Dead C

Harsh 70's Reality

1992 (Slitbreeze)
free-noise

All'inizio degli anni 80, la Nuova Zelanda vive un prodigioso periodo di rinnovamento musicale. Influenzate tanto dai Velvet Underground quanto dai recenti fuochi della new wave, sono molte le band che si mettono alla ricerca di soluzioni innovative, spesso tentando la carta avanguardista di un approccio radicale, quasi "lo-fi". Il Pin Group (tra le cui fila militò un giovanissimo Roy Montgomery) e i Nocturnal Projections (in seguito diventati This Kind Of Punishment) sono i primi nomi con cui bisogna fare i conti. Nei Nocturnal Projections - fondati nel 1981 a Plymouth dai fratelli Peter e Graeme Jefferies - militava il chitarrista Michael Morley.

Intorno alla metà degli anni 80, Morley, cessata l'attività dei This Kind Of Punishment, venne in contatto con Bruce Russell e Robbie Yeats (già batterista nei Verlaines). Bruce Russell, grandissimo conoscitore dell' underground del posto, si faceva portavoce di un rinnovamento ancora più oltranzista della scena musicale locale. Una scena in cui, sostanzialmente, le band tendevano a disporsi dentro due categorie apparentemente ben distinte: da un lato, quelle che privilegiavano il formato-canzone (tra cui, oltre ai già citati Verlaines, si distinsero i The Chills); dall'altro, quelle dedite a sperimentazioni nel campo dell'improvvisazione (gli Xpressaway e il Pin Group erano stati tra i primi a muoversi - seppur con una certa timidezza - in questi territori). I Dead C nacquero, in sostanza, come una reazione violenta nei confronti del primo tipo di approccio, e, di contro, accentuando le soluzioni e gli umori "progressisti" di Pin Group e Nocturnal Projections.

Tre furono i punti cardine di questa "rivoluzione": 1) riallacciarsi a quella tradizione "rumorista" inaugurata - seppur con modalità non del tutto convergenti - dai Velvet Underground e dai Red Crayola, acuendone, se possibile, gli spigoli e il senso di claustrofobia; 2) privilegiare un tipo di registrazione di tipo "casalingo", evitando multitraccia e diavolerie simili. Solo in questo modo si poteva cogliere - sosteneva Russell - l'essenza di un gruppo di musicisti intenti a fare musica (egli ha, tra l'altro, una vera mania per le registrazioni "mono"). La musica dei Dead C, quindi, è "lo-fi" perché "lo-fi" sono gli strumenti utilizzati per registrarla. 3) Dai primi due punti deriva la conclusione che quello della band neozelandese è un tentativo (uno dei tanti possibili) di presentare "esteticamente" il suono (non a caso, il primo singolo degli Handful Of Dust - il duo che comprende Russell e il violinista Alastair Galbraith - s'intitolerà "A Little Aesthetic Discourse"…).

Russell ha coniato il termine "free-noise" per riassumere i tre punti innanzi esposti. Punto di partenza sono due tesi essenziali: a) ciò che è oltre la musica è il rumore; b) ciò che è oltre le regole è libero.
La musica "free" usa il "rumore" perché quest'ultimo è l'elemento base di tutte le musiche possibili. Vengono così tirati in ballo compositori quali Stockhausen (che tendeva a superare il tempo finito e la morte), LaMonte Young (che espandeva l'"attimo" nell'"infinito"), Xenakis (che spesso si serviva di droni "ronzanti") e Cage (di cui si può prendere a testimonianza la seguente affermazione: "Ritengo che l'uso del rumore per creare musica continuerà e s'incrementerà finché non avremo una musica prodotta mediante strumenti elettrici che renderanno disponibili per ogni scopo musicale tutti i suoni possibili"). Attraverso la stagione del free-jazz, la "free-music" giunse al rock. Il suono di chitarra che Lou Reed regala ai Velvet Underground (derivato, in qualche modo, dalla musica di Cecil Taylor) ne è l'esempio più lampante. Secondo Russell, la "free-music" è lo specchio della realtà, mentre la musica "organizzata" (in un modo o nell'altro) rappresenta solo il vano tentativo di imporre al reale - violentandolo - la soggettività umana. Ma è soprattutto il rumore che deriva dagli strumenti elettrici - meglio ancora se difettosi o di scarsa qualità - che può aprire vaste zone operative per i musicisti. Le macchine difettose, infatti, distanziano il musicista dal processo della musica, introducendo il fattore della "casualità". Gli strumenti adoperati in ambito rock sono quelli più adatti per ottenere un "suono" di tal fatta. Alcune eccezioni sono rappresentate, comunque, con le loro violente bordate fiatistiche, da Albert Ayler, Peter Brötzmann e dai Borbetomagus.

