove sonorità Sightings. E ci ricorda che i primi brividi che ci hanno regalato erano proprio techno; e non possiamo che esserne contenti… e continuare a "ballare".
Così come dimostrato negli ultimi due dischi, la band sa essere sia convulsa che relativamente "razionale" e City Of Straw (2010) sembra ampiamente confermarlo. Una fornace noise-industrial ottundente che inizia a offuscare la mente da subito, tra scansioni meccaniche, scariche di rumor bianco e un canto degenerato e tossico (“Tar and Pine”). Il suono del trio newyorkese è sempre figlio illegittimo di alcune delle avventure più ostiche e radicali della popular music (Mars, Flying Luttenbachers, Einsturzende Neubauten), come dimostrano numeri claustrofobici quali “Jabber Queens” (tempeste di feedback e rottami metallici che assediano la voce), “Saccharine Traps” (orrenda farneticazione japa-noise) e “Hush” (assordante concerto per stridori assortiti).
La band mostra di perseguire con una certa coerenza la definizione di un’anti-musica post-industriale piuttosto originale, anche se spesso precipita nel baratro della pretenziosità. Nel recuperare le inquietanti istantanee metropolitane dei Throbbing Gristle, i Nostri mostrano, infatti, qualche incertezza di troppo (la title track) – incertezza che colpisce anche le loro ipotesi di ballata per un mondo sopravvisuto al disastro (“We All Amplify). Quando, invece, la materia si fa più consistente, virando verso dimensioni più “rock” (l’incubo psicoanaltico di “Weehawken”, ovvero i Crust rifatti dai Wolf Eyes, e la rutilante “Sky Above Mud Below”), le cose assumono parvenze più digeribili. Ma è, onestamente, troppo poco.
Nel 2011, è la volta di Future Accidents, lavoro che esce per la Our Mouth, etichetta gestita da Brian Sullivan dei Mouthus, e che conferma lo stato di salute non proprio ottimale del trio.
Due facciate piene zeppe di cacofonie, feedback, figure elastico-disastrate di basso, voci tossiche, atmosfere torbide e strutture ritmiche che assomigliano a ingranaggi malfuzionanti.
Rispetto al disco precendente, i brani sono soltanto quattro e mediamente più lunghi, con il picco dei quasi venti minuti dell’ultima traccia. Ma queste partiture più dilatate (in continuo movimento, perché prive di un reale baricentro che non sia quello della trasformazione quasi istantanea di pulsioni distruttive) sembrano amplificare a dismisura le incertezze già evidenti sul lavoro precedente. La dimessa scenografia post-industriale della lunghissima “Public Remains” evidenzia un gusto subdolo per l’affresco sinistro e “sfuggente”, la volontà di tessere ragnatele soniche che, in questo caso, tendono decisamente verso l’astrazione pura e semplice. Potrebbe continuare all’infinito, questo circolo vizioso di echi, stratificazioni, loop, droni e quant’altro, anche se, arrivati a metà, una certa stanchezza la si inizia comunque ad avvertire.
Questa lunga immersione in un mondo parallelo fatto di mistero e sgomento resta, comunque, il momento più interessante di un disco che, per il resto, si perde nella mera ripetizione di idee espresse altrove con ben altra convinzione. Ecco, dunque, “To The World” (pachiderma rumoroso e sconnesso, a zonzo tra esalazioni ispide di chitarre e cavernosi rimbombi di basso), “The Knotted House” (danza sbilenca che sembra mirare al raggiungimento di un’ipnosi degradata) e, per finire, il free-noise derelitto di “On A Pedestal”.
Due anni dopo, Terribly Well rimette, in parte, le cose a posto. Sfiancandosi in mezzo a tribalismi assatanati (“Mute’s Retreat”), liquefacendosi poco alla volta nei miasmi atonali di “Yellow” o danzando istupidito in “Better Fastened” e “Bundled”, il disco fa leva sicuramente su una buona dose di esperienza, senza presentare particolari novità rispetto al passato.
Ai congegni “meccanici” di “Take It In Trade” e “Bucket Brigades” spetta, invece, la palma di momenti meno convincenti.
Dopo aver annunciato lo scioglimento nel 2013, la band fa uscire postumo Amusers And Puzzlers, disco che ruota intorno al lungo monolite di “Syllabus Of Errors”, che imbratta lo spazio con una successione frammentaria di pulsazioni, vaneggiamenti, feedback e rimbombi percussivi, una lenta agonia che fa leva su soluzioni tutt’altro che originali (a conti fatti, si tratta del brano più banale), ma comunque gestite con la solita maestria. Intorno a questa voragine emotiva, si addensano con clamori più esplosivi retaggi no-wave tra sordide manovre per basso, nausee rumoriste, scatenate danze percussive e spirali caotiche (“Counterfeited”, “13”), p-funk disarticolati come Half Japanese comandano (“1982”), repellenti istantanee di gioventù sonica (“I Steal From My House”) e, soprattutto, le orrende visioni suggerite da “Trials Of Peter”: basso saltellante, deflagrazioni a casaccio e distorsioni chitarristiche come se piovesse.
A conti fatti, un canto del cigno diginitoso.
Contributi di Francesco Nunziata ("City Of Straw", "Future Accidents", "Terribly Well", "Amusers And Puzzlers") e Andrea De Pellegrin
Sightings (Load, 2002) | 8 | |
Michigan Haters (Psich-O-Path, 2002) | 7 | |
Absolutes (Load/Riot Season, 2003) | 7 | |
Arrived In Gold (Load, 2004) | 8 | |
End Times (Fusetron, 2006) | 7 | |
Through The Panama (Load, 2007) | 7,5 | |
City Of Straw (Brah/Jagjaguwar, 2010) | 5,5 | |
Future Accidents (Our Mouth, 2011) | 5,5 | |
Terribly Well (Dais Records, 2013) | 6 | |
Amusers And Puzzlers (Dais Records, 2015) | 6 |
Myspace | |
Load Records | |
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