Il primo frutto - ancora acerbo - di questa "estetica" sarà dato alle stampe nel 1987: "DR503". Nel 1989 è la volta del mini "Helen Said These", prima che "Trapdoor Fucking Exit" (1990) riveli in maniera più compiuta tutte le loro intenzioni. Nello stesso anno, "Eusa Kills" si dimostrerà preziosa conferma.

Ma lì dove i Dead C hanno confezionato un'opera destinata a restare nel tempo è nei labirinti oscuri e impenetrabili di "Harsh '70s Reality" (1992), che va annoverato tra i massimi capolavori di rock d'avanguardia degli ultimi due decenni. E' anche, in definitiva, il disco in cui si palesa un'altra fondamentale influenza del suono Dead C: gli inglesi AMM, il cui "AMMusic" (1966) presentava un tipo di improvvisazione radicale basata su ronzii elettrici/elettronici e spaventose accumulazioni rumoriste dal fortissimo impatto "materico". E' quanto pervade, da cima a fondo, i ventidue minuti di "Driver UFO" (Buffy O'Reilly ospite alla chitarra), agghiacciante "scultura sonora" che eleva il rumore a elemento espressivo della psiche. Mantra tenebroso di cacofonie, feedback, glissando, tremoli infernali e sperimentalismi bradi. Monolite nero-perla che nel suo avanzare disumano cancella qualsiasi significato armonico/melodico tradizionale, per lasciare spazio a una "drone-music" asettica, calata dentro una struttura assente, dentro una "blank-form" in cui vagano, paralleli ma mai convergenti, chitarre schizofreniche, un organo moribondo e microfoni di quarta mano.

L'effetto di staticità "agonizzante" è aumentato dall'eliminazione di qualsiasi struttura "ritmica" canonica. Sulla scia di LaMonte Young, infatti, sembra che il brano viva di un'espansione all'infinito di un unico punto temporale. In quell'unico "ora" viene convogliata una potenza descrittiva che ha dello spaventoso. Nulla è come dovrebbe essere. La sensazione è quella di un pastiche sulfureo tra Grateful Dead (quelli "espansi" di "Dark Star") e Velvet Underground, come se i primi rileggessero, dilatandola oltremisura e in chiave "ambient", quasi "shoegazing" dilaniato, la "Sister Ray" dei primi.
Il garage-rock di "Sky" rinverdisce il mito dei Feedtime, ma clonandone solo gli elementi più abrasivi e virandone il sound verso una dimensione "spaziale", come evidenzia, anche se in maniera molto subdola, la linea di chitarra solista che langue psicopatica sullo sfondo.

"Love" svolge una forma molto degradata di ballata "psycho-dark", con la batteria di Yeats ad agitare un ritmo marziale in slow-motion , la chitarra ritmica di Morley che s'arrampica e ricade perennemente nello stesso, sofferente riff, mentre Russell media escandescenze acide e grovigli fittissimi di armonici muti e accordi spezzati. E' un brano che porta al parossismo certe tematiche già presenti nell'ambito della "no wave", di cui, in un modo o nell'altro, i Dead C sono discepoli.

L'impressionismo "scheletrico" di "Suffer Bomb Damage" scava profondissimi squarci in cui s'annidano i frammenti al vetriolo di una chitarra che, a intervalli costanti, depressurizza tensione sotto forma di bordate ambient-isolazioniste, avvilendo una già disperata litania d'organo. E' un salto nell'ignoto, aggrappati al proprio inconscio. L'avversione per qualsiasi elemento melodico trova nella successiva "Sea Is Violet" un nuovo, lancinante manifesto sonico. Una fitta nebbia di frequenze vibranti, pattern batteristici zoppicanti e declamazioni che annegano nel vuoto trovano nell' uso gestuale, dissacrante, cacofonico dell'elettronica, modulato da una perversa tendenza alla deflagrazione armonica, un muro impenetrabile contro cui stendere la propria onda d'urto.
Se i Chrome più ributtanti sono alla base di "Shark" (con Joan George alla voce), con "Constellation" il trio ha evidentemente di mira un declassamento dello space-rock a sfiancante corto-circuito. Così, se il batterismo di Yeats è decorativo-ascensionale, le chitarre farfugliano spaurite, annodandosi l'un l'altra dentro una coltre di noise talmente sgraziato da sconfinare in lastre granulari di meteorismo avant-shronk . Tutto il brano è, in estrema sintesi, un fremito psichedelico fondato sul diagramma di un'allucinazione da sballo eroinomane, la stessa che, in fondo, funge da linea guida per la disarticolata "T. Is Never Over I & II".

Ossessiva e disperata è, nell'immediato, la liturgia al rovescio di "Baseheart", costruita sul gironzolare assassino di una figura di basso che è costretta a sbattere ripetutamente la testa dentro un cerchio di frattaglie ritmiche e di soli abortiti e agonizzanti. Un umore depresso e stentoree avvisaglie di morte attraversano da cima a fondo questo psicodramma del male assoluto, che svanisce, ammantato di terror panico, in un silenzio definitivamente nullificante.

La conclusiva "Hope" mantiene inalterate le premesse di fondo dell'opera: buio, angoscia, nichilismo … Una voce sempre più stanca e disillusa annaspa nelle parole. Con valore scenografico, rintocchi casuali, indistinti mosaici d'echi sotterranei e arpeggi di chitarra sempre più esausti portano a compimento l'ennesimo calvario. Un sentimental journey della malattia mortale prende piede da un cantilenare mortifero, solo per qualche attimo liberato in un allungo garage-rock che evoca gli Scientists, per poi brutalizzarne la verve con quel vortice radioattivo di simboli psichedelici ormai totalmente forzati al volere di una trasfigurazione senza precedenti dell'estetica noise, attraversata da parte a parte, in un gioco di sottrazione che reinventa il genere per l'evo post-rock.

Non a caso, la tensione "negativa" della loro musica si riflette costantemente in una disarticolazione dei modelli fondanti. La matrice "free" è esasperata, spasmodicamente esaltata da performance che hanno sempre il sapore dell'attimo che (s)fugge. Così come i Borbetomagus erano giunti al punto di non ritorno in ambito free-jazz (dilatando le improvvisazioni in un selvaggio sovrapporsi di individualità musicali che scardinavano completamente ogni tentativo di instaurare una dialogicità emotiva al di fuori dell'atto nudo e crudo della pura liberazione istintuale), i Dead C (al pari dei Royal Trux di "Twin Infinitives", ma con esiti diversi) sintetizzano un nuovo modo di forgiare la materia rock. Un modo che ha, per l'appunto, nella frantumazione e nella destabilizzazione della stessa, forse, l'unica vera possibilità di una rivisitazione che tenga conto di una prospettiva effettivamente "post-".

29/10/2006

Tracklist

  1. Driver UFO
  2. Sky
  3. Love
  4. Suffer Bomb Damage
  5. Sea Is Violet
  6. Shark
  7. Constellation
  8. T. Is Never Over I & II
  9. Baseheart
  10. Hope

